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giovedì 30 dicembre 2010

Buon 2011 a tutti


Le origini del Capodanno. Tra sacro e profano
ricerca di F.Baldisserri (tra le fonti Wikipedia)

Si avvicina la fatidica notte del 31 dicembre e in molti sono già trepidanti ad aspettare di scatenarsi allo scoccare della mezzanotte. Pochi invece sono quelli che conoscono le origini di questo festeggiamento, entrato nella tradizione popolare e osservata sia da chi si ritiene religioso che da chi afferma di non esserlo. In realtà questa festa, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, visto le forti connotazioni di natura pagana, ha molto a che vedere con la religione.
Pare che il Capodanno abbia le sue origini in Mesopotamia, sin dai remoti giorni del II millennio a.C. I mesopotamici credevano che l'universo fosse nato dopo una violenta lotta fra il loro dio Marduk e la dea del caos Tiamat. La vittoria andò a Marduk, il quale, con la forza, impose l'ordine sul caos. Ogni anno la sua impresa era commemorata all'arrivo delle piogge portatrici di vita. Dato che il re rappresentava l'ordine, per circa 11 giorni egli si ritirava, e la popolazione ricreava letteralmente il caos bevendo, permettendo agli schiavi di insultare i padroni e commettendo atti immorali.
Per quella particolare occasione, tutti gli dei babilonesi erano portati in città e partecipavano ad una solenne processione, per aiutare Marduk a vincere la battaglia contro Tiamat. La grande battaglia veniva rivissuta attraverso la lettura pubblica dell'Enuma elish, l'epopea della creazione che ne narrava la storia. In quelle occasioni era normale assistere a riti di esorcismo e altre usanze esoteriche nel tentativo di scacciare gli spiriti maligni che turbavano l'armonia.
Si trovano cenni alla celebrazione del Capodanno anche tra gli antichi Egizi. Qui la protagonista diventava Hathor, la dea dell'amore e della gioia, della musica e della danza. Divenuta in seguito la regina dei morti, aiutava questi ultimi a raggiungere il cielo con una scala. Il giorno di Capodanno era l'anniversario della sua nascita ed era celebrata con grandi feste. Prima dell'alba le sacerdotesse portavano fuori sulla terrazza l'immagine di Hathor per esporla ai raggi del sole nascente. Il tripudio che seguiva era un pretesto per darsi ad una vera e propria orgia, e il giorno si concludeva fra canti e vino.
Di qui le celebrazione portate in auge poi dal popolo romano. Nell'antica Roma il primo dell'anno era dedicato a Giano il sacro dio bifronte. Tale divinità si diceva avesse due facce e due fronti: l'una rivolta indietro verso il passato e l'altra rivolta avanti verso il futuro. Ecco perché Giano era considerato il dio dei passaggi e delle porte, degli inizi e dei termini e da qui il nome gennaio. Anche in questo caso, l'inizio dell'anno nuovo assumeva un significato religioso mescolato però ad una sregolatezza ed a festeggiamenti sfrenati in onore di questa divinità romana.
Con il Capodanno, quindi, ci troviamo di fronte ad una celebrazione che sembra senza alcuna connotazione religiosa, ma che invece ha dimostrato attraverso il tempo di trovare le sue origini proprio in ricorrenze religiose antichissime. Basti pensare all'utilizzo di "mortaretti" e altre fonti di rumore che, a parer di alcuni, emulerebbe proprio l'usanza di fare del chiasso per scacciare gli spiriti maligni.
In molti paesi germanici c'è l'usanza di gettare nell'acqua stagno fuso allo scoccare della mezzanotte, proprio quando arriva l'anno nuovo. Poi, guardando la forma che si crea o l'ombra gettata da quella forma, tutti cercano di indovinare cosa ha in serbo l'anno nuovo.
In Messico, il primo gennaio, moltitudini di persone visitano "le colonne della vita" nelle rovine dell'antica città maya di Mitla. I visitatori usano circondare le colonne di pietra con le braccia, e stabilendo quanto spazio c'è fra le mani tese misurando con le dita, si suppone che corrisponda al numero di anni di vita della persona che abbraccia la colonna.
In Giappone è comune preoccuparsi molto del primo sogno fatto per l'anno nuovo, perché si pensa che riveli ciò che accadrà durante l'anno avvenire. Per assicurarsi un bel sogno i giapponesi comprano amuleti e speciali foglietti su cui è scritta la buona sorte. Tutto questo ci rammenta i tentativi degli antichi babilonesi di indovinare il futuro il primo giorno dell'anno.

Tanti anni fa il capodanno tradizionalmente non cadeva nel passaggio tra il 31 dicembre e il 1 gennaio: queste date derivano dal calendario giuliano, adottato nel 46 a.C. da Giulio Cesare, dal quale prende il nome. Il calendario giuliano riprende e modifica il calendario egizio, e una delle modifiche è l’adozione del 1 gennaio come inizio dell’anno, mentre in precedenza cadeva il 1 marzo. Nel 1582 questo calendario è stato sostituito dal calendario gregoriano, che in realtà è una modificazione del calendario giuliano, ed entrato in vigore con la bolla papale Inter Gravissimas (che non è uno sfottò calcistico..) del papa Gregorio XIII, dal quale prende il nome. Il calendario gregoriano compensa lo scarto tra anno solare e anno del calendario adottando l’anno bisestile ogni 4 anni. L’adozione del 1 gennaio come data di capodanno si deve quindi ai romani. Ma in precedenza non era così, come non lo è oggi per tanti popoli. Le tracce più antiche arrivano dagli antichi babilonesi: si narra che cominciarono a festeggiarlo circa 4000 anni fa, e il capodanno cadeva in corrispondenza della prima luna nuova dopo l’equinozio di primavera.
Altre date del capodanno:
I celti in passato festeggiavano infatti nella notte tra il 31 ottobre e il 1° di novembre, ossia Halloween, per celebrare il periodo in cui la terra si preparava per tornare poi a ridare i suoi frutti. Poco prima dell’autunno invece in alcune zone della Calabria e della Puglia si festeggiava il capodanno il 1 di settembre, seguendo il calendario bizantino. In Inghilterra e Irlanda il capodanno si festeggiava nel giorno dell’incarnazione, il 25 marzo (usanza mantenuta fino al 1752), mentre in Francia il capodanno coincideva con la domenica di Pasqua, ossia la resurrezione di Cristo. La Spagna invece ha mantenuto fino al 1600 circa come data di capodanno il giorno di Natale. Per porre fine a tutte queste differenze locali, nel 1691 il Papa Innocenzo XII decretò che il capodanno dovesse iniziare per tutti il 1 gennaio (detto anche della Circoncisione). Non ebbe successo il tentativo fascista di imporre come capodanno il 28 ottobre, ossia il giorno della marcia su Roma.
Nel resto del mondo invece sono ancora tante le date utilizzate come inizio e che sono estranee alla storia religiosa cristiana: l’esempio più famoso è il calendario cinese, che non inizia in un giorno preciso bensì nel giorno della seconda luna piena dopo il 21 dicembre (solstizio d’inverno), e quindi in un giorno compreso tra il 21 gennaio e il 21 febbraio. Il capodanno islamico si festeggia invece tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, nel primo giorno del mese di Muharram. Una variante è in Iran, dove l’inizio dell’anno coincide con l’equinozio di primavera. Procedendo con i mesi dell’anno, nel sud est asiatico sono diversi i paesi che festeggiano tra il 13 e il 15 aprile. C’è chi festeggia ancora in concomitanza con il capodanno Inca: la festa mapuche cade il 24 giugno. Dopo l’estate è il turno del capodanno ebraico,che si festeggia a settembre, così come quello etiopico, per poi concludere con il capodanno indù, che si festeggia a metà novembre.
Usanze e scaramanzie di capodanno:
Tra gesti scaramantici e tradizioni sono molti i gesti tipici di capodanno: in Italia si mangiano le lenticchie, si indossa biancheria intima nuova e/o rossa, ci si bacia sotto al vischio oppure si buttano le cose vecchie dalla finestra (memorabile la parodia di Fantozzi dove viene buttata dalla finestra una lavatrice giusto sulla sua auto parcheggiata sotto). In Giappone si beve il sakè e si ascoltano i 108 colpi di gong che preannunciano l’arrivo dell’anno (se non ne senti uno non capisco più quando fare il conto alla rovescia!). In Russia si usa aprire la porta al dodicesimo rintocco della mezzanotte per far entrare l’anno nuovo. In alcuni paesi dell’america latina ci si purifica bruciando dei manichini di cartapesta (a Faenza per la stessa ragione si fa nella notte della Befana). In Spagna si mangiano invece 12 chicchi d’uva allo scoccare della mezzanotte.
Se vi dimenticate di fare gli auguri di capodanno… non disperate, e mandate un sms nel giorno in cui festeggiano il capodanno i cinesi o gli indiani: sarete così originali e sempre in orario! Buon anno da Magnaromagna

sabato 25 dicembre 2010

Tharros 3° e ultima parte



Città fenicio-puniche
di Carla Del Vais*

Il santuario più importante della città è il tophet. Nell’area centrale del Mediterraneo (Cartagine, Sardegna e Sicilia) è considerato il santuario tipico del mondo culturale fenicio punico. Si ritiene che sia un’invenzione cartaginese che poi si è diffusa nella sua area di diretta influenza già prima che la città prendesse possesso delle colonie. Quello di Tharros è l’unico posizionato sopra un villaggio nuragico. È stato individuato nel 1963 ma scavato solo dagli anni Settanta. Il basamento, con gli sgabelli litici e gli altari, è ben visibile nell’area.
Il porto di Tharros, invece, non è stato ancora individuato. Si pensava fosse all’esterno, localizzato nel mare morto, perché il mare vivo è sottoposto a forti maestralate, e nessun marinaio si sarebbe azzardato ad approdare in un luogo così problematico e pericoloso. È certamente da localizzarsi all’interno del Golfo di Oristano, forse nella zona di Capo San Marco, o poco più a nord dove ancora oggi c’è il porticciolo dei pescatori. L’ultima ipotesi è che si trovi nel bacino interno, denominato mistral, a ridosso della città. L’area, dal punto di vista morfologico, è cambiata parecchio nei secoli, e gli studiosi stanno cercando di ricostruire l’antica linea di riva. Il mare, dall’epoca della fondazione di Tharros da parte dei fenici, ha subito un innalzamento di circa 150 cm e, per proporre delle ipotesi verosimili, non ci si può basare sulla situazione attuale. Bisogna anche tener conto dell’apporto fluviale dei detriti che hanno mantenuto, comunque il fondo sempre a una profondità costante. La linea di riva doveva essere notevolmente più avanzata rispetto ad oggi. La Regione Sardegna ha finanziato recentemente un progetto per delle ricerche geomorfologiche, già iniziate nel 2003. Le indagini sono state fatte dalla D.ssa Melis, dell’Università di Cagliari, in collaborazione con una equipe di studiosi dell’Univerità di Sassari. Il carotaggio ha mostrato che l’area di Mistral fino ad una profondità di 12 metri presenta contesti che alternativamente hanno indizi lagunari e segni di insenatura marina protetta. Il rilevamento del carotaggio mostra, infatti, strati alternati di sabbia fine, argilla, posidonia, conchiglie, sabbia fine con resti di faune salmastre, altra sabbia, altre conchiglie, ancora resti vegetali di fauna salmastra, e così via a strati alternati fino a 12 metri di profondità. Quando si alzava il livello del mare, si alzava conseguentemente anche quello del fondo dello stagno. Lo spazio conquistato e poi perso dal mare è stato preso volta per volta dall’apporto fluviale. Quando il mare si è alzato, la linea di costa ha subito altri fenomeni e si è delineata autonomamente.

Fino a quando si costruirono la diga del Tirso, e le moderne canalizzazioni, era sufficiente una forte pioggia per scatenare un allagamento di vaste proporzioni in tutta la zona. Per questo motivo le valutazioni della morfologia antica sono particolarmente difficili. Il problema del carotaggio è ricostruire la cronologia: si procede con il metodo C14 e altri metodi scientifici. La carota mostra il livello nuragico, il punico, quello fenicio, il romano e quelli più recenti. Con il carotaggio si hanno forti indizi utili per ricostruire la storia del sito. Nel 2009 c’è stato uno scavo subacqueo, pur considerando che il fondo misura circa mezzo metro. Con una pompa sono stati aspirati i detriti, è stato fatto un rilievo delle strutture sommerse, è stato grigliato tutto il materiale e si è documentato graficamente un muro costruito con grandi blocchi, lungo 200 metri e spesso 4 che, probabilmente, non è riferibile al porto di Tharros. Probabilmente si tratta di una struttura medievale.
L’area occupata in parte dalla laguna di Mistral e in parte da sedimenti recenti, è chiusa da una striscia di sabbia aperta solo in prossimità della peschiera. Fino agli anni Trenta la laguna era in collegamento con lo stagno di Cabras. Dalle foto aeree è stato individuato un muro che attraversa l’acqua e si è cercato di capire se potesse essere collegato al porto di Tharros. L’Università di Sassari avrebbe individuato nella zona il porto fenicio, ma è un’ipotesi da confermare e bisogna essere molto prudenti. L’area lagunare è visitabile parzialmente solo in estate, perché nella stagione invernale il terreno cede ed è pericoloso avventurarsi in auto nelle sabbie circostanti. Effettivamente la zona si presterebbe per accogliere un porto, ma al momento non è stata individuata alcuna struttura. In un’altra zona, poco distante, affiora un basamento, e gli archeologi contano di fare un’indagine di scavo per studiarla, ma al momento non possiamo sapere di cosa si tratta. Il muro lungo 200 metri che collega la linea di sabbia all’isolotto (sul quale nidificano alcune specie protette e pertanto non si potrà scavare), presenta caratteristiche interessanti ed è stato oggetto di due piccole campagne di scavo, sul lato esterno e sul lato interno. Con sistemi non invasivi si è letta la stratigrafia delle strutture sotto il livello del fango, tenuto conto che si tratta di una zona privata e, comunque, un’area protetta. I materiali sono stati accuratamente grigliati e i residui sono stati scaricati in un’area ben precisa per evitare l’intorbidimento dell’acqua. I metodi utilizzati hanno richiesto una notevole delicatezza operativa per rispettare l’ambiente circostante. I carotaggi hanno documentato un muro in grandi blocchi non rifiniti, costituito da due paramenti, con all’interno pietrame e terra pressata, che presentava delle strutture in legno sul lato esterno, quello verso il mare. Erano dei pali posti a distanza regolare. Il muro alto 80/90 centimetri, che in una fase cronologica ha chiuso Mistral, poggia su uno strato di sabbia marina (lo ha rivelato la granulometria), e questa struttura, che è più moderna dello strato punico, ha determinato un cambiamento della situazione ambientale. All’interno abbiamo residui lagunari, all’esterno doveva esserci una linea frangiflutti. Sotto lo strato marino all’esterno del muro, ci sono gli strati punici, ossia un’area di pertinenza del porto punico di Tharros, che devono ancora essere trovati e indagati. La Regione Sardegna ha finanziato uno studio con carotaggi ed ecosonar, così da capire la geomorfologia della zona.

*Attenzione:
Questo scritto diviso in 3 parti, è un sunto della relazione presentata dalla D.ssa Carla Del Vais nell'incontro di Tharros, in occasione del 5° appuntamento con la rassegna "Viaggio nella Storia". Si tratta di una mia elaborazione, eseguita trascrivendo le frasi dell'autrice e rendendole fruibili a chi non ha partecipato all'incontro. Mi scuso per eventuali errori, imputabili esclusivamente a mia imperizia nel riportare gli appunti in questo articolo.


Nelle immagini aeree è visibile la zona dove potrebbe trovarsi l'antico porto di Tharros

venerdì 24 dicembre 2010

Auguri


Tanti cari auguri di Buon Natale a tutti gli amici che leggono o partecipano a questo spazio virtuale.

A chi ama dormire ma si sveglia sempre di buon umore,
a chi saluta ancora con un bacio,
a chi lavora molto e si diverte di più,
a chi ha l'entusiasmo di un bambino e i pensieri di un uomo,
a chi va in fretta in auto ma non suona ai semafori,
a chi arriva in ritardo ma non cerca scuse,
a chi spegne la televisione per fare due chiacchiere,
a chi è felice il doppio quando fa la metà,
a chi si alza presto per aiutare un amico,
a chi vede nero solo quando è buio,
a chi non aspetta il Natale per essere migliore...
a chi vive la sua giornata come una guerra
a chi gira la faccia quando incontra uno di colore
a chi lavora solo per denaro
a chi non sa cosa sia la pazienza
a chi è sempre puntuale ma gli altri no!
a chi mangia in silenzio per ascoltare il tg
a chi non è mai contento di quello che fa
a chi aiuta un amico con parcella scontata
a chi e triste con i suoi desideri da bambino
a chi sogna e rimpiange solo gli anni passati
a chi fa di tutto per non vivere il Natale...

(anonimo) tratto dall'amico Campidano di Paradisola


Immagine realizzata dall'amica Paola "Fiwbuf" dal sito "quellidelphous".

Tharros 2° parte di 3


Città fenicio-puniche
di Carla Del Vais

Le camere tombali sono molto semplici, costituite da un vano rettangolare posto più in basso del livello del dromos, e a volte c’è un gradino nell’ingresso per favorire la discesa. In qualche caso sono documentati i segni lasciati dai piedi delle bare. A Tharros, recentemente, è stata confermata la presenza di pittura funeraria, simile a quella di Tuvixeddu. Anche a Sant’Antioco e Monte Luna di Senorbì abbiamo trovato tracce di pittura. Essendo applicata direttamente sulla roccia, è difficile trovarne tracce perché è delicata e con il tempo scompare. Dal punto di vista culturale, queste tracce mostrano chiaramente una presenza e una influenza africana dirette.
La necropoli settentrionale, indagata nuovamente dal 2009, si trova distante da quella meridionale, in un’area oggi occupata dall’abitato, ma negli anni Cinquanta era libera. Sono visibili solo alcuni lembi della necropoli e i nuovi scavi hanno documentato ciò che rimane. Dal punto di vista tipologico e cronologico è perfettamente uguale a quella meridionale. Le tombe mostrano, oltre al bancone in roccia scavato, anche un bancone in sabbia che suggerisce una arcaicità maggiore. Il corredo funerario si trova sia sopra che dentro la tomba. Sono stati trovati anche reperti come collane in pasta vitrea e gioielli in metallo prezioso. Lungo la costa ci sono altre tracce e si è scoperto che i tombaroli, per risparmiare lavoro, sono arrivati, in varie tombe, a sfondare direttamente il muro di separazione fra una camera e l’altra, risparmiando il vano d’accesso che, quindi, rimane integro.
A Tharros troviamo numerosi segnacoli funerari, e il sito è classificato come quello che ne ha restituito in numero maggiore, a parte Cartagine. Dovevano essere presenti in tutte le necropoli, ma si sono conservati raramente. Erano posizionati sui coperchi delle tombe, oppure utilizzati direttamente per chiudere le tombe a fossa.
Amuleti, orecchini e bracciali in oro, sigilli e scarabei in pietra dura sono fra i manufatti più importanti. A volte gli scarabei avevano la montatura in oro e raffiguravano simboli religiosi egizi come, ad esempio, il sole. Sul ventre, ossia sul retro, erano riportati i simboli per sigillare i documenti. In Mesopotamia, e altri luoghi nei quali si trovavano regni importanti, i documenti erano sigillati con le cretule, cioè palline di argilla sulle quali veniva impresso il simbolo. Nel mondo punico i documenti utilizzavano un supporto in papiro che poi veniva arrotolato, chiuso con una piccola corda chiusa con una bulla, ossia la pallina di argilla, e su questa veniva impresso il sigillo. Gli scarabei sono tutti differenti e ognuno di essi doveva essere la firma di una persona diversa. Per aprire il documento bisognava spaccare la cretula e il proprietario si sarebbe accorto della violazione del documento. Forse qualche scarabeo era utilizzato come amuleto, ma la quasi totalità era utilizzata per scopi pratici.
I gioielli erano realizzati su una lamina che veniva decorata con la tecnica della filigrana, ossia con minuscoli granelli d’oro saldati sulla superficie a realizzare dei disegni. Serpenti egizi, occhi di Orus e altre iconografie, ci rimandano all’ambito culturale orientale, ma non investono tanto la religiosità, sono probabilmente degli amuleti che dovevano proteggere le persone (bambini, puerpere, madri…) da pericoli specifici e venivano portati nella cintura o nelle vesti. Al museo di Cagliari si trova un bracciale con uno scarabeo quadri-alato, con testa di falco e, ai lati, dei motivi vegetali. Ogni oggetto aveva un valore magico specifico.
La città punica di Tharros non ha lasciato molte tracce perché si trova sotto la città romana. Ha vissuto dall’VIII a.C. fino ad età bizantina. L’abbandono è stato progressivo, ed è sancito definitivamente nel 1071 d.C. dallo spostamento della capitale giudicale e della sede episcopale ad Oristano. Ancora oggi si può notare che a livello del piano di calpestio ci sono rocce affioranti, pertanto sotto non può esserci alcuna struttura. Un elemento di rilievo sono le fortificazioni puniche presso la collina di San Giovanni.

Circondavano completamente la città, passavano sotto la torre di San Giovanni, dove ci sono dei blocchi che si riferiscono ad una struttura preesistente. Dalla torre, le mura scendevano giù con un percorso a cremagliera (a zig zag), e arrivavano a chiudere la città sul lato orientale. La torre, messa in opera utilizzando delle grappe in legno duro a coda di rondine, non si è ancora capito con certezza a quale periodo si riferisca. Al termine degli scavi nella necropoli, si avvierà una campagna proprio nella torre per accertarne la cronologia.
Le fortificazioni sono state scavate da Barreca e dal CNR negli anni Ottanta. Sono costituite da mura nelle quali si notano due fasi di edificazione: punica e romana. Le prime sono databili al V a.C. e hanno subìto una sistemazione in età repubblicana con la costruzione di un muro che determina un fossato, e un paramento murario che si addossa al precedente ed è fornito di porte. In età romana imperiale ci fu un parziale riutilizzo come necropoli perché non c’era bisogno di difendersi e l’area venne dismessa. L’abitato fenicio non è stato mai trovato, forse le due necropoli sono segno di due nuclei abitativi separati, ma l’ipotesi più probabile è che l’abitato si trovasse al centro, sotto quello punico. L’abitato attualmente visibile è di età romana, ma si impiantava su strutture puniche già esistenti. Le tecniche costruttive sono puniche, a suggerire che i romani preferirono mantenere quelle tipologie perché erano architettonicamente affidabili.
Nel 1956 Gennaro Pesce intraprese uno scavo nell’abitato di Tharros. Tutta l’area era coltivata e sfruttata anche dai pastori, ma in pochi anni venne portata alla luce tutta la città. Le cisterne sono puniche e l’approvvigionamento idrico avveniva quasi esclusivamente con l’acqua piovana. Con la pioggia si riempivano le cisterne che garantivano il fabbisogno della comunità. Sono i romani ad introdurre gli acquedotti e lo smaltimento delle acque tramite fogne. Le cisterne a bagnarola, ossia di forma allungata con i lati curvilinei, erano coperte da lastre a doppio spiovente, o semplicemente appoggiate. Nel 1993 è stata scavata una cisterna vicina al tophet, con un tipo di intonaco che corrispondeva alla tecnica più arcaica, al cui interno c’erano materiali bizantini. C’è continuità di utilizzo perché, evidentemente, erano valide e adeguate allo scopo.
Del mondo punico sono rimasti anche i templi, il più importante dei quali è il cosiddetto delle semicolonne doriche. Fortunatamente è conservato nel basamento perché in età augustea è stato distrutto ed è stata fatta una gettata di terra sopra di esso per realizzare una grande piazza. Questo tempio non è costruito, ma risparmiato nella roccia dopo essere stato scavato tutto attorno. Su tre lati del basamento i punici hanno scolpito delle semicolonne di influenza ellenistica. Sopra il basamento doveva esserci una struttura, ma abbiamo perso tutto e non sappiamo ricostruirla, pur se nell’area ci sono tanti elementi architettonici smontati dal tempio e riutilizzati in strutture romane. Nella parte superiore delle colonne dovevano esserci dei capitelli di tipo eolico-cipriota sugli spigoli, mentre sui lati i capitelli erano di tipo dorico. C’erano anche dei leoni, simili a quelli di Sulci, con la coda che si attorciglia sulla coscia dell’animale. Pesce propone che sopra il basamento vi fosse un tempietto a edicola, mentre per Acquaro c’era un altare. In un’altra area ci sono i resti di un tempietto, denominato K, inserito su una struttura romana, che conserva elementi di tradizione egiziana e punici. Nel sito si nota la differenza dei materiali utilizzati dai romani (laterizio) e dai punici (pietra tenera come l’arenaria). I punici non conoscevano il mattone cotto e utilizzavano quello crudo, che purtroppo non si conserva. Barreca nel 1956 individuò un altro tempio che si trova nell’area di Capo San Marco, ben distinta dall’abitato. Si tratta di un edificio costituito da due vani affiancati. In uno troviamo un bancone , mentre l’altro è delimitato da pilastri. Nella parete di fondo c’è un altare su cui era posto un betilo. Oggi si ritiene che questo tempio sia recente, di età ellenistica a cavallo fra IV e III a.C. ed essendo visibile dal mare, pur se posto molto in alto e non si può accedere al tratto costiero, era forse legato ai naviganti o alle divinità marine.

...domani la 3° e ultima parte

Questo scritto è un sunto della relazione presentata dalla D.ssa Carla Del Vais nell'incontro di Tharros, in occasione del 5° appuntamento con la rassegna "Viaggio nella Storia". Si tratta di una mia elaborazione, eseguita trascrivendo le frasi dell'autrice e rendendole fruibili a chi non ha partecipato all'incontro. Mi scuso per eventuali errori, imputabili esclusivamente a mia imperizia nel riportare gli appunti in questo articolo.

giovedì 23 dicembre 2010

Perdasdefogu



È da qualche settimana in libreria il libro di Marcello Cabriolu “Il popolo Shardana, la civiltà, la cultura, le conquiste" (Edizioni Domusdejanas), allo stesso tempo fascinoso racconto della avventura vissuta dalla Sardegna e breve trattato, assai ben documentato, sui millenni che precedettero l'era cristiana. L'autore presenterà il libro presso la Biblioteca Comunale di Perdasdefogu lunedì 27 Dicembre alle 17.
La serata, organizzata dall'Associazione Culturale ATHENAEUM 2000 e patrocinata dall'amministrazione comunale del Comune di Perdasdefogu, sarà introdotta dall'Assessore alla cultura Salvatore Mura e, oltre l'autore, interverranno come relatori:
Pierluigi Montalbano – Studioso di Archeologia, ricercatore, scrittore
Sabrina Sarpante – Presidente Associazione ATHENAEUM 2000
Giuseppe Mura – Studioso di Archeologia, scrittore
Paolo Marongiu – Vice presidente Associazione ATHENAEUM 2000

L'ingresso è libero, e sarà una buona occasione per partecipare al dibattito finale, con la possibilità per tutti i partecipanti di porre domande, all'autore e ai relatori, sulle vicende che interessarono il popolo sardo costruttore dei nuraghe e dei bronzetti

Tharros 1° parte di 3


Città fenicio-puniche
di Carla Del Vais

La storia fenicia di questa città si svolge a partire dal IX a.C. circa, quando controllava il golfo di Oristano, insieme ad altre due città: Othoca, che si trova in corrispondenza del paese di Santa Giusta, e Neapolis, in territorio di Guspini. L’abbandono dell’area in età medievale ha favorito la conservazione del sito. La presenza di due necropoli che da molto tempo restituiva materiali preziosi ha attirato, dal Cinquecento in poi, cercatori di tesori che hanno saccheggiato le tombe. Le necropoli si trovano nel villaggio di San Giovanni di Sinis e a Capo San Marco. La prima è parzialmente coperta e rovinata da un villaggio per le vacanze impiantato negli anni Cinquanta. L’abitato punico si trova al centro, presso il colle sulla cui sommità si trova la collina di San Giovanni. Il villaggio era protetto dal maestrale, un forte vento che arriva da nord-ovest e investe il versante orientale del colle. La frequentazione di quest’area precede la fondazione della colonia da parte dei fenici. Con gli scavi condotti nel tophet, a partire dagli anni Ottanta, sono stati rinvenuti frammenti di tradizione cipriota e micenea che suggeriscono una frequentazione dell’area già alla fine del II Millennio a.C. L’insediamento era presente in età nuragica, e ciò costituisce un’ulteriore prova dell’interesse da parte dei nuragici per il mare. Abbiamo, infatti, un villaggio nuragico importante proprio nell’area in cui poi sorgerà il tophet, ma altri nuraghe si trovano su Capo San Marco e, probabilmente, sotto la torre di San Giovanni. Non conosciamo il rapporto fra i primi arrivati dall’Oriente e i nuragici. I materiali trovati sono fuori contesto e le prime certezze, quelle che riconducono ad una fondazione della città di Tharros, sono cronologicamente attestate all’ VIII a.C. I Fenici, che arrivarono prevalentemente dalla città di Tiro, non hanno lasciato tracce documentarie. Ad esempio nel tophet, che si sovrappone allo strato nuragico, non ci sono materiali riferibili alla fase di arrivo dei fenici, e il villaggio nuragico sembra essere stato abbandonato prima. La prima impressione è che nel momento in cui i fenici arrivano nel sito, i nuragici sono presenti solo nell’entroterra. Un segno importante è quello recente di Monte Prama, dove è presente una importante necropoli nuragica databile sempre intorno all’ VIII a.C. Questa necropoli ha restituito un manufatto di produzione orientale che si trovava dentro una delle tombe nuragiche, a dimostrazione di un contatto fra le due popolazioni in quel periodo.
Alcune necropoli sarde sono state indagate a fondo dagli archeologi, come quelle di Sulci-Sant’Antioco e Cagliari-Tuvixeddu. Possiamo affermare che la disciplina archeologica sarda, in particolare quella fenicio-punica, è nata proprio con gli scavi in questi siti e a Nora. Già il canonico Spano sulla base dei materiali recuperati, soprattutto nella necropoli meridionale, iniziò a parlare di colonie egiziane proprio basandosi sull’aspetto egittizzante dei manufatti. Si pensava che a Tharros, e in altre zone della Sardegna, ci fossero queste colonie, ma oggi sappiamo che gli artefici di quegli insediamenti furono i fenici, e che i materiali venivano importati o realizzati su imitazione di quelli orientali. A Tharros hanno lavorato vari personaggi importanti per l’archeologia e, oltre lo Spano, ricordiamo il generale Alberto Ferrero Della Marmora che in quel periodo controllava le torri costiere dell’isola, e soggiornò varie volte nella torre di San Giovanni. I soldati, visti gli scarsi compiti che dovevano svolgere, avevano tempo a disposizione per dedicarsi all’asportazione di ciò che trovavano nel sito. Carlo Alberto, nel 1842, venne col padre in Sardegna in pompa magna per una visita e, fra le attività che svolse, ci fu quella di scavare alcune tombe di Tharros. Nel 1850 il canonico Giovanni Spano scavò 5 tombe per una settimana e ci ha lasciato una descrizione puntuale, con disegni e schemi. Nelle foto scattate durante gli scavi si possono vedere le tombe aperte, proprio come si presentavano al momento dell’apertura. Nel 1851 avvenne uno dei fatti più gravi per la storia di Tharros: dopo l’intervento di un inglese, Lord Vernon, che fece scavi fruttuosi portando via 14 carri di materiali dei quali abbiamo perso le tracce nella zona di Firenze, si scatenò una sorta di caccia all’oro della durata di tre settimane, con oltre 100 persone del luogo che sconvolsero la necropoli. I materiali sono stati dispersi in molte collezioni private, e solo una piccola parte è stata acquisita dai musei di Cagliari e Sassari. Altri materiali sono finiti nei musei italiani e del resto del mondo. Un altro danno venne fatto da Gaetano Cara, allora direttore del museo di Cagliari, che fece scavi regolari pagati dal ministero, ma probabilmente vendette tutto ciò che trovò sotto falso nome. Erano 1700 pezzi e ancora oggi vengono battuti nelle aste a Parigi e Londra, o fanno parte di importanti collezioni. Dopo queste date, la necropoli è stata ulteriormente depredata e sappiamo che nel 1864, Filippo Nissardi, un ispettore di zona della soprintendenza di Cagliari, condusse delle ricerche nell’area e fece un primo rilievo in scala 1:500 della zona per stabilire i limiti della necropoli. Alla conclusione delle campagne di scavo, nel 1885, affermò che la necropoli era definitivamente distrutta, in modo irreversibile. Alla fine di quel secolo la situazione della necropoli era irrimediabilmente degradata. L’attività clandestina, invece, continua ancora oggi. La distruzione dei contesti delle tombe ha, tuttavia, consentito a diversi musei di acquisire molti pezzi che sono alla base degli studi. Ad esempio gli scarabei e i gioielli sono importanti per capire le vicende dell’epoca. La necropoli meridionale, in base agli studi fatti a partire dal 2001 dalle Università di Cagliari e Bologna, ha documentato qualche traccia dell’aspetto originale. In età fenicia, ossia a partire dal VII a.C., nel periodo in cui prevale l’incinerazione, le tombe erano delle semplici fosse scavate nella roccia. È stato recuperato qualche pezzo, come ad esempio un piatto. Nel 2002 è stata individuata una tomba ancora integra che ha contribuito a farci capire come era fatta la necropoli arcaica. Le tombe erano coperte con lastre in pietra ben cementate, e al di sotto c’erano i resti incinerati in deposizione secondaria del defunto con i materiali di corredo ceramico, costituito da brocche e da materiali che ricorrono spesso nelle tombe e sono utilizzati per i rituali funerari, ossia la preparazione del cadavere e la successiva incinerazione. In età successiva, quando arrivano i cartaginesi, la necropoli cambia. Nella prima fase i fenici arrivano in Sardegna fondando Cagliari, Nora, Bithia, Sulci, Monte Sirai, Tharros, Othoca, Neapolis e Olbia. Tuttavia sono entità autonome, non collegate fra loro e sfruttano l’immediato entroterra che serve per la loro sussistenza. Hanno una minima penetrazione verso l’interno, ma a partire dal VII a.C. Cartagine, una delle città fondate dai fenici, riesce a imporre la propria influenza culturale, economica e politica alle città della Sardegna, della Sicilia e di altri lembi di territorio costiero nel Mediterraneo. Si ha un passaggio culturale e rituale importante, e si va formando una politica unitaria, a carattere imperiale. La storia della Sardegna cambia, ma ci sono ancora forti legami con l’oriente.
Il primo cambiamento rilevante si nota nel rituale funerario: si passa dall’incinerazione all’inumazione, e si cambia da semplici tombe a fossa scavate nella roccia di forma ellittica, a fosse ben squadrate di forma parallelepipeda, per finire con le grandi tombe a camera. Le tombe sono coperte da grandi lastre cementate con argilla, e presentano delle riseghe sui lati per favorire la copertura. Le tombe a camera hanno un vano di accesso fornito di scale (dromos) che introduce alla camera per la deposizione. Quando le tombe furono tante, si presentò il problema dei vani d’accesso e delle scale perché spesso le camere si incrociavano e bisognava realizzare modifiche, ad esempio realizzare scale più strette.

...domani la 2° parte

Questo scritto è un sunto della relazione presentata dalla D.ssa Carla Del Vais nell'incontro di Tharros, in occasione del 5° appuntamento con la rassegna "Viaggio nella Storia". Si tratta di una mia elaborazione, eseguita trascrivendo le frasi dell'autrice e rendendole fruibili a chi non ha partecipato all'incontro. Mi scuso per eventuali errori, imputabili esclusivamente a mia imperizia nel riportare gli appunti in questo articolo.

mercoledì 22 dicembre 2010

Popolo Shardana 2° e ultima parte



La Lega dei Popoli del mare.

Relazione di Pierluigi Montalbano sul capitolo 4 del libro di Marcello Cabriolu “Il popolo shardana”, nel convegno di Decimomannu del 18 Dicembre 2010

Dal punto di vista della navigazione, erano frequenti gli atti di pirateria e saccheggio al fine di riequilibrare stagioni commerciali poco favorevoli. Anche l'Egitto subiva continui attacchi da parte dei pirati, e Ramesse II dovette affrontare attraverso interventi straordinari questo grave problema creando una serie di fortezze verso ovest. Gli strascichi della reggenza militare di Seti I, volta ad assicurare i confini imperiali in Siria, stimolarono Ramesse II ad attaccare il regno di Qadesh, controllato dagli Ittiti. Mosse il suo esercitò attraverso la Palestina, verso la valle del fiume Oronte, nel territorio di Canaan. Nel 1275 a.C. i due eserciti si affrontarono nella più grande guerra del secondo millennio a.C. Le rilevanti capacità belliche degli shardana vennero celebrate nella stele di Tanìs, dove i guerrieri corrotti vennero descritti come “ giunti dal mare aperto con le loro navi da guerra e che nessuno era stato in grado di fronteggiare”. La lega dei popoli del mare trasse a proprio vantaggio l'impegno dell'esercito ittita nel fronte meridionale, cogliendo l'occasione per attaccare e cingere d'assedio la città di Troia, che secondo la tradizione letteraria di Omero fu conquistata dopo circa 10 anni di assedio. Nel frattempo tra le due potenze dell’Egitto e Hatti, si stabilì un forte accordo di pace.

La morte del sovrano ittita aprì una crisi dinastica e accese dei contrasti con la vicina Assiria. Il nuovo re assiro Tukulti-Ninurta, erede di Salmanassar, nel 1234 a.C. si stabilì sul Eufrate tagliando la via che collegava Babilonia all'Asia minore, per impedire che i regni di Mitanni e Hatti si congiungessero contro di lui. La situazione politica del Mediterraneo orientale si accese improvvisamente creando migrazioni e movimenti di masse umane originatisi dagli scontri. Alla morte di Ramesse II, il nuovo faraone Meremptha, nel 1213 a.C., inviò aiuti militari e risorse alimentari agli stati anatolici allo scopo di tenere in piedi l'ultimo baluardo armato contro il popoli del Nord e dal mare. La confederazione spietatamente votò per l'invasione e, dopo aver distrutto la capitale Hattusa, scatenò contro l'Egitto la bufera. Il primo esercito confederato provenne dalla Libia, il secondo attraversò la Palestina. La presenza shardana, proveniente dalle coste dell'Asia minore e dalle isole in mezzo al mare, fu riconosciuta nei guerrieri portanti elmi con grandi corna, scudi rotondi e lunghe spade a punta. Il Delta venne travolto e occupato dall'esercito degli invasori, seguito da tutto un popolo di donne, bambini, bestiame e carri diretti a Menfi. L'esercito egizio reagì duramente, tuttavia la minaccia dell'invasione non fu sventata completamente. Il Mediterraneo orientale fu sconvolto da una grave crisi commerciale che si riflette sull'Egitto sia dal punto di vista economico che politico. Le cronache riportano l'offerta di prigionieri di guerra ai templi, richieste di manodopera per la coltivazione della terra, e di uomini d’armi da impiegare nelle milizie dei grandi sacerdoti.

Agli shardana arruolati nell'esercito imperiale venne assicurato lo stipendio e vennero assegnati dei terreni come forma di assistenza, soprattutto nei territori di confine allo scopo di contenere le invasioni. Nel 1202 a.C., alla morte di Meremptah, scoppiò l'anarchia. Intanto 1un secondo contingente della lega dei popoli del mare si mosse verso sud attraverso la Palestina, facendo terra bruciata di regni del Mitanni, Qadesh e Amurru. L'isola di Cipro venne rioccupata, la città di Karkemish e il porto di Arwad (Arado) vennero conquistati come basi terrestri, mentre Ugarit, Tiro e Sidone vennero distrutte. In Palestina, i peleset (filistei) fondarono una pentapoli, e da questa regione si muoveranno gli eserciti per contrastare la nascente potenza d'Israele. Nel 1187 a.C. sale al potere il faraone Ramesse III, che nel quinto anno di governo si scontra violentemente con i popoli del mare sul delta del Nilo.

Le guarnigioni egizie riescono a fermare la campagna militare della lega, e il corpo a corpo tra i natanti, secondo le cronache, ebbe esito positivo per gli egizi. Ramesse III per scongiurare nuove invasioni consentì ai libici e agli shardana di stabilirsi in tutta la fascia occidentale del Delta, e i due popoli di vennero in seguito il difensore dello Stato contro nubiani e siriani. Di seguito alla grande crisi politica del XII a.C. alcune componenti della lega tornarono alle loro antiche sedi. Gli shardana e gli shekelesh rientrarono in Sardegna e Sicilia, ospitando gruppi di vecchi commilitoni senza patria, quali pelesets e akawasha. Una parte dei Tursha e degli Tjekker si stabilì rispettivamente nella costa tirrenica dell'Italia e nell'Anatolia dando origine e regni neo-ittiti. Alcune componenti importanti di shardana, peleset e akawasha rimasero stabili nel Delta del Nilo sino alla Siria, andando ad occupare la valle di Jezreel e la catena di Monte Carmelo. Queste popolazioni sono identificabili anche come i nuovi cananei, eterni avversari di Israele, che ristrutturarono alcune città Stato e diedero origine ai presupposti della navigazione e degli scambi commerciali del I Millennio a.C. La lega dei popoli del mare non lasciò altre tracce, ma diedero un impulso vitale al Mediterraneo occidentale, impostando il sistema cittadino e divenendo in seguito la potenza antagonista di Roma, ovvero Cartagine.

Colgo l'occasione per segnalare che lunedì 27 Dicembre, presso la Biblioteca Comunale di Perdasdefogu, a partire dalle 17, l'autore presenterà il libro, insieme ai relatori: Pierluigi Montalbano, Giuseppe Mura, Paolo Marongiu e Sabrina Sarpante.


Le immagini sono del Museo Archeologico di Cagliari

martedì 21 dicembre 2010

Popolo Shardana 1° parte di 2



La Lega dei Popoli del mare.

Relazione di Pierluigi Montalbano sul capitolo 4 del libro di Marcello Cabriolu “Il popolo shardana”, nel convegno di Decimomannu del 18 Dicembre 2010


D’accordo con Miller, si può affermare che con il termine talassocrazia si indica il dominio sui mari esercitato da una potenza costituita da più entità che non si sovrappongono fra di loro nel tempo ma conservano un primato sul mare, che passa in una continuità ed eredità storica, dall'uno all'altro. I gruppi umani individuati come i detentori di questo potere sono identificabili con i popoli del mare, definiti nel tempo come Haou Nebout, minoici o micenei. I componenti di questa Lega provengono da svariati luoghi, collocati sulla costa del Mediterraneo. Nel II Millennio a.C. una potenza marinara modificò profondamente gli scenari politici del Bronzo e fu artefice dei commerci di beni di consumo e di lusso. Questa Lega, che Glotz giustamente apostrofa di spiccata propensione bellica, gestiva il commercio di beni fra il Mediterraneo, l'Asia e il Nord Africa. Le cronache egizie riportano che i contingenti navali, a seconda delle necessità, salpavano carichi di merci o di guerrieri verso i porti del Mediterraneo orientale. Secondo i testi vengono chiamati Shardana, Tursha, Shakalasa, Akawasa, Libou, Pheleset, Tjekker e altri, ma i testi ebraici e greci, molto tempo dopo, li definirono come sardi, etruschi, siculi, achei, libi, filistei, dori. Le analisi delle nuove ricerche archeologiche svolte nel Mediterraneo mirano a legare tasselli di un mosaico di eventi che si svolsero tra XV e IX a.C. La presenza di manufatti nuragici disseminati lungo il Mediterraneo indicano senza ombra di dubbio la forte presenza dei sardi in questi eventi. Una distinzione va fatta fra le ceramiche incise, di matrice sarda, e quelle dipinte, di matrice orientale. Queste ultime sono fabbricate al tornio. Alla Lega che gestiva, in un sostanziale regime di monopolio, i commerci nel Mediterraneo, si contrapponevano i grandi interi basati su monarchie assoluta quale gli egizi e gli Ittiti. Lo sviluppò sulla terraferma greca di una forma di civiltà nel III Millennio a.C., viene definito come periodo proto elladico, ed è caratterizzato da insediamenti tendenti a forma cittadina, caratterizzate da costruzioni circolari o con pianta absidata. Gli studiosi sono concordi nel sostenere che gli abitanti di questi insediamenti non bruciassero i loro morti, ma li seppellissero, sistemandoli in posizione fetale e accompagnando il loro sonno con corredi modesti, all'interno di ceste litiche. Durante una campagna di scavi mirata a scoprire le fondamenta del palazzo miceneo di Tirinto, si rinvenne una grossa costruzione circolare di 28 m di diametro, definita la rotonda, con pareti spesse 5 m edificate a mura concentriche. Questo edificio complesso viene tuttora riconosciuto quale antica sede del tiranno, ovvero il reggente della Tirra, un principe. La struttura costituisce uno dei più antichi esempi di torre a scopo abitativo e riprendere la funzione che caratterizza alcuni nuraghe in Sardegna, e proprio come questi, è dotata di ingressi sopraelevati. All'inizio del II Millennio a.C. considerevoli masse umane provenienti dall'area compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio, sono andate a occupare l'Iran, la Cappadocia, la penisola greca e la Palestina. Le moderne elaborazioni individuano negli Akawasa, queste genti provenienti dall'Anatolia nord occidentale, recanti importanti cambiamenti tecnologici e culturali. Vengono a crearsi, nel contesto egeo, nuovi insediamenti, e impianti funerari, con uno stile architettonico particolare, confrontabile con gli edifici in stile nuragico. Questa nuova epoca è denominata Medio Elladico, nella quale è possibile distinguere come micenei i popoli appena inquadrati. Attorno al 1730 a.C. all'estremo sud della Palestina si stabiliscono gli Hyksos, dominati da un'aristocrazia guerriera ariana. Sono in possesso di conoscenze metallurgiche avanzate e invadono, armi in pugno, l'impero egizio dal lato orientale, travolgendolo. La cronologia fatta da Manetone, descrive come monarchie le dinastie XV, XVI e XVII, e pone nel delta orientale del Nilo la capitale Avaris. Dopo due secoli di dominio Hyksos, la liberazione dell'Egitto viene ultimata intorno al 1550 a.C. dal re di Tebe Ahmosis. In questi due secoli le cronache testimoniano che le città del Delta annodarono rapporti commerciali con Creta e tutta la Mesopotamia. Continuano anche i rapporti con la Sardegna, vista la presenza di quantità notevoli di oggetti egizi in territorio sardo. I fossili guida che mostrano questi rapporti commerciali sono gli scarabei, le tavolette votive con triadi divine, bracciali decorati a filigrana, sarcofagi, anelli e altri manufatti. Al momento, la lettura di questi oggetti mostra esclusivamente cartigli di sovrani compresi fra la dodicesima e la diciottesima dinastia, ossia fra il 1900 e il 1300 a.C. Questi materiali provengono da centri portuali o urbani in genere, già attivi come insediamenti, che grazie alla loro collocazione in prossimità di aree minerarie o punti di lavorazione dei metalli, subirono un fenomeno di concentramento di beni ed attività produttive.

Verso il 1400 a.C. la potenza minoica terminò le sue vicende, certamente a causa delle conseguenze dell'esplosione avvenuta qualche secolo prima del vulcano Santorini. A Creta giunse una nuova popolazione che trasformò l'architettura funeraria tramite l'edificazione di tombe a tholos e camere rupestri. La civiltà micenea riuscì a entrare nei traffici internazionali poco dopo il crollo di Creta nell'egemonia dei traffici della zona. Non si conoscono bene i fatti che portarono a questa sostituzione, ma certamente gli esecutori materiali delle operazioni furono guerrieri ai quali fu ordinato di distruggere Creta. In cambio di queste prestazioni belliche, furono concessi alcuni territori per edificare dei nuovi centri sull'isola, individuabili grazie le caratteristiche strutture abitative ovali e tramezzate. All'esercito shardana, che partecipò a questi eventi, fu concesso di possedere le isole di Lemno e Imbro. Fondarono nuovi sbocchi commerciali e, insieme agli akawasa-achei, partecipavano al controllo dei traffici marini. L'Egitto tentò un'opposizione armata a tali progetti, ma la minaccia di un'invasione con le relative conseguenze, e un'intensa attività diplomatica, ammorbidirono il contrasto. Il faraone si convinse che a fronte di una convivenza pacifica e dello sfruttamento del Delta del Nilo, l'Egitto avrebbe continuato gli scambi commerciali con la Lega dei popoli del mare. Concesse a gruppi di libou e shardana di stanziarsi nel Delta del Nilo e nella frontiera orientale, dando loro la possibilità di importare tecnologie e incrementare il benessere economico. Le capacità dei popoli del mare, vennero messe a disposizione di Amenophis III e molti shardana entrarono a far parte della guardia reale. In questo periodo partì una riforma al sistema monetario egizio e la monetazione in oro fu sostituita da quella in argento, indizio dell'influenza dominante del commercio internazionale sulla vita economica del Delta. In Egitto non vi è argento, ma il preso possesso da parte dei sardi di alcune zone di Creta e Cipro, insieme ai relativi benefici goduti in Egitto, suggerisce una provenienza del prezioso metallo dalle ricche miniere sarde e spagnole. Attraverso le raffigurazioni dei dipinti posti nell'ipogeo di Rekhmire, Visir dell'antico Egitto, si possono individuare i principi provenienti da Keftiu che recano doni fra i quali spiccano i lingotti in rame ox-hide ben conosciuti in Sardegna. Le capacità militari degli shardana di stanza a Byblos furono argomento di discussione intorno al 1350 a.C. fra Amenophis IV (Akhenaton) e il governatore della città Rib-Addi, tale da imbastire una corrispondenza intensa allo scopo di incrementare il reclutamento di questi guerrieri sia nell'esercito egizio e nella guarnigione di Byblos. In questo periodo occorre segnalare la rotta verso lo stagno della Cornovaglia e della Bretagna passante per lo stretto di Gibilterra, oppure attraverso la valle del Rodano, dove si segnalano contatti fra la Sardegna e il Midi francese, con la presenza di ceramica a listelli verticali tipica della facies de Sa Turricula. Sempre in questo periodo esplode la capacità edilizia shardana attraverso le svariate testimonianze sparse in tutto il Mediterraneo. Castello di Lipari, Capo Graziano, Panarea, Thapsos, Pantelleria, Gurnia a Creta, Khirokhitia a Cipro, la fonte perseia a Micene, l’Unterburg di Tirinto…presentano forti tracce della presenza dei sardi.
L’impero ittita decide di commissionare degli importanti lavori quali le cinte murarie di Hattusa, di Bogazkoy, di Buyukkale, il tunnel sotterraneo di Alacha Huyuk. Questo stile si diffonde fino a trovare riscontro in Palestina, nelle città di Megiddo, Hazor, e nelle fortezze di Sharuhen, Ugarit ed El Awat. Nell'analisi dell'influenza sarda è doveroso ricordare la conquista di Lemno e Imbro, che rappresentano un punto chiave di fronte alla vie di passaggio delle tratte commerciali provenienti dall'Asia e in transito per lo stretto dei Dardanelli, tale da far concorrenza alla città di Troia. La fondazione di Garlo, a 50 km da Sofia, e la creazione di un posto sacro simile a Funtana Coperta (Ballao) e Sant’Anastasia (Sardara), mostra come la lega dei popoli del mare, e con essa gli shardana, tesse una politica coloniale mirata al controllo delle vie commerciali. La costa orientale del Mediterraneo è impostata su una frammentarietà di Stati e regni che orbitavano nelle aree di influenza dei due maggiori imperi del XIII a.C. L’Egitto e Hatti.

...domani la 2° e ultima parte

Colgo l'occasione per segnalare che lunedì 27 Dicembre, presso la Biblioteca Comunale di Perdasdefogu, a partire dalle 17, l'autore presenterà il libro, insieme ai relatori: Pierluigi Montalbano, Giuseppe Mura, Paolo Marongiu e Sabrina Sarpante.

lunedì 20 dicembre 2010

Viaggio nella Storia alle grotte Is Zuddas

Il culto dell'acqua, Santadi
con Pierluigi Montalbano

Si è svolto ieri nel sublime scenario delle antichissime Grotte Is Zuddas, il 6° appuntamento con la rassegna culturale “Viaggio nella Storia” organizzata in collaborazione con i docenti dell’Università di Cagliari, giunta alla terza edizione consecutiva.

La giornata è iniziata con la visita guidata della grotta, a cura della guida locale. L'esperto geologo ha spiegato la storia della formazione del sito e le peculiarità che ne fanno una delle grotte più interessanti d'Europa. Il rilievo del Monte Meana, nel quale si sviluppa la cavità, è costituito da rocce dolomitiche risalenti a circa 530 milioni di anni. La grotta, ancora in attività, consta di diverse sale ognuna delle quali si differenzia per la particolarità delle concrezioni. Negli anni Sessanta la grotta venne utilizzata come cava di marmo, poi nel 1971 grazie all’intervento dei ragazzi dello Speleo Club Santadese si provvide alla chiusura ed al controllo della cavità, che mantiene una temperatura costante di 16 gradi e l’umidità vicina al 100%.
Lungo il percorso turistico che si sviluppa per circa 500 m i partecipanti hanno ammirato le imponenti concrezioni: dalle stalattiti alle stalagmiti, passando per le colate e le cannule fino alle rare eccentriche di aragonite. Queste ultime rappresentano la caratteristica principale delle grotte. Le aragoniti si presentano sotto due forme distinte: le aragoniti aciculari, che appaiono come grossi ciuffi di cristalli simili ad aghi, e le spettacolari Aragoniti eccentriche (la cui elevata concentrazione in un'unica sala rende queste grotte uniche al mondo): formazioni filiformi che sviluppandosi in ogni direzione senza essere influenzate dalla gravità assumono spesso delle forme bizzarre.

Nella grandiosa sala dell’Organo è stato allestito un grande Presepe, reso ancora più suggestivo dalle sculture opera di Gianni Salidu.
Alle 13 il gruppo si è spostato nei locali di ristoro ubicati all'ingresso del sito, dove ha assaporato il tradizionale pranzo con menù tipico.
Nel pomeriggio si è svolta la visita al museo archeologico di Santadi, con una visita guidata condotta da un relatore d'eccezione, l'archeologo Remo Forresu, che ha presentato tutti i materiali esposti nelle vetrine, molti dei quali costituiscono un'attrattiva unica nel panorama sardo.

Il Museo Civico Archeologico di Santadi è stato inaugurato nel gennaio 2001. Il ritrovamento nel 1968 del tempio ipogeico di Su Benatzu, dedicato al culto delle acque sotterranee, aveva portato Santadi al centro dell’attenzione del mondo archeologico sardo: nella grotta santuario di epoca nuragica furono rinvenuti migliaia di vasi e un numero rilevante di bronzi comprendenti un tripode, pugnali sacrificali, navicelle votive, una lamina in oro e resti di monili. Successivamente al tempio vennero indagate anche: la tomba dei giganti di Barrancu Mannu, la città fenicio-punica fortificata di Pani Loriga e la necropoli prenuragica (a domus de janas) di Montessu, al tempo situata nel territorio del comune di Santadi.

Al termine della serata i partecipanti si sono scambiati gli auguri per l'imminente Natale e si sono dati appuntamento per Domenica 06 Marzo 2011, quando a Nurallao sarà relatrice Alessandra Saba che esporrà la tomba di Aiodda e i menhir antropomorfi. Ospite della giornata sarà il professor Giovanni Ugas.

domenica 19 dicembre 2010

Acqua e riti di culto


Ipotesi sul culto dell'acqua.
di Pier Paolo Saba


Fin dalle origini, l'Acqua, è stato il veicolo principale che ha creato e permesso la vita. Questo Elemento indispensabile alla sopravvivenza è quello che fin dai tempi più remoti, l'uomo, ha tenuto nella massima considerazione come un dono divino, al quale lo ha accostato. Naturalmente questo dono prezioso ha contribuito, associandolo ad una divinità, a creare dei riti che si sono poi tramandati alle leggende giungendo fino a nostri tempi.
L'Acqua è servita ai lavacri rituali, oltre che all'uso dell'igiene personale, dalla quale ha attinto, per presentarsi puliti innanzi al Dio invocato.
A questo punto, è chiaro che si sia creato un culto vero e proprio, un culto che prevede degli obblighi da seguire come rituale specifico.
In ogni latitudine si è osservato che l'uso rituale dell'acqua è stato sempre usato ed un esempio classico moderno, è il Gange, in India. Lo stesso rituale è manifesto nel battesimo Cattolico Cristiano, nel lavaggio dei piedi usato dai Musulmani prima di entrare alla Mecca, ma questi esempi scivolano indietro nel tempo e ci riportano alle antiche culture come la Sumera e Babilonese che, nell'area Medio Orientale, tra il Tigri e l'Eufrate ha coltivato per millenni usi e costumi legati poi indissolubilmente all'acqua che i due grossi fiumi hanno alimentato la vita di quelle genti come la stessa cultura Egizia che attraverso il Nilo, tuttavia non divinizzato, per gli effetti che produceva con il ciclico straripamento delle acque, permetteva la continuità della vita elargita dal Dio – Hapy - ( Hapy; nome del Nilo dalla traduzione geroglifica) che obbligava i suoi sacerdoti ad un rispetto ferreo dei rituali. La casa - tempio del Faraone, era il luogo dove si celebravano i riti legati al Nilo: Nello stesso tempio, era situata una immensa vasca dove il Faraone assistito di sacerdoti officiava ed implorava la divinità affinché soddisfacesse i desideri e le preghiere dei fedeli.
Con un sofisticato sistema idraulico, l'acqua del Nilo era portata alla vasca dove periodicamente si eseguivano i riti così officiati:
I sacerdoti che facevano corona intorno al Faraone, erano vestiti di una pelle di leopardo posta sopra la tunica bianca, avevano la testa rasata, e quattro volte al giorno purificandosi con i bagni fungevano da intermediari tra i fedeli e la divinità MUT (dea della guerra e delle inondazioni) alla quale si incoccavano.
Oltre che in Egitto, lo stesso culto si diffuse poi, in tutto il mondo di allora, approdando a suo tempo a Roma la dove la cultura egizia era stata importata. Roma, multietnica e culturalmente straordinariamente avanzata, era anch'essa legata al culto delle acque come, d'altronde, tutte le città del mondo antico ci riporta in Sardegna, terra dove il culto era piuttosto esteso e praticato sin dagli albori.
Oltre 12000 anni fa, alla fine delle glaciazioni, nel Wurmiano, genti provenienti dall'Africa, dalla Spagna e poi dalla Liguria iniziarono a praticare dei riti legati al culto delle acque. Tale culto era collegato alla luna che rifletteva i suoi raggi sull'acqua, creando effetti che impressionano notevolmente officianti e fedeli, durante il plenilunio nelle notti tra Dicembre e Febbraio, a mezzanotte, quando la luce della luna cade perpendicolare sullo specchio dell'acqua, il riflesso argenteo risale le scale e fuoriesce dal pozzo.
Dai rilevamenti scientifici così rivelati, prendono finalmente corpo tante leggende legate a questo culto delle quali si può estrarre un compendio su quanto succedeva, allora, durante i riti.

Un ipotetico caso sullo svolgimento del rituale dell'acqua.

L' imponente mastio di “Santu Antine” è illuminato a giorno, quella, la Regia Sacra dalla quale i Sacerdoti seguiti dal Capotribù, dignitari, militari e popolo tutto in un corteo lunghissimo che si snoda fino al Pozzo Sacro, seguono il Principe.
Sebbene il percorso sia brevissimo, il tempo sembra si sia cristallizzato, immobilizzato non passa più.. Il loro incedere è lentissimo nonostante il clima, quella notte, non sia troppo clemente... Il freddo della notte, quello venuto da nordest è molto pungente e graffiante, ma non incide più di tanto sui propositi che sono prefissi per quella notte e già da tempo preannunciati.
Al seguito, musici ed officianti salmodianti, tutti con una torcia in mano, sfilando, creano un effetto surreale tale, impressionante e fantastico.
Dentro e fuori, il Recinto Sacro antistante il Pozzo, è gremito di gente che freme nell'attesa e fa da corona in due larghe ali al corteo che si avvicina.
In piedi, un Sacerdote ed alcuni assistenti attendono il corteo con il Principe che assisterà al rito che si compirà tra breve.
Un brusio generale si accende e si spegne all'istante alla presenza del capo che ha appena varcato la soglia dell'area sacra. La fissità del suo sguardo volto al pozzo, all'ingresso, si volge improvvisamente al cielo dove la luna con la sua luce splendente illumina gli astanti mentre si avvicina sempre più all'orifizio aperto sulla verticale del pozzo dove lascerà cadere i suoi raggi.
A tre metri dal Sacerdote che lo aspetta, il Principe si ferma e si volta verso il suo popolo che intanto si è inginocchiato reverente in segno di rispetto. Alzata la mano destra in segno di saluto e protezione, benedice tutti e voltatosi ancora si pone innanzi all'altare che è stato allestito per l'occasione, altare sul quale, nel frattempo, era stato posto un animale da sacrificare alla Dea Madre, la Luna, che, con i suoi raggi avrebbe rigenerato l'acqua, purificata poi, attraverso il sacrificio che pochi stanti dopo si sarebbe compiuto in onore della divinità.
L'aureo colore del coltello di bronzo balenò per un istante alla luce lunare ed affondò profondamente nel collo della vittima sacrificata, senza proferire un lamento, come fosse cosciente dell'importanza del suo ruolo in quella particolare occasione. Mentre il sangue sgorgava a fiotti, il sacerdote ne raccolse una piccola parte in una ciotola e ne versò alcune gocce nell'acqua del pozzo nell'istante che la luna immergeva i suoi raggi rigeneranti e purificatori sull'acqua tinta di sangue che si dissolse in un istante mentre si compiva il Miracolo. La lama di luce argentea che si stagliò dal pozzo, impressionò notevolmente la moltitudine che aspettava fremente il responso della divinità, la luce fantasmagorica che si stagliò verso il cielo illuminando l'intera area e le genti che aspettavano, le fece esplodere in visibilio con un canto di ringraziamento che preludeva allo sfarzoso banchetto organizzato in precedenza, già qualche giorno prima, nell'attesa che si compisse il miracolo tanto bramato.
Alla conclusione del rito, il Principe, seguito dal corteo che lo aveva accompagnato, salutato il popolo tutto ed augurato un felice e prospero futuro, si incamminò per tornare alla reggia dove l'intera famiglia e dignitari vari lo aspettavano per fare festa.
Intanto la stessa festa si consumava dentro e fuori il Sacro Recinto dove le genti si erano accalcate.
Il vino ed altre bevande ricavate da cereali fermentati scorreva a fiumi quella notte, accompagnando le carni che erano state arrostite e bollite poste in una marea di grossi bacili di pietra dove sul fondo, mirto ed altre erbe aromatiche impreziosivano il gusto di quelle pietanze prelibate. Non mancavano formaggi di vario tipo, frutta fresca e secca, abbondava insieme al latte freschissimo munto la stessa sera. Non mancavano neanche i pesci ed i frutti di mare di cui erano golosi e per il fatto che il mare poi, non era troppo lontano dalla zona, naturalmente c'erano anche quelli pescati nei fiumi e negli stagni dove abbondavano le anguille, anch'esse prelibate.
Una festa meravigliosa accompagnata da canti e suoni di tamburi e strumenti a fiato, flauti e Launeddas suonavano ininterrottamente inebriando il pubblico che scioglieva i propri freni inibitori con abbondanti bevute, mentre la notte, seppur freddissima, sembrava non esistesse intanto che scorreva lentissimamente ma, scaldata da enormi falò innalzati per l'occasione e che continuavano ad ardere fin oltre il sorgere dell'alba, un alba nuova, un giorno nuovo carico di buoni auspici portati dall'evento miracoloso verificatosi nell'istante del sacrificio, in quella notte appena trascorsa.
Appagati, finalmente, gradualmente tornarono tutti alle loro capanne.

Storie più o meno simili si sono alternate vicendevolmente nei tempi, così il culto dell'acqua è ancora presente attraverso il battesimo nella Chiesa Cattolica. Il rito del battesimo ripete l'antico lavacro purificatore, infatti, esso ha la funzione di lavare il peccato originale e di rendere “puro” il neonato, “Purificato” appunto.
Alla stessa maniera l'Acqua Santa con la quale ci si segna con la croce entrati in chiesa, ha la stessa funzione, ossia quella di presentarsi puri, lavati simbolicamente, innanzi all'Altare.
Questo culto antichissimo è stato trasformato a suo tempo e riutilizzato dalla Chiesa Cattolica, come ha sempre fatto, imponendo nomi cristiani a luoghi, città e paesi dove si praticassero antichi culti pagani con la scusante della cristianizzazione.
Con la trasformazione dei nomi, molti dei luoghi sono andati scomparendo almeno quanto i riti che anticamente si tenevano in determinate località.

Il culto delle acque
di Shardanao, da blog.libero.it

L’acqua è sempre stata oggetto di culto presso tutti i popoli. L'assenza o la scarsità dell'acqua ha contribuito a creare in Sardegna una situazione di grande povertà, di spopolamento e conseguente impoverimento dell'attività produttiva incidendo sui destini dell'isola. Tale culto ha assunto in Sardegna delle manifestazioni magiche e religiose. Per cui nel passato, ma non solo, si ricorreva alla magia, attraverso la quale gli abitanti per più di tremila anni hanno espresso la loro paura, angoscia e speranza invocando un Dio che facesse cadere dal cielo il prezioso liquido. Tale invocazione veniva espressa mediante riti che sono stati spesso studio di indagini antropologiche da parte di molti studiosi. Questi culti riguardavano non solo l'acqua pluviale ma anche quella sorgiva. Essi avevano riti diversi e riguardavano zone e culture diverse, cioè la montagna e la pianura e quindi la pastorizia e l'agricoltura. Questi riti propiziatori della pioggia sono durati a lungo in Sardegna, diciamo fino agli anni 50, con un cerimoniale di elementi magici e pratici, la cui origine risale al periodo protosardo e nuragico. È chiaro che ciò avveniva poiché l'uomo primitivo era convinto dell'esistenza di un "Dio della pioggia", cioè un essere superiore in grado di concedere la pioggia solo attraverso certi meccanismi per mezzo della magia, di offerte, preghiere e quanto altro serviva a conseguire lo scopo. In Sardegna tale Dio era identificato con Maimone, il Dio della pioggia appunto. Per ottenere la pioggia, si usava immergere le statue fatte di legno o di paglia, in un fiume o in una pozza d'acqua. Infatti la statua rappresentava il Dio dotato di potere uranico (dal cielo) e l'acqua del fiume o della pozza rappresentava il cielo, contenitore d'acqua. E chiaro che tale rito, o presso un pozzo sacro, oppure nello svolgersi di una processione, presupponeva la completa e cieca partecipazione e credenza di tutti i partecipanti, senza avanzare il minimo dubbio su quanto si svolgeva, pena l'insuccesso.
Come già detto si avevano diversi riti a seconda che gli abitanti abitassero in montagna o in pianura, cioè se l'economia era basata sulla pastorizia o sull'agricoltura. Quindi il cerimoniale collettivo basato su di una processione con la presenza di un simulacro era esclusivamente agricolo, mentre in montagna avevamo un cerimoniale molto più elaborato e denso di religiosità e si svolgeva nei pozzi sacri. Questi cerimoniali si svolgevano in certi periodi dell'anno. Questo periodo corrispondeva grosso modo alla primavera, al termine dell'inverno, soprattutto nei mesi di marzo e di aprile, allorquando cessando le precipitazioni invernali la campagna, in montagna o in pianura, necessitava di precipitazioni per l'erba o per la crescita del grano o altro.
Si pensa che al cerimoniale partecipassero tutti indistintamente, ma i protagonisti erano soprattutto le donne e i bambini. Bisognava che chi invocava la pioggia fosse immune da ogni peccato o colpa, per cui i bambini, sinonimo di innocenza e purezza, e le donne vergini o quelle che per un certo periodo non avevano avuto rapporti sessuali, erano i protagonisti principali in un cerimoniale che però non conosceva gerarchie, ma era aperta a tutti, in quanto tutti erano interessati alla riuscita e al conseguimento del fine. I riti che si svolgevano presso questi pozzi miravano allo stesso scopo, e cioè l'invocazione affinché dal cielo cadesse la pioggia, oltre ad altre manifestazioni, come vedremo, di carattere terapeutico o come prova ordalica. Presso questi pozzi i riti assumevano un valore di gran lunga superiore rispetto a quelli che si svolgevano in pianura, che erano per lo più espressione di popolazioni locali, limitate nel numero. Al contrario, i pozzi sacri che erano situati in luoghi di facile reperibilità e visibilità, erano come santuari di frequentazione generale con strutture assai complesse chiamate " cumbessias" e "' muristenes" che permettevano il soggiorno di "pellegrini" provenienti da diverse località. I due aspetti, quello pagano e quello religioso continuano ad operare in Sardegna nonostante diversi secoli di "dominazione cattolica" e dopo 1500 anni dalla denuncia accorata di Papa Gregorio Magno. Infatti Papa Gregorio Magno, uno dei Papi più importanti di tutta la Cristianità, soprattutto per la sua cura pastorale e le esortazioni indirizzate a vescovi, principi e amministratori, nel Maggio del 594, per mezzo di due sacerdoti, indirizza una epistola a Ospitone, capo delle popolazioni barbaricine, nella quale si lamenta che dopo 600 anni dalla morte del Cristo, in Sardegna "Barbaricini omnes ut insensata ammalia vivant, Deum veruni nesciant, Ugna autemet lapides adorenf. Cioè le popolazioni vivono come animali insensati, ignorando il vero Dio e adorando tronchi d'albero e pietre.
Questo tipo di costruzione non si trova altrove ed in particolare in nessun altro territorio che ebbe rapporti commerciali e culturali con la Sardegna. È quindi un elemento indigeno, apparso nell'età dei nuraghi con i quali ha in comune la struttura megalitica.
Che l'acqua avesse anche carattere sacro con virtù terapeutiche e purificatrici ne erano convinte le comunità nuragiche che, più di tremila anni fa, avevano dedicato ad essa santuari, fonti sacre, templi a pozzo diffusi in tutta la Sardegna.
Prisciano, poeta latino, dice: "Sardoniae post quam pelago circumflua tellus fontibus e liquidis praebet miracela mundo qui sanant oculis aegros damnantque nefando periuros furto, quos tacto flamine caecant" e Isidoro, vescovo spagnolo: "La Sardegna ha delle sorgenti termali, le quali mentre guariscono gli infermi, fanno perdere la vista ai ladri, se dopo aver giurato si tocchino gli occhi con quelle acque".
E Solino, nel III d.C. , scrive: "In Sardegna pullulano in vari luoghi delle acque termali e salubri, dotate di virtù terapeutiche; esse o rafforzano le ossa indebolite o disperdono il veleno inoculato dalle solifughe (specie di animale che evita la luce) o anche fanno sparire i dolori degli occhi. Descrizione abbastanza chiara ed esauriente di questi riti presso le acque sacre in quanto si tratta di un vero e proprio "iudicium acquae" e cioè del rito ordalico o giudizio di Dio. Infatti, e non a torto, si è parlato della Sardegna come di un continente, di uno Stato (giudicati), di una civiltà nuragica, di una lingua sarda per mettere in evidenza proprio questa sua unicità.

Immagine di blog.libero.it

giovedì 16 dicembre 2010

La Sardegna Antica

Dalle origini al nuragico
Mesolitico
Le uniche tracce mesolitiche (10.000-6.000 a.C.) finora rinvenute in Sardegna risultano essere quelle della Grotta Corbeddu di Oliena, nella costa baroniese. Gli scavi hanno messo in luce resti di cervidi e di Prolagus sardus (roditore estinto), in vari casi recanti tracce di fuoco, fatto che ne rivela la cottura e il consumo alimentare da parte dell’uomo.
Neolitico
Il Neolitico, o età della pietra levigata, ha inizio in Sardegna intorno al 6.000 a.C.
Fu questo un periodo di grandi innovazioni, determinate dal miglioramento del clima, dall’introduzione dell’agricoltura e dell’addomesticamento degli animali, dall’invenzione della ceramica.
Soprattutto l’agricoltura contribuì al cambiamento dello stile di vita delle popolazioni le quali, da nomadi, diventarono col tempo sedentarie.
Le genti erano sparse nell’isola, organizzate in piccole comunità che, per comodità di definizione, oggi accomuniamo in “culture” con aspetti omogenei (tipologie ceramiche, abitative e funerarie).
Una caratteristica del neolitico sardo fu inoltre il commercio nel Mediterraneo di importanti risorse, come l’ossidiana, la selce e, nel periodo più recente, anche il rame.
Neolitico antico
Il neolitico antico (6000 - 4000 a.C.) si divide in due fasi, Su Garroppu (Carbonia) e Filiestru (Mara), dai nomi delle grotte dove sono stati effettuati i rinvenimenti più importanti. Gli elementi caratteristici sono gli abitati in grotta o ripari naturali e la ceramica impressa del tipo cardiale.
L’ossidiana della miniera del Monte Arci, nell’Oristanese, svolgeva in quest’epoca la fondamentale funzione di vettore per gli scambi commerciali e culturali nel Mediterraneo. Le varietà sarde del prezioso vetro vulcanico, infatti, sono state ritrovate in Corsica, Italia centrale e Francia meridionale.
Neolitico medio
Il neolitico medio (4000 - 3400 a.C.) è caratterizzato dalla cultura di Bonuighinu, dall’omonima grotta in territorio di Mara, nel Sassarese (la grotta è anche chiamata Sa Ucca de Su Tintirriolu), che per la prima volta ne restituì le testimonianze.
Queste genti vivevano organizzate in comunità agricole, abitavano prevalentemente in grotta, ma anche in primitivi villaggi all’aperto. Seppellivano i morti in grotte naturali ed in fosse scavate nel terreno; il corredo funebre era costituito da ceramiche e da statuine della dea-madre dalle abbondanti forme.
Gli uomini del neolitico medio si nutrivano di molluschi terrestri e marini, come il cardium, e adoperavano utensili litici e ossei.
Interessati da un processo di incremento demografico, sperimentarono vari tipi di colture, come l’orzo, la lenticchia e il grano, e allevarono buoi, pecore e capre.
La produzione ceramica, dal colore nero o bruno lucidissimo, è inornanta o con eleganti decorazioni impresse o incise (puntinato) a festoni, triangoli isolati o composti “a dama”.
Neolitico recente
È caratteristica del neolitico recente (3400 - 3200 a.C.) la facies San Ciriaco- Cuccuru Is Arrius.
Si tratta di una evoluzione della cultura di Bunuighinu e prende nome da due località, rispettivamente in territorio di Terralba e Cabras, nell’Oristanese. Compare in una ventina di siti ed è caratterizzata da ceramica non decorata; tipica la coppa a colletto con prese a rocchetto.
È questo un periodo di grandi innovazioni e di contatti con il Mediterraneo orientale e la penisola italiana. Compaiono le prime tombe a grotticella artificiale o domus de janas (Cuccuru Is Arrius) ed a circolo megalitico (Li muri-Arzachena), queste ultime segnalate da piccoli menhir. La religiosità si manifesta nelle statuette di dea-madre in stile geometrico-volumetrico, che esaltano un ideale di bellezza fertile e abbondante e che danno il segno del preminente ruolo della donna nella società neolitica (Cuccuru Is Arrius, Decimoputzu).
Neolitico finale
Nella grotta di San Michele, presso l’attuale abitato di Ozieri, nella regione del Monte Acuto, vennero per la prima volta alla luce i materiali della cultura che principalmente documenta il neolitico finale in Sardegna (3200 - 2800 a.C.).
Tale cultura, detta per questo di San Michele (o di Ozieri), è forse il risultato di un influenza etnica orientale, cretese o cicladica, sul sostrato indigeno. La società è articolata, tende al miglioramento delle tecniche agricole, commercia le ricchezze minerarie, quali l’ossidiana, la selce e, per la prima volta, il rame.
Si vive in villaggi di capanne fatte di frasche e si seppellisce nelle domus de janas, nei dolmen, nelle allées couvertes e nei circoli megalitici; spesso sono presenti i menhir ( perdas fittas, nella lingua sarda).
La ceramica, che insieme a quella dei tessuti, stuoie, vesti e cestelli, è una produzione prettamente femminile, presenta nuove forme (tazze carenate, pissidi, tripodi con piedi a punta) e decorazioni a incisione, impressione o incrostazione, con motivi a spirale, festoni, cerchi, figure stellari e umane.
La complessità culturale e spirituale della fase Ozieri è rappresentata anche dalla produzione artistica: gli idoli antropomorfi raffiguranti la Grande Dea Madre mediterranea si evolvono verso la stilizzazione della figura umana, che si assottiglia secondo uno schema a placca cruciforme.
Eneolitico o Calcolitico
Il passaggio dal neolitico all’eneolitico o calcolitico (2800-1800 a.C.) avviene in maniera lenta e graduale, ed è fondamentalmente caratterizzato dalla tendenza all’abbandono dell’ossidiana in favore della produzione metallurgica.
La lavorazione ed il commercio del metallo si associano alla pastorizia e all’agricoltura, dando luogo ad un processo di trasformazione economica e sociale che porterà alle più evolute culture del bronzo. Il processo ha in effetti inizio nelle fasi finali del neolitico, ma è l’eneolitico a dargli un impulso determinante, poiché segna l’incremento dell’importanza della Sardegna nella rete di scambi tra le genti del Mediterraneo occidentale (Spagna, Francia meridionale) e centro-europee; si indeboliscono invece le influenze orientali che erano state tipiche del neolitico (Cicladi, Creta, Malta, Grecia).
Le culture dell’eneolitico sardo sono probabilmente l’espressione di piccoli gruppi che, giunti nell’isola proprio dall’Europa, occuparono le sedi scelte precedentemente dagli uomini San Michele.
La società, che va diventando guerriera e a dominio maschile, non limita dunque più la propria economia alla semplice sussistenza, ma inizia a fruire di veri e propri beni di consumo: lavora le materie prime, di cui l’isola è ricca (rame, argento, arsenico, piombo), realizza il prodotto finito, guadagna dal commercio e accumula eccedenze.
Cultura Sub-Ozieri, Filigosa
Le facies Sub-Ozieri/Su Coddu di Selargius e Filigosa sono rappresentative dell’eneolitico iniziale sardo (2800-2600 a.C.) e si pongono sulla linea evolutiva della cultura tardo-neolitica di Ozieri.
La prima facies è stata individuata in vari siti del Campidano (il principale in località Su Coddu, Selargius), con resti di abitazioni e ceramiche di tradizione Ozieri e di influenza mediterraneo-orientale.
La seconda facies prende nome dalla necropoli di Filigosa (Macomer), caratterizzata da domus de janas precedute da un lungo corridoio scoperto.
Di eccezionale interesse il monumentale tempio-altare di Monte D’Accoddi (Porto Torres), con rampa inclinata d’accesso, piattaforma tronco-piramidale e sacello sovrastante, la cui forma richiama le ziqqurat mesopotamiche (fasi Sub-Ozieri, Abealzu).
Cultura Abealzu
La cultura di Abealzu, dall’omonima necropoli in territorio di Osilo, caratterizza l’eneolitico medio sardo (2600-2400 a.C.). E’ da attribuire a queste genti la produzione delle prime leghe e dei primi pugnali di rame (tomba di Serra Cannigas, Nuraminis-Villagreca).
Le espressioni materiali della cultura Abealzu, tra questi i tipici vasi a fiasco con bozze mammellari, richiamano contesti dell’Italia tirrenica centro-meridionale e padana, dell’area franco-elvetica, della Corsica, dell’area siculo-eoliana e della Grecia.
Sono di quest’epoca anche le più antiche forme di statuaria dell’isola. L’area del Sarcidano-Mandrolisai ha infatti restituito numerosi esemplari di menhir protoantropomorfi e antropomorfi e di statue menhir maschili e femminili, le cui tipologie trovano riscontri nell’area alpina, Trentino e Lunigiana. Notevoli le statue-menhir “armate”, recanti scolpito il pugnale, simbolo del potere, ed il “capovolto”, simbolo del defunto, probabilmente interpretabili come simulacri di eroi divinizzati.
Cultura Monte Claro
L’eneolitico recente (2400-2100 a.C.) vede affermarsi nell’isola la cultura di Monte Claro, dal colle cagliaritano che ne restituì per la prima volta, in un ipogeo funerario a pozzetto, la caratteristica ceramica.
In questa fase, l’incremento demografico, l’estendersi delle superfici coltivate ed il perfezionamento delle tecniche agricole, spingono la popolazione a ricercare una più elevata qualità di vita.
Pur utilizzando ancora l’abitazione in grotta di tradizione neolitica, le comunità Monte Claro si insediano preferibilmente nei villaggi, organizzandovi gli spazi abitativi e le pertinenze agricole (San Gemiliano di Sestu, Monte Olladiri di Monastir). Sorgono i primi edifici megalitici (Villagreca, Olmedo, Oliena, Castelsardo). Vengono utilizzati vari rituali di seppellimento: in grotta, più spesso negli ipogei a corridoio megalitico o a pozzetto con più vani (Monte Claro, Sa Duchessa, Cagliari), o in ciste litiche (San Gemiliano, Sestu) e dolmen (Motorra, Dorgali).
La ceramica è caratterizzata da forme a situla e decorazioni a solcature e costolature parallele.
Lo spirito guerriero delle popolazioni si manifesta nella metallurgia, soprattutto nei tipici pugnali di rame a lama lanceolata, frutto forse di tecniche di fusione e di colata provenienti dall’esterno od opera di stranieri giunti nell’isola.
Cultura del Vaso Campaniforme
Sul finire dell’eneolitico (2100-1800 a.C.), l’isola viene interessata da una corrente culturale che dalla penisola iberica si diffonde nel territorio europeo ed oltre. La contraddistinguono alcuni tipici oggetti: innanzitutto il beaker a campana rovesciata con decorazioni ad incisione e punteggiato (vaso campanifome), ma anche scodelloni similmente decorati, bottoni in osso con perforazioni a “v”, pendenti a crescente lunare, punte di freccia in selce ad alette squadrate, brassard e un particolare tipo di pugnale.
Delle genti portatrici di tali produzioni materiali s’ignorano l’origine razziale, le modalità insediative, l’organizzazione socio-economica e l’ideologia: sembra peraltro accreditabile l’ipotesi di un loro arrivo nell’isola a piccoli gruppi e a diverse ondate, con tendenza all’integrazione con le popolazioni indigene.
I materiali sardi provengono da domus de janas riutilizzate, tombe a cista, fosse terragne, dolmen e grotte. Molto prezioso è un corredo di oggetti d’ornamento proveniente dalla sepoltura di Padru Jossu (Sanluri).

Fonte: www.apolidesardus.altervista.org

Porta in pioppo di 5000 anni fa


Ritrovata a Zurigo una "porta del tempo"
di Francesco Amorosino


Il manufatto, uno dei più antichi ritrovati in Europa, risalirebbe al 3063 a.C. ed è stato scoperto durante i lavori per la costruzione di un parcheggio sotterraneo.
Una porta che conduce verso un tempo lontano, dalla Svizzera odierna si giunge fino a 3000 anni prima della nascita di Cristo, quando in Inghilterra venivano erette le misteriose pietre di Stonehenge. Quello ritrovato a Zurigo è un manufatto molto speciale: una porta vecchia oltre 5000 anni, forse una delle prime mai costruite, recuperata in "condizioni eccezionali", secondo gli archeologi.
"Si tratta di una delle porte più antiche mai rinvenute in Europa", ha detto Niels Bleicher, scienziato a capo del Dipartimento per la preservazione dei monumenti di Zurigo, spiegando che il reperto, alto circa un metro e mezzo e largo 88 centimetri, proviene dalla cultura Horgen, tipica di quella zona della Svizzera. La porta è fatta di legno di pioppo con una tecnica che garantisce "solidità ed eleganza" secondo quanto sostiene lo scienziato. L'oggetto si è conservato tanto bene che anche le maniglie in legno sono giunte sino a noi.
La porta era parte di una casa costruita con pali di legno, molto massiccia, per tenere all'esterno il vento freddo che spirava dal lago di Zurigo. In quella zona, infatti, secondo le tracce trovate dagli archeologi, esistevano almeno cinque villaggi neolitici presenti tra il 3700 e il 2500 avanti Cristo. Oltre alla porta sono emersi altri manufatti interessanti, come un pugnale in selce e un elaborato arco da caccia.
Quella Horgen è una delle molteplici culture archeologiche nate in Svizzera nel periodo neolitico, e prende il nome da uno dei principali siti in cui sono state trovati i primi reperti. L'area interessata va dal nord della Svizzera fino al sud-est della Germania, nei pressi del lago Costanza, ma potrebbe anche essersi estesa oltre. Fu un periodo caratterizzato da una minore cura per la ceramica ma da una sviluppata industria della selce, che ha portato alla realizzazione di eleganti strumenti di pietra, mentre importanti erano i maiali, le cui ossa sono le più comuni tra quelle ritrovate nei villaggi.
La porta, che secondo Bleicher risalirebbe al 3063 avanti Cristo, è molto simile ad un'altra trovata vicino alla città di Pfaeffikon, mentre una terza porta conosciuta, realizzata da un unico pezzo di legno, risalirebbe al 3700 a.C., secondo quanto riferito dall'archeologo. L'intenzione è quella di portare il manufatto in un museo dopo che sarà prelevato dal luogo del ritrovamento e trattato per prevenirne il deterioramento. La porta è stata rinvenuta in un cantiere per la realizzazione di un parcheggio nei pressi del teatro dell'Opera di Zurigo.
Questa scoperta fa riflettere ancora una volta sui tesori che potrebbero celarsi sotto le case di chi vive in città antiche, ma anche più recenti, come il caso di New York, dove il cantiere di Ground 0 ha restituito una imbarcazione del 18esimo secolo, oppure di Roma, dove è praticamente impossibile 'scavare' senza compiere qualche incredibile scoperta.

Fonte: http://www.nannimagazine.it/articolo/5865/Ritrovata-a-Zurigo-la-porta-del-tempo-