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sabato 31 dicembre 2011

Tramonto a Occidente - Romanzo di Luciano Gometz


Tramonto a Occidente
di Luciano Gometz


Fin dalle scuole elementari abbiamo immaginato storia e geografia come due facce di una stessa medaglia, in relazione inscindibile. I fatti che si svolgono in certi luoghi, e i luoghi che acquistano rinomanza dai fatti che vi si sono svolti. Chi di noi ricorderebbe oggi quel fiumiciattolo che è il Rubicone se Cesare non lo avesse attraversato con le sue legioni? Chi riconoscerebbe il villaggio belga di Waterloo se Napoleone non avesse concluso precisamente lì la sua folgorante carriera? La casistica potrebbe continuare all'infinito.
Eppure c'è un luogo a occidente delle vostre città, una terra dove esiste una geografia senza storia. Si fa presto oggi a dire Occidente. Potrebbe essere Madrid come New York, Lisbona come Santo Domingo. Ma ci fu un tempo, migliaia di anni fa, nel quale Occidente voleva dire prima di tutto tramonto, l'ansia indicibile del tramonto. Perché non erano poi sicuri, quei nostri antichissimi progenitori, se l'indomani il sole sarebbe sorto ancora, a dispensare come al solito luce e calore. Qualcosa poteva trattenerlo là, nelle regioni misteriose dove si inabissava, o poteva ben decidere di trattenervisi lui stesso, dopotutto era un Dio. Che ne sapevano loro di Newton e di Galileo, e non c'erano stati ancora i romani, e neppure i greci, che la sapevano più lunga di tutti. Così ad ogni tramonto, gli prendeva il magone a quei poveri antenati, e si radunavano attorno al fuoco, quel misero surrogato del sole, e facevano l'amore, che anche a quei tempi funzionava da potente ansiolitico. con l'Oriente invece era tutta un'altra storia.

Era di lì che il primo incerto chiarore annunciava che...sì, il sole arrivava, e l'orribile tenebra si sarebbe presto dissolta. Era di lì che erano arrivate tutte le cose buone e belle. Di lì avevano fatto sapere che se anziché strappare le spighette di grano e di orzo selvatico e mangiarti subito i pochi semini li mettevi invece nella terra tenera, dopo un poco ne avresti raccolto 20 volte tanto e di migliore qualità. Di lì avevano insegnato che quella simpatica piantina dai fiori celesti ti dava un sacco di cose: dai semi potevi estrarre un olio, e se li macinavi in farina potevi curarci i foruncoli, se poi mettevi a macerare gli steli potevi farci addirittura un tessuto, e come erano seducenti le donne quando si drappeggiavano addosso quelle loro vesti di lino. Di lì era arrivata quell'invenzione straordinaria, che ti permetteva di ricordare senza sforzo, anche dopo un anno o più, che il pastore Kubabu ti aveva portato i 10 Agnelli che ti doveva come fitto per i tuoi pascoli, mentre il pastore Enkidu, quel furbacchione, non li aveva ancora portati. E potevi anche far sapere al tuo amico nella città vicina che tuo figlio sarebbe stato contento di prendere in moglie sua figlia, e tutto questo evitando le scomodità del viaggio, soltanto incidendo dei segni su una tavoletta. Oh, non era facile per niente incidere quei segni, e meno che mai capirne il senso.

Ti dovevi applicare fin da bambino, rinunciando al gioco, non potevi correre libero tra i canali e i canneti rincorrendo uccelli e lucertole, e ti battevano anche, se non imparavi alla svelta, ma ne valeva la pena. Quando avevi imparato per bene, consegnavi al maestro la tua bella tavoletta senza errori, il maestro ti dava una collana di lapislazzuli da appendere al collo, e con quella collana eri veramente arrivato. Tutti i padri ti correvano appresso per darti le figlie, e a te restava la piacevole incombenza di scegliere la più bella. Il re ti mandava a chiamare, ti faceva cenare con lui, ti affidava la città più lontana del regno perché la amministrarsi in suo nome. Dopo qualche anno ti richiamava a corte, e ti affidava una missione che a nessun altro era stata affidata. Dovevi varcare il grande mare, il mare dell'Occidente, e vedere cosa vi fosse di là. Qualcuno lo aveva fatto, tanto tempo prima, ma se ne era perso il ricordo. Rimanevano dei racconti confusi che parlavano di una grande isola dal clima dolcissimo, piena di piante e animali di ogni tipo, dal suolo fertile, ricca di acqua e di metalli. E l'argento, il preziosissimo argento che alla corte del faraone faceva premio sull’oro, era così abbondante che i marinai, per portarne via di più, abbandonavano sul posto le loro ancore di piombo e ripartivano con ancore d'argento fatte apposta. E tutta l'isola era disseminata di torri di pietra, ce n'erano a migliaia, una su ogni collina, e dal mare non poteva arrivare un fuscello che non fosse prontamente avvistato, e se uno arrivava in pace era bene accolto, ma se le sue intenzioni erano ostili, aveva finito di campare. Perché quelle torri erano abitate da un popolo forte, bellicoso, indomabile. Un popolo ricco.

Avevano messo a frutto tutta l'isola, possedevano greggi e armenti, estraevano e lavoravano i metalli con rara maestria. Dal mare pescosissimo traevano grandi quantità di quei piccoli pesci azzurri, che salati ed essiccati commerciavano ovunque, e ancora oggi si chiamano col loro nome dalla Scandinavia alle coste dell'Africa, dal Portogallo al Libano. Scorrevano il mare con navi nere e veloci, non tenendosi sotto riva come facevano tutti, ma fendevano il mare aperto sicuri della rotta, e ogni angolo di costa era loro familiare. Ma non dimenticavano di essere prima di tutto guerrieri. Quando erano schierati a battaglia incutevano spavento ai nemici. Portavano elmi dalle lunghe corna, scudi rotondi, corazze e schinieri di bronzo splendente, pesanti spade a doppio taglio che con un fendente aprivano un uomo in due. Gli arcieri con i grandi archi potevano colpire il bersaglio a 300 passi, e c'era anche un corpo armato con lunghe lance come le sarisse macedoni, non sappiamo come si chiamassero ma possiamo vederne i modellini in bronzo. Un giorno misero assieme una coalizione di popoli: i Tjekker, i Danua, gli Shekelesh, i Tursha, i Lukka, gli Akawasa, i Peleset, i Weshesh. E poi c'erano loro, i Shardana dal cuore ribelle. Caricarono tutti sulle loro navi e si diressero a Oriente. Devastarono il Peloponneso e Creta, Cipro e le coste dell'Asia minore, poi si scagliarono come furie contro l'Egitto, la superpotenza dell'epoca. I confederati e gli egizi se le suonano di santa ragione, ma lo scontro fini in parità, tanto che il faraone, per evitare guai peggiori, preferì venire a patti. Convocò i loro capi, disse che l’Egitto era grande abbastanza per tutti, offrì terre e bestiame, e un posto nell'esercito per i loro figli, che andassero a menar le mani con gli Ittiti che premevano a nord-est. Naturalmente non poteva raccontarla così, perché lui era Mer-En-Ptah-Men-Ke-Per-Re-User-Ma-Re, il signore delle Due Terre, il figlio di Ra, il Dio vivente. La televisione non c'era ancora, ma l'imbonimento mediatico l'avevano già inventato, così fece scrivere a caratteri cubitali sui piloni dei templi che quegli schiumatori venuti dal mare erano stati circondati, uccisi a migliaia, ammucchiati a pezzi sulla spiaggia, le loro navi affondate e bruciate. Intanto se ne andava in giro tronfio col suo battaglione scelto di guardie del corpo shardana, tanto quelli non sapevano leggere. Non sapevano neppure scrivere, purtroppo, ed è stato un vero peccato, perché ci siamo persi un fior di storia che a paragone la guerra di Troia con Ettore e Achille e tutto il resto della compagnia avrebbe fatto la figura di una bega di condominio. Non conosciamo la loro storia, ma quel poco che ne sappiamo ci riempie ugualmente di stupore. 3200 anni prima dello sbarco in Normandia, i shardana erano in grado di concepire e attuare operazioni anfibie ad ampio raggio, utilizzando deliberatamente la loro supremazia navale e l'effetto dirompente, sul piano strategico e tattico, del fattore sorpresa. Se poi consideriamo i resti materiali della loro civiltà, lo stupore non può che mutarsi in ammirazione. Tutto il territorio della Sardegna è costellato da circa 8000 nuraghi, ma abbiamo motivo di ritenere che nel periodo della massima fioritura fossero decisamente più numerosi. Quelli mancanti furono letteralmente spianati dall'opera incessante delle generazioni successive, che dall'epoca romana fino quasi alle soglie del 900 utilizzarono quel materiale abbondante e bell'e pronto per costruire interi paesi, e da ultimo nell'800 tutto il reticolo di muretti a secco che rende così caratteristico il paesaggio della Sardegna centrale. L'edificazione di così tanti nuraghi deve aver necessariamente comportato l'esistenza di intere categorie di maestranze specializzate (cavapietre, scalpellini, maestri d'ascia, muratori) svincolate in modo permanente dalle esigenze delle produzioni primarie (produzioni di cibo) affidate invece a contadini e allevatori. Doveva poi esistere un'intera classe di fonditori e artigiani del metallo, che produceva a getto continuo la gran varietà di armamenti necessari alle esigenze dell'esercito e della flotta, ma anche tutto quanto occorreva all'agricoltura e all'ambito della vita privata. Producevano anche tutta una serie di statuine, i famosi bronzetti, raffiguranti uomini, donne, animali e navi, quelle navi che prima dell'Inghilterra di Nelson, prima di Roma, prima di Atene imposero in tutto il Mediterraneo la talassocrazia dei shardana.


Stupefacenti navi, snelle e affusolate quelle da guerra, panciute e solide quelle da carico, veri cargo dell'antichità, dotate di alette stabilizzatrici sotto la chiglia, un ritrovato che gli ingegneri navali hanno riscoperto solo nei primi anni del 900. Solcavano il mare in tutte le direzioni, commerciando o talora depredando, la pirateria non era allora così disdicevole. Omero ci racconta che Achille si vantava di aver messo a sacco 90 città. Possiamo vedere al vivo l'aspetto del re e dei guerrieri, ma anche della gente comune, il portatore d'acqua, il venditore di ciambelle. Possiamo vedere le donne, con quei cappellini che Dior non avrebbe esitato a copiare. Dovevano essere superbe, le donne shardana, superbamente belle. Portavano larghe gonne a tre balze che arrivavano fino ai piedi, e un giubbino aderente che fasciava la schiena e le spalle lasciando scoperti i segni, in modo che gli orgogliosi guerrieri ricordassero sempre che di lì era venuto il loro primo nutrimento, e di lì sarebbe venuto il primo nutrimento dei loro figli. Ritroviamo gli stessi modelli nei dipinti di palazzi di Cnosso a Creta, a riprova che anche allora la moda varcava i mari, ma non sapremo mai se gli Armani o Valentino dell'epoca dimorassero a Creta o in Sardegna. Questa immensa produzione statuaria era destinata in parte alle esigenze del culto e si collocava nei templi e nei santuari, ma verosimilmente veniva anche venduta e acquistata nelle fiere e nei mercati a scopo puramente ornamentale. È possibile che le statuine fossero dei veri e propri status symbol dell'epoca, e chi poteva permettersele marcava così il suo censo. Tutto questo ci permette di delineare una società complessa, al cui vertice stavano probabilmente gli architetti delle torri, in virtù del loro superiore sapere tecnico, che doveva essere considerato dal popolo segno distintivo del favore delle divinità. Nulla sappiamo circa la forma di governo e la titolatura dei capi.

Forse si chiamavano Vanax come il re micenei o forse no, in ogni caso non conosciamo neppure i loro nomi, travolti nei gorghi della storia assieme alla loro lingua. Rimangono poche decine di vocaboli, che non essendo Fenici, non essendo greci, né latini né arabi, potrebbero appartenere al sostrato nuragico, ma la certezza non la raggiungeremo mai. Del pari nulla di certo sappiamo sull'origine degli shardana, ma il mistero dei misteri riguarda il perché, più o meno all'improvviso, abbandonarono le loro torri e tutto quanto in secoli e secoli avevano costruito per affidarsi al mare, e raggiungere terre lontane e ostili. Fu un'improvvisa smania di conquista e di bottino? Si direbbe di no, considerato che sulle navi imbarcarono anche donne, bambini e carri, i rilievi sui templi egizi e i loro resoconti tramandati ce ne danno puntuale conferma. Gli studiosi si accapigliano da par loro su questo enigma, e per il momento volano insulti. Forse con i nuovi modernissimi mezzi di indagine, con l'esame comparato del DNA, si riuscirà a risolverlo, ma ci vorranno anni, ci vorrà soprattutto uno studioso di genio che riesca a ribaltare le incrostazioni mentali stratificate in decenni di pedissequa acquiescenza a ipotesi precostituite. Un'altra cosa che intristisce il cuore è che degli 8000 nuraghi residui, soltanto un centinaio sono stati scavati sistematicamente, solo uno ogni 80. Questo ci dà un'idea di quale immenso patrimonio di conoscenza si celi tuttora sotto i nostri piedi, abbandonato senza difesa alle avide cure di tombaroli e mercanti senza scrupoli. Dopo gli sconvolgimenti causati dalle migrazioni dei popoli del mare, ci fu un intervallo di secoli, e quando lo scriba del re di Tiro, percorrendo all'incontrario la stessa rotta, approdò all'isola del mistero, trovò le torri semidiroccate, e una gente stranita che non conservava se non labili tracce della grandezza di un tempo. E si dovette aspettare che fosse ritrovata la stele di Rosetta, che Champollion decifrasse quei segni astrusi, perché si potesse leggere sulle colonne dei templi di Luxor almeno il nome di quella stirpe leggendaria, misteriosamente uscita dalla storia. E se la terra è senza storia, sarà la geografia a raccontarcela, se solo avremo occhi e cervello per penetrarla, se sapremo leggerla con amore. Percorrendo le antiche rotte, arrivando da Oriente, non sui traghetti superveloci, quegli orribili recipienti metallici, ma su una piccola barca a vela che fila i 5-6 nodi come le navi shardana, vedremo apparire una terra alta e aspra, montagne dopo montagne, e scogliere selvagge a picco sul mare. Metteremo la barra a sud, doppieremo la lunga salsiccia di Serpentara, eviteremo le secche dell'isola dei Cavoli, e all'improvviso ci si aprirà davanti un ampio golfo orlato di spiagge bianchissime. Ci verrà naturale puntare su quella al centro. Centinaia di metri di spiaggia, riparata da ogni vento, un punto di approdo ideale per le navi shardana, che erano poi grossi barconi che venivano tirate a secco per il bivacco notturno. Su un lato della spiaggia sfociava un torrente (vi sfocia tuttora quando le piogge sono abbondanti) che permetteva agli equipaggi di dissetarsi e ricostituire le scorte di acqua. Alle spalle una breve pianura, e tutt'attorno una cerchia di collinette raggianti come una muraglia, fino a 500 m di quota, ricoperte da una vegetazione fittissima e impenetrabile. Dalla cerchia si stacca una collinetta più bassa, un cono perfetto alto una sessantina di metri, e cosa troviamo sulla cima? Troviamo il solito nuraghe, piazzato lì a protezione dell'approdo. È un vero peccato che le migliaia di vacanzieri che d'estate si rosolano al sole sulla spiaggia non vadano neppure a vederlo. È un vero peccato, perché potrebbero vedere ancora quasi intatto uno spaccato di vita di 3500 anni fa. Grattando appena la terra con le dita saltano fuori i frammenti di ceramica, forse di piatti e brocche lanciati fuori in un'estrema difesa, perché il nuraghe fu bruciato, se ne vedono chiarissimi i segni alla base della costruzione. E guardando abbasso, alla base della collinetta, si scorgono, dispersi in un mandorleto rinselvatichito, allineamenti di pietra che non possono essere casuali, e in mezza giornata di lavoro, con vanghe e badili, si tirerebbe fuor di terra il villaggio che offriva ricovero agli antichi marinai.

Ma non si tirerà fuori un bel nulla. Intanto non ci sono i soldi, e poi si farà finta di non vedere e di non sapere, e magari tra qualche anno sui resti dell'antico villaggio sorgerà una bella fila di villette a schiera, € 5.000 al metro quadro. Allora anche il paesaggio non avrà più nulla da dirci. Diventerà muto testimone di civiltà che sono fiorite e scomparse, e il tramonto non sarà più, come per il passato, lo svanire del sole all'orizzonte d'Occidente, sarà il tramonto del nostro spirito.

Ringrazio, ancora, il caro amico Luciano per avermi fornito questo breve racconto, da lui scritto nel 2004 e pubblicato nel 2005 sulla rivista "Volere Volare", grafiche Solinas.



Ringrazio il caro amico Luciano per avermi fornito questo breve racconto, da lui scritto nel 2004 e pubblicato nel 2005 sulla rivista "Volere Volare", grafiche Solinas.

giovedì 29 dicembre 2011

Il Tempio di Antas


Il tempio di Antas
di Pierluigi Montalbano

È uno dei monumenti antichi più importanti della Sardegna. Normalmente i grandi edifici di culto si trovano all’interno dei centri urbani rilevanti, come avviene a Tharros, Cagliari e Nora. In questo caso abbiamo una struttura monumentale in età punica e romana edificata in un territorio non legato ad una città ma alle sue risorse economiche di natura mineraria, infatti l’area in cui sorge era anticamente importante per lo sfruttamento delle miniere. Il tempio di Antas ha avuto una storia lunga e travagliata fino agli anni Sessanta perché il tempio del Sardus Pater era noto dalle fonti classiche, in particolare del geografo greco Tolomeo, ma non si era ancora riusciti ad individuarlo con precisione. A partire dal Cinquecento, e fino alla metà del Novecento, ci sono stati vari studiosi che hanno proposto varie ipotesi per identificare questo tempio del Sardus Pater noto dalle fonti. Alcuni lo collocavano a Capo Pecora in base alle distanze fra i siti e le città elencate nelle fonti, ma l’ipotesi che più ha preso piede è quella che lo vedeva collocato a Capo Frasca. Già nel Seicento un geografo olandese, Filippo Cluverio, proponeva questa teoria che venne portata avanti nei secoli, tanto che anche il canonico Spano, fondatore dell’archeologia sarda, collocava il tempio del Sardus Pater a Capo Frasca, in particolare in località San Giorgio dove aveva individuato una struttura alla quale aveva attribuito la funzione di tempio. Negli anni Cinquanta Lilliu dimostrò che non si trattava del tempio del Sardus Pater ma di una villa marittima romana. Il generale Alberto Ferrero La Marmora nella prima metà dell’Ottocento collocava ancora a Capo Frasca il tempio del Sardus Pater per il ritrovamento a Neapolis, nel territorio di Guspini, di una pietra miliare frammentata di una strada romana che riportava una parte di iscrizione nella quale si leggeva “ELLUM” e si pensò che fosse la parte terminale di “Sacellum”, ma si scoprì in seguito che si trattava di “Usellum”, quindi l’indicazione di una strada che portava verso l’interno. Sono pochi gli studiosi che hanno messo in dubbio questa ipotesi che andava avanti da secoli e contemporaneamente a questa diatriba sulla localizzazione del tempio del Sardus Pater si conosceva già quello della valle di Antas, ma si pensava fosse un tempio monumentale romano. Nel 1838 La Marmora visitò la valle e realizzò un disegno per l’occasione. Era completamente in rovina e, fra le poche strutture che emergevano nella vegetazione, alcune conservavano iscrizioni. Il La Marmora diede incarico ad uno dei più importanti architetti di Cagliari, Gaetano Cima, di fare il rilievo di questo tempio e corredarlo con un’ipotesi di ricostruzione. All’epoca il tempio fu attribuito a Metalla, una città romana nota dalle fonti.

Negli anni Cinquanta, una studentessa dell’università cagliaritana scavò un altro frammento dell’epistilio e questo ritrovamento accelerò l’indagine e aumentò l’interesse per il sito. Nel 1966 sono stati fatti dei lavori di sistemazione della strada che conduceva nell’area venne trovata una tabella con un’iscrizione romana che dava un’indicazione precisa: veniva nominato il Sardo Patri nell’area di Antas. L’iscrizione fu subito pubblicata da Piero Meloni, uno dei più esperti studiosi di storia romana e epigrafia che capì l’importanza del manufatto. Lo scavo che aprì la strada alla situazione attuale fu quello eseguito fra il 1967 e il 1968 dalla missione congiunta dell’Istituto di Studi del Vicino Oriente con l’Università della Sapienza di Roma e con la Soprintendenza di Cagliari, guidati dal Prof. Barreca. Le indagini, indirizzate soprattutto all’aspetto punico, sono state edite nel 1969 in un volume che costituisce la base per chiunque voglia accostarsi allo studio del Tempio di Antas. Ciò che attualmente si vede del Tempio è frutto di un lavoro di anastilosi effettuata negli anni Settanta, ma all’inizio dell’indagine la situazione era degradata maggiormente rispetto a ciò che vide La Marmora nell’Ottocento, quando una foresta proteggeva il sito. Quando gli archeologi iniziarono la ricostruzione della struttura, si conservava solo parte del podio e del basamento romano. I blocchi di colonna e i conci residui del tempio si trovavano sparsi nell’area. Gli elementi furono rimessi in opera, probabilmente non nei punti originari, ma si diede prevalenza alla ricostruzione della parte anteriore del tempio. Alcuni blocchi sono stati costruiti a nuovo, rispettando il modello esistente, e si nota la differenza fra gli impasti, anche se col tempo la differenza si è attenuata.
Ricostruendo la storia del sito dobbiamo iniziare dalla considerazione che attualmente ciò che vediamo è il tempio romano, ma dobbiamo tornare più indietro nel tempo in quanto c’è il perdurare di un culto che nelle varie fasi assume aspetti diversi. La prima frequentazione dell’area è stata indagata dal prof. Ugas che nel 1984, quando era ispettore della Soprintendenza di Cagliari, ha scavato un sepolcreto nuragico ubicato a brevissima distanza dal tempio. Era costituito da tre tombe, ma in superficie ha recuperato materiali fuori contesto più antichi, riferiti al Bronzo Finale. In base a ciò ha ipotizzato che oltre alle tombe del Ferro vi fossero altre tombe più antiche che oggi non esistono più, o almeno che non sono ancora state individuate. Il significativo ritrovamento delle tre piccole sepolture a pozzetto allineate sono datate alla prima Età del Ferro, ossia alla fine del IX a.C. Si tratta di inumati posti in posizione inginocchiata o seduta all’interno dei pozzetti circolari, che hanno un diametro di circa 80 cm e una profondità che varia fra 40 e 70 cm. In Sardegna le tombe di questo tipo sono rare e se ne trovano altre 34 solo a Monte Prama. Erano segnalate in superficie da una pietra e solo due delle tombe ospitavano degli inumati, in quanto nella tomba 2 non c’era sepoltura e si è pensato a un cenotafio. La tomba 1 ha restituito un vago un bronzo e due in oro riferiti ad ornamenti, mentre la tomba 3, in associazione con il defunto, ha restituito molti materiali riferibili ad oggetti d’ornamento e un bronzetto.

L’inumato aveva una collana con materiali in ambra, cristallo di rocca, pasta vitrea e argento. C’è da notare che l’ambra proviene generalmente dal Baltico e questo ci fa pensare a strade complesse percorse dagli scambi fra popoli. Il personaggio aveva un anello al dito e stringeva un bronzetto nuragico che rappresentava un personaggio maschile con una lancia in mano e con il consueto atteggiamento sardo del segno di saluto, tipico anche delle zone orientali. Secondo gli studiosi si tratterebbe della rappresentazione della prima divinità nuragica adorata nell’area di Antas, il Babai, la divinità paterna che in seguito sarebbe stata interpretata dai cartaginesi come Sid Addir Bab, e dai romani come Sardus Pater. Quindi una divinità che avrebbe avuto un culto fino ad età tardo romana che assunse vesti diverse, e nome, secondo il popolo che l’adorava. C’è da rilevare che in età cristiana il culto di Santu Gregoriu che ebbe l’area della valle di Antas è anch’esso stato interpretato in questo senso. In realtà per parlare di continuità di culto dovremmo trovare tutte le fasi ma ad Antas abbiamo un buco che va dall’inizio del secolo VIII a.C. e arriva fino al momento in cui i cartaginesi arrivano nell’area, intorno al 500 a.C.
Il primo tempio impiantato è quello punico, mentre all’epoca nuragica risale solo un’area funeraria, anche se in superficie, e in diversi punti, sono stati recuperati dei bronzetti nuragici che potrebbero riferirsi ad una struttura sacra. È noto che i fenici arrivano in Sardegna intorno alla fine del IX a.C., fondano Sulci nell’VIII e popolano l’area soprattutto nel VII a.C. Alla metà del VI a.C. l’africana Cartagine riesce progressivamente ad avere il controllo del territorio a danno delle città fenicie e inserisce la Sardegna nel suo impero. Cartagine, a differenza delle città fenicie, ha una politica di tipo imperiale e tutti i territori della Sardegna sud-occidentale e della Sicilia occidentale vengono a far parte di una politica economica di tipo militare e unitaria. C’è la necessità di reperire risorse per la capitale, e si tratta di due tipologie fondamentali: minerarie e derrate alimentari, da utilizzare per mantenere in armi l’esercito mercenario, differente da quello greco composto da cittadini. Quello cartaginese era costituito da diverse etnie: sardi, iberici, libici, siculi. Questo esercito era pronto a ribellarsi nel caso non venisse pagato regolarmente e costituiva una criticità dell’organizzazione punica. Cartagine attua per la prima volta uno sfruttamento intensivo dell’area mineraria e necessita di un’installazione fissa per organizzare e amministrare l’enorme risorsa che deriva dallo sfruttamento. Nel mondo semitico i templi uniscono alla funzione religiosa quella economica, sono dei centri commerciali importanti da dove partivano le imprese di esplorazione e che costituivano il centro fisico dell’organizzazione delle risorse. Quando, ad esempio, Tiro va a fondare le varie colonie del Mediterraneo, fornisce un ruolo fondamentale al tempio: l’amministrazione degli scambi con l’elemento indigeno. Il tempio è un luogo di culto ma è, allo stesso tempo, il luogo simbolico della potenza di Cartagine nel quale si organizzava lo sfruttamento delle risorse. Per questo motivo si trovavano nell’area una serie di servizi e uffici nei quali soggiornavano i sacerdoti ma anche gli addetti all’organizzazione e alle varie funzioni necessarie.
Ciò che si trova nella letteratura, relativo al Tempio di Antas, è ciò che ha sostenuto Prof. Barreca già nei primi lavori degli anni Sessanta e fino alla fine degli anni Ottanta. Da quelle ipotesi iniziali ci si è discostati poco, anche perché gli scavi successivi fatti, a partire dalla fine degli anni Novanta da Bernardini, sono ancora inediti.
La struttura templare punica si trova davanti alla scalinata d’ingresso romana e si conserva in condizioni precarie. Barreca ha eseguito uno sforzo di ricostruzione per capire come era fatto il tempio perché molte strutture sono romane e del periodo punico sono rimasti solo pochi lacerti murari e alcuni elementi architettonici fuori contesto. Lo studioso pensava ad un tempio punico che nella prima fase del 500 a.C. era rettangolare con una struttura semplice che si incentrava su una roccia naturale sacra, fulcro del culto, circondata da un muro che formava un recinto. Forse la corte era a cielo aperto perché nell’area non sono state trovate tegole. Nel 300 a.C. questo tempio avrebbe subito una risistemazione con il rifacimento della facciata e alcuni muri che delimitavano un “Sancta Sanctorum”, ossia una zona sacra molto riservata, un penetrale. Vi fu, inoltre, l’aggiunta di elementi greci (le colonne doriche), e di tipo egiziano, come le strutture che sormontavano le colonne, ossia le gole di coronamento. In seguito vi fu il rimodernamento eseguito in tempi romani, come ad esempio il pavimento del penetrale. Alcune ipotesi di Barreca non sono state accettate da Bernardini perché sotto alcuni muri sono stati trovati materiali romani e le datazioni portano quindi a tempi più recenti. Inoltre l’altare individuato da Barreca in realtà potrebbe essere, sempre per Bernardini, la copertura di un’altra tomba di quelle nuragiche. All’interno di una struttura molto semplice, impiantata in un secondo momento, sono stati recuperati centinaia di manufatti, parte dei quali sono oggi esposti al museo di Cagliari. Ci sono, ad esempio, numerose iscrizioni che consentono di dire a chi il tempio era dedicato. Sono poste su basi in pietra che sostenevano oggetti dedicati alla divinità, oppure sono incise su placchette in bronzo che presentano i fori per ospitare i chiodi. Si tratta di iscrizioni ripetitive che ci danno la titolatura del tempio. La divinità punica di Antas è Sid, potente (addir) Bab, e le iscrizioni ci dicono anche che chi si recava ad Antas ad offrire questi preziosi oggetti artigianali erano spesso dei personaggi pubblici, e non fedeli che chiedevano una grazia. In almeno 3 casi viene citato un funzionario. In una scritta è riportato: al signore Sid Addir Babai, statua di bronzo che ha dedicato imilkat, figlio di abshmun, figlio di bb melkart, che appartiene al popolo di Caralis. Non significa che è un personaggio di Cagliari perché nella iscrizione semitica, AM di Caralis è in realtà un’istituzione pubblica, forse un’assemblea popolare o una corporazione religiosa o, come afferma Acquaro, AM sia l’assemblea popolare dei cittadini cartaginesi insediati nelle diverse colonie. Nelle colonie risiedevano indigeni e inviati dalla capitale, ma il controllo era statale da parte di prefetti inviati da Cartagine. Alcuni membri delle principali famiglie della capitale venivano inviati per controllare direttamente sul posto lo svolgersi delle attività delle varie colonie e secondo questa ipotesi, l’AM di Caralis sarebbe l’assemblea dei funzionari pubblici cartaginesi. Un’altra iscrizione ci aiuta a capire un aspetto della personalità di Sid, e recita: al signore Melkart (divinità principale di Tiro) sulla roccia… Proprio come affermava Barreca ci sarebbe, dunque, una roccia sacra.


All’interno del tempio vi erano elementi scultorei greci di alta qualità, come una testa di Afrodite in marmo pario datata al V a.C., un’altra testa femminile interpretata come la greca Demetra e datata al III a.C. e un’altra che viene attribuita alla figlia di Demetra, sempre del III a.C. Erano tutti oggetti che si trovavano sulle basi in pietra che riportavano le iscrizioni.
Fra gli altri elementi di grande pregio ricordiamo piume in oro, amuleti, piccoli astucci in bronzo, oggetti d’ornamento, manufatti votivi in bronzo. Normalmente gli amuleti, che sono piccoli oggetti in pietra tenera, sono importati dall’Egitto e vengono trovati nelle tombe. Venivano portati in vita per scacciare i demoni, come portafortuna, per proteggere i bambini, le partorienti e avevano una funzione magica più che sacra. Antas è l’unico sito in Sardegna, e l’unico altro esempio nel Mediterraneo è Kition a Cipro, che ha restituito amuleti nel contesto di un santuario.
Sono state trovate molte monete puniche, oltre 2000, ma solo in piccola parte arrivano da zecche sarde e puniche perché principalmente sono cartaginesi. Probabilmente il motivo è da ricercare nella difficoltà di circolazione delle monete durante la prima guerra punica.
Il ritrovamento di un lacerto di intonaco con la raffigurazione di un occhio ha suggerito a Bernardini che le pareti del tempio potevano essere decorate.
È importante segnalare che tutti gli oggetti ritrovati sono stati intenzionalmente frantumati come se si volesse cancellare la memoria di questo sito.
Sid Addir Bab non è una divinità fra quelle importanti del mondo fenicio punico. Un tempio dedicato a Sid è attestato solo ad Antas ma il nome è spesso associato ad altre divinità fenice o a nomi propri di questo popolo. I nomi teofori più comuni, ossia quelli che contengono il nome della divinità all’interno, sono quelli ebraici. Ad esempio Gabriele e Raffaele contengono il nome della divinità EL, e molti nomi fenici testimoniano la presenza di questo termine Sid. A Cartagine è attestato il tempio di Sid Tanit, quello di Sid Melkart, ma non esiste un altro tempio dedicato esclusivamente a Sid.
Probabilmente si tratta di un Dio cacciatore perché la radice del termine è legata a “cacciare” e, soprattutto, per la presenza di numerosi giavellotti in bronzo ritrovati nel sito. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un Dio guaritore perché nelle iscrizioni del tempio troviamo dediche a statue di dei guaritori: Shadrafa e Oro.

Per altri sarebbe un fondatore di stirpe sulla base delle fonti letterarie che lo legano a Melkart-Eracle. Per altri ancora avrebbe caratteristiche di un Dio marino.
Il tempio punico di Antas venne distrutto ma esistono varie ipotesi su chi lo annientò e quando ciò avvenne. Forse i romani giunsero nella valle di Antas e fecero piazza pulita per ricostruirne uno nuovo. Per alcuni studiosi fu opera dei cristiani e altri ricercatori propongono una distruzione operata dai mercenari di Cartagine in rivolta. Alla fine della prima guerra punica, terminata nel 241 a.C., i mercenari si ribellarono sia in Africa sia in Sardegna, proprio nel momento in cui l’isola passò sotto il controllo romano. Secondo Acquaro la rivolta, terminata nel 238 a.C. sarebbe stata la responsabile della distruzione del tempio in quanto l’edificio sarebbe stato il simbolo della potenza di Cartagine in Sardegna, e ciò spiegherebbe anche la ferocia nella frantumazione dei manufatti.
In età romana c’è una continuità di culto, anche se i primi secoli repubblicani non sono ben leggibili archeologicamente perché il tempio fu sostituito da un altro più monumentale. È probabile che un tempio sia stato ricostruito da Augusto, sulla base di una moneta del Sardus Pater che presenta sul dritto l’immagine dell’allora pretore della Sardegna Azio Balbo, mentre sul rovescio c’è un personaggio con testa piumata e un giavellotto dietro la schiena. L’iscrizione sulla moneta riporta i termini Sard Pater. La moneta fu battuta fra il 39 e il 15 a.C. e dimostra l’interesse di Augusto per l’area di Antas.

Nell’area sono stati recuperati anche molti elementi in terracotta che apparterrebbero ad una decorazione fittile proveniente da un primo tempio databile all’ultima fase repubblicana. Questo genere di materiali per le decorazioni vennero importati da Roma per ornare il tempio e forniscono indizi certi per l’attribuzione della cronologia.
L’aspetto definitivo dell’area del tempio proviene dal restauro avvenuto tra il 213 e il 217 d.C. sotto l’imperatore Caracalla. Ciò è evidenziato dalla ricostruzione che gli archeologi hanno fatto dell’iscrizione dell’epistilio che recita: “in onore dell’imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto Pio Felice Quinto Celio Cocelio Propulo restaurò il tempio del Sardus Pater Bab rovinato per l’antichità”.
Il tempio è tetrastilo, ossia con 4 colonne nella parte frontale, e sorge su un podio preceduto da una scalinata. Sul quarto ripiano della scalinata si trovava un altare. Presenta un pronao, cioè un vestibolo aperto, con 4 colonne sulla fronte e 2 sui lati. Dal vestibolo si accede ad una cella che presenta un accesso sulla parte anteriore e due accessi laterali con gradini, uno trovato negli scavi e l’altro ricostruito. Proseguendo si trova un aditon, la parte sacra suddivisa in due celle vicino alle quali ci sono due vasche. Barreca ipotizzò che questo aditon bipartito si dovesse riferire ad una persistenza di elementi punici, perché la “coppia divina” è caratteristica punica. Bernardini, al contrario, pensa che la bipartizione sia successiva, forse di epoca cristiana. Il tempio è realizzato con blocchi e presenta un pavimento mosaicato molto semplice bianco e nero.

In età romana il tempio era dedicato al Sardus Pater Bab, come si legge dall’iscrizione. Sardus Pater e Sardo li conosciamo dalle fonti. Pausania, uno scrittore greco del II d.C., afferma che una statua bronzea del Sardus Pater, fu consacrata ad Apollo nel santuario di Delfi in Grecia. Era stata dedicata dai barbari che sono all’Occidente e abitano la Sardegna. Era certamente una divinità importante visto che in Grecia si trovava una sua statua all’interno del tempio di Delfi. Sardo è figlio di Melkart la divinità di Tiro, condottiero dei libici-africani che per primi arrivarono in Sardegna. Sid viene interpretato come Sardus Pater per il legame con Melkart-Eracle e per l’aspetto di fondatore di stirpi.
Sarebbe interessante capire se Sardus è il nome o l’aggettivo perché cambierebbe l’interpretazione: è il padre dei sardi? Se fosse il nome, invece, sarebbe colui che ha dato il nome alla Sardegna.
Oltre a Sid e a Pater, abbiamo anche Bab che dovrebbe essere la divinità paterna, il padre nuragico. Quindi abbiamo Sid che è figlio di Melkart ma è associato al padre dei sardi, alla divinità paterna.

Il tempio nelle immagini: disegno di Alberto La Marmora, prima della ricostruzione, romano e punico
Immagini ai siti: comune.nuoro.it (Costantina Santoni), domusdejanas.org, fotocommunity.it

martedì 27 dicembre 2011

Il popolo di bronzo - Angela Demontis


Il popolo di bronzo
Tratto dal libro di Angela Demontis


Potrebbe capitarvi, in giro per la Sardegna, di imbattervi in una mostra itinerante presso i musei nella quale un’artista sarda, Angela Demontis, ha riprodotto l’abbigliamento dei bronzetti nuragici, dando ai modelli proporzioni umane, così da offrire ai visitatori le meraviglie e i segreti rimasti per secoli nello scrigno delle nostre nonne. I personaggi prendono vita e nella ricomposizione della società antica, uomini e donne di diverso ceto e mestiere, si offrono in visione, costituendo uno spaccato di vita vissuta dell’età del Ferro, strizzando l’occhio ai leggendari guerrieri dell’epoca del Bronzo, quando i temibili spadaccini shardana costituivano la guardia reale del faraone Ramesse.
Lo studio dell’esercito di bronzo ci mostra come dovevano essere abbigliate le persone in epoca nuragica, come una sorta di scatti fotografici dell’epoca. Attraverso l’analisi delle incantevoli statuette esposte nei musei si acquisiscono informazioni sul gusto estetico e sull’articolazione della società.
Il costume doveva essere identificabile da lontano e caratterizzava un gruppo etnico, lo stato sociale o il mestiere praticato. In alcuni casi è possibile notare analogie in abiti, armi o accessori, che testimoniano uno scambio culturale fra popoli diversi. Già Lilliu, nel 1966 nella sua opera “Sculture della Sardegna Nuragica” evidenziava le diverse influenze culturali e le specificità delle tribù.
Le statuette femminili raffigurano donne coperte dalla testa ai piedi con lunghe tuniche e mantelli, mentre gli uomini vestono abiti corti e indossano spesso bandoliere che sostengono pugnaletti ad elsa gammata. Lo studio delle armi acquisisce importanza per capire il ruolo dei personaggi. Allo stesso modo, il cromatismo simbolico ancora persistente nelle produzioni artigianali della tradizione sarda e gli affreschi che rappresentano personaggi dell’Etruria (in particolare a Tarquinia) mostrano le strette relazioni fra antichi sardi ed etruschi.
Altro elemento caratteristico della mostra è costituito dai copricapo maschili e femminili, di varie fogge e colori, nonché le acconciature che fuoriescono e mostrano una cura nei dettagli che suggerisce una maestria tecnica difficilmente raggiungibile anche ai nostri giorni.
Fra le rappresentazioni a grandezza naturale confezionate dalla Demontis, sono rimasto affascinato da tre personaggi: l’arciere che presenta l’arco di tipo piatto come nelle statue in arenaria e la placca pettorale di protezione, il “guerriero di Uta” e, pur non essendo rappresentato fra i modelli della mostra, il “pugilatore di Dorgali” (visibile nell'immagine), ambedue rappresentati anche nella grande statuaria in pietra di Monte Prama, pur se il primo è di difficile interpretazione in quanto l’armatura è priva di spada (si notano solo i decori incisi nel corpo a evidenziare le protezioni) ma gli elementi che sono inequivocabilmente attribuibili all’oplita sono lo scudo piatto, come i 4 da assemblare trovati a Monte Prama, e l’elmo con la cresta fornito di corna brevi rivolte in avanti, anch’esso fra i reperti di Monte Prama.
Per questo guerriero la Demontis riporta un passo descritto da Omero nell’Iliade che parla dell’imbottitura dell’elmo di Ulisse: “Merione…in capo gli pose un casco fatto di cuoio…di fuori denti bianchi di verro…lo coprivano…in mezzo era aggiustato del feltro”. La lana di pecora compressa e infeltrita era dunque d’uso in antichità per il rivestimento interno e, in alcuni casi, all’esterno vi erano denti di cinghiale, come nella testina in avorio esposta al museo di Cagliari.
Il pugilatore-corridore, come si nota nell’immagine, era armato di maglio metallico, un’arma micidiale sul campo di battaglia, particolarmente utile nel corpo a corpo.
Fra gli altri personaggi, spicca un guerriero che utilizza uno strano bastone angolato, realizzato in legno di castagno. L’arma, chiamata amat, quando veniva lanciata compiva una traiettoria parabolica, ma non tornava indietro come invece fa il boomerang. Queste armi sono ritratte in affreschi tombali egizi risalenti al 1930 a.C. (tomba di Amenemath della XII dinastia) e sono state ritrovate nel corredo funerario di Tutankamon (XIII dinastia) datate al 1340 a.C. Data la sua angolatura, l’arma poteva essere utilizzata anche nel corpo a corpo come mazza, per aggirare le protezioni dell’avversario oppure colpirlo alle gambe per farlo cadere. Questa mazza è citata in alcuni testi antichi, come la Metamorfosi di Ovidio: “Insegue il bersaglio in una corsa che non è guidata dal caso, e a volte torna indietro, insanguinata, da sola”, e Virgilio nell’Eneide ne attribuisce l’uso a popolazioni germaniche: “sono abituati a lanciare la cateia, alla maniera dei Teutoni”.
La concia e la lavorazione delle pelli era una delle attività principali delle popolazioni nuragiche. Pelle, tendini, corna, zoccoli venivano trasformati in manufatti di grande utilità. A queste lavorazioni era collegata la preparazione di sostanze collanti, a partire dagli scarti di macellazione e di scuoiatura dell’animale. C’erano anche collanti di origine vegetale, soprattutto le resine delle conifere, usate pure miscelate alla cenere per diventare pece. I collanti erano indispensabili per il fissaggio delle lame e per l’assemblaggio di utensili.
La filatura, la tessitura e la colorazione dei tessuti erano svolti dalle donne. Per confezionare mantelli, gonne e corpetti si usavano tessuti di fibra vegetale come il lino, l’ortica e la ginestra odorosa. Si maceravano le fibre per eliminare le impurità, si lasciavano essiccare e poi si spazzolavano con un cardo selvatico (cardatura) molto pungente per eliminare i grovigli. Pronte per essere filate, le fibre venivano attorcigliate e, con l’ausilio del fuso, trasformate in un filo ininterrotto che si usava direttamente per la tessitura o veniva colorato con sostanze vegetali ricavate da corteccia, radici o foglie. Il colore veniva fissato con mordenti, ossia urina, tannini, argilla o allume di rocca (solfato di potassio e alluminio). Quindi veniva tinto macerandolo in acqua calda o fredda insieme alla pianta sminuzzata. Dopo accurata asciugatura il filato era pronto per essere lavorato al telaio.
Il lavoro della Demontis è arricchito di un capitolo dedicato al legno, una delle materie prime più utilizzate dai popoli della preistoria, per la facilità di reperimento e la versatilità della sua lavorazione, che forniva manufatti per ogni attività della vita quotidiana. Dalle navi alle coperture delle capanne nuragiche, dai carri ai gioghi per buoi e ai traini, dalle armi (archi e frecce) ai manici delle zappe, asce e contenitori di varia natura, dai mobili alle cassapanche, dai telai agli oggetti di uso domestico, come mestoli, pale da forno e taglieri. Allo stesso modo i manufatti ad intreccio mostrano sapienza nella scelta delle fibre vegetali e maestria nella lavorazione. Raccolte, scorticate, essiccate e tagliate a strisce, queste fibre venivano intrecciate per fabbricare cordame e cesteria, una tecnica rimasta immutata nel tempo e usata ancora oggi dai nostri artigiani.

Nell'immagine un disegno dell'artista Angela Demontis: Il pugilatore

sabato 24 dicembre 2011

Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo di Roberto Coroneo


Chiese romaniche dei monaci vittorini nel Meridione sardo
di Roberto Coroneo


Prima di analizzare il contributo che l’ordine dei monaci benedettini provenienti dall’abbazia di San Vittore di Marsiglia diede alla costituzione del patrimonio architettonico sardo, è opportuna una sintesi degli avvenimenti storici che precedono l’avvento della civiltà monastica in Sardegna.
Nel VI secolo l’imperatore Giustiniano, che governò l’impero romano dopo il trasferimento della sua capitale da Roma a Costantinopoli (oggi Istanbul in Turchia), concepisce il progetto ambizioso di riunificate l’impero romano riportando sotto il controllo della corte quei territori occidentali che, posti all’estremità occidentale dell’Europa, erano caduti in mano ai cosiddetti barbari. Si tratta di quei regni romano barbarici che si erano formati a seguito della crisi della parte occidentale dell’impero romano. Il progetto prevede la riconquista dell’Africa, occupata dai Vandali che avevano stabilito un regno che aveva come centro Cartagine; dell’Italia, caduta sotto il controllo del regno ostrogotico di Teodorico; della Spagna, che era andata incontro a un destino storico che l’aveva portata sotto il regno dei Visigoti. Essendo un progetto impegnativo e costoso, Giustiniano riesce a realizzarlo solo in parte.
Nell’ambito di questo progetto, la riconquista dell’Africa nel 533-534 viene realizzata nel corso di una guerra lampo e porta al controllo da parte dell’impero bizantino anche della Sardegna. Si determina così una prima importante particolarità della storia della Sardegna. Mentre il resto d’Italia cade prima sotto il controllo dei Longobardi, poi sotto Carlo Magno entrando nell’orbita dell’impero carolingio, poi segue l’impero germanico con gli Ottoni, la Sardegna resta tagliata fuori da tutti questi avvenimenti perché dal 534 resterà sotto la totale dipendenza dall’impero romano di Costantinopoli per i successivi cinque secoli, fino al 1000 circa. Ciò non significa che la Sardegna restò isolata, poiché esistevano rapporti diplomatici con la corte dell’impero carolingio, con i ducati bizantini di Gaeta, Amalfi e Napoli che garantivano il collegamento con Costantinopoli e con l’estremità orientale dell’impero.
Fra il 950 e il 1050 il processo di graduale emancipazione politica porta all’allontanamento dell’isola da Bisanzio e alla creazione di quattro regni autonomi. Attorno al 1060 vediamo configurata una Sardegna non più unitaria, ma divisa in giudicati. Non dipende più dall’arconte di Sardegna che, a sua volta, era emanazione della corte di Costantinopoli, ma viene divisa in quattro regni, definiti giudicati. Essi avevano propri confini, erano divisi in curatorie, erano autonomi e ogni personaggio posto al comando, il re o giudice, era un’autorità suprema. Erano quindi dei regni, nel senso medievale del termine. All’inizio del 1000 la Sardegna incontra delle difficoltà dovute alle incursioni di genti islamiche, comandate da Mugahid, che non sono scorrerie, ma vere e proprie invasioni durate alcuni anni. Tutto ciò stimolò i ceti aristocratici locali a combattere e a rinsaldare il proprio potere e, forse, è proprio questo il momento di costituzione effettiva dei giudicati, il termine di un processo che ha radici nei secoli precedenti.

Un altro fattore importante della cosiddetta “rivoluzione dell’anno Mille” che anche nel resto d’Europa ha comportato innovazioni in campo agricolo e trasformazioni nella società del tempo, è costituito dallo “scisma d’Oriente”. È il momento in cui la Chiesa si divide dando luogo al patriarcato di Costantinopoli e al papato di Roma: due distinte autorità a capo di due distinte Chiese che da quel momento avranno una vita autonoma l’una dall’altra, fino ad oggi.
Lo scisma d’Oriente pose ai giudici e all’aristocrazia sarda il problema della direzione verso cui andare. Si potevano rinsaldare i rapporti con il patriarcato di Costantinopoli oppure riconoscersi nell’Occidente e consolidare i rapporti col papato romano. Fra le due alternative è facile capire che la scelta vincente fosse quella di Roma, perché Costantinopoli era lontana e il potere imperiale veniva percepito come distante. Il papato romano poteva legittimare il potere giudicale e, infatti, nel corso della loro storia, i giudici cercheranno sempre un riconoscimento della loro autonomia da parte della Chiesa di Roma.
In questo quadro si può collocare l’esigenza, da parte dei giudici, di riqualificare il contesto isolano dal punto di vista della devozione, rilanciando il culto dei martiri e chiedendo al papa l’invio di monaci benedettini che venissero in Sardegna per insegnare, per istruire la popolazione e alfabetizzarla, almeno nei ceti più alti. Tutto ciò si tradusse in una crescita anche economica perché le comunità dei monaci benedettini che arrivarono furono in grado di impiantare un sistema fatto di unità organizzate, di piccole cellule nate come aziende agricole autosufficienti, in grado di far progredire economicamente il tessuto locale. Si assiste dunque alle richieste da parte dei giudici di monaci che si trasferissero in Sardegna, che creassero dei monasteri, che lavorassero, che edificassero per il bene della popolazione, sia come cura delle anime sia come crescita economica del territorio. Questi luoghi controllavano capillarmente le risorse agro-pastorali, versando le decime per la Chiesa ma disseminando il territorio di risultati positivi.

Nel 1063 il giudice di Torres chiede a Montecassino l’invio di una comunità di monaci cassinesi ma durante il viaggio la nave viene assalita da pirati tirrenici, forse pisani, e la spedizione non va a buon fine. Dopo due anni l’invio riesce e nel 1065, nella zona di Ardara a sud di Sassari, nel Logudoro, si insediano due comunità cassinesi che fondano due chiese: Santa Maria di Mesumundu e Sant’Elia di Montesanto. Seguiranno altri arrivi di monaci cassinesi, camaldolesi, vallombrosani e, qualche decina di anni dopo, arriveranno anche i cistercensi. Questi apporti dall’esterno rivitalizzano il tessuto locale, sia in termini economici sia culturali.
Da Marsiglia, in Provenza, arrivano i monaci vittorini dall’abbazia di San Vittore. Questa chiesa costituisce un importante archivio di documenti che consentono di ricostruire la storia dell’ordine vittorino in Sardegna. Questi monaci sono chiamati dai giudici di Gallura e da quelli di Cagliari. La Gallura non ha conservato tracce consistenti della presenza di questi monaci, ma il giudicato di Cagliari mostra evidenti segni dell’attività dei Vittorini. Svolsero un ruolo di primo piano nella gestione della politica culturale ed economica. A Cagliari ebbero il controllo delle saline e dei porti per l’imbarco del sale, un centro nevralgico del tessuto produttivo cagliaritano.


I giudici donarono ai monaci vittorini le chiavi di volta del culto martiriale del Sud della Sardegna: San Saturnino di Cagliari, Sant’Efisio di Nora e Sant’Antioco di Sulci, tutti protomartiri locali. Mentre le due chiese erano santuari ai quali fin dai secoli precedenti si legava una presenza monastica, Sant’Antioco era sede cattedrale, per cui si ebbero contrapposizioni forti fra i monaci vittorini e i vescovi della diocesi sulcitana perché i vittorini, oltre al ruolo economico, svolgevano un ruolo politico attivo per le sorti del giudicato. Altra ricaduta positiva della presenza dei monaci nel giudicato di Cagliari fu quella dell’attivazione dello scriptorium di San Saturnino. Nei monasteri lo scriptorium era l’ambiente nel quale si trascrivono i manoscritti e si confezionano i codici miniati che costituivano il patrimonio di ogni biblioteca e di ogni archivio medievale. È in questo momento della presenza vittorina che si formano quei nuclei testuali definiti Passiones, ossia la narrazione della vita, fra storia e leggenda, fra culto e tradizione, degli antichi santi martiri isolani.
A partire dal 1089 circa i Vittorini ebbero in donazione numerose chiese, che conosciamo attraverso gli atti con i quali i giudici le concedevano loro, affinché impiantassero i monasteri. Alle prime tre chiese si aggiungono quella di San Giorgio di Decimoputzu e numerose altre, fino all’ultimo inventario del 1338 che consiste in un censimento dei beni dell’ordine dei Vittorini in Sardegna. In quel periodo l’ordine era in forte decadenza e verrà sostituito nella sua funzione politica da francescani e domenicani che da qualche decennio costituivano la forza emergente nel contesto della società europea.

La chiesa di San Saturnino sorge a Cagliari in un’area cimiteriale di epoca romana nella quale trovò sepoltura il martire locale Saturnino che la leggenda agiografica ci dice martirizzato sotto Diocleziano intorno all’anno 303. Nel santuario sorse una chiesa bizantina intorno alla metà del VI secolo, dopo la riconquista della Sardegna da parte di Giustiniano. La chiesa è rilevante dal punto di vista monumentale e architettonico anche nel panorama mediterraneo. Visto che conosciamo l’anno dell’atto di conferma della donazione, il 1089, possiamo certamente affermare che questa chiesa fu donata prima del 1089 ai monaci vittorini. Prima dell’ultima guerra la chiesa si presentava in stato di abbandono, trasformata da interventi edilizi subiti nel corso dei secoli. Nell’ultima guerra una granata colpì la chiesa provocando dei crolli e notevoli danni alla struttura architettonica. Fortunatamente la cupola rimase integra ma una copertura della chiesa rovinò al suolo e questo obbligò l’allora soprintendente Raffaello Delogu a procedere ai restauri dell’edificio. Fu l’occasione di studiare il monumento e nel restauro se ne propose un’interpretazione che diede all’edificio l’aspetto che possiede ancora oggi, a eccezione di alcuni muri che sono stati sostituiti da vetrate. Delle parti più antiche della chiesa bizantina resta soltanto la struttura centrale data da quattro grossi pilastri sui quali appoggiano altrettante grandi arcate per l’imposta della grande cupola centrale. Le strutture murarie ai lati appartengono alla ristrutturazione curata dai monaci vittorini che ricostruirono parte dell’edificio, probabilmente in cattivo stato al momento della donazione. L’intera parte orientale della chiesa, quella che si chiude con l’abside, appartiene a questa ricostruzione. Si tratta della muratura semicircolare che circonda l’altare e di alcune strutture che si notano a livello di fondazione. Non è dato di capire con precisione come fosse la chiesa in origine né come si presentasse quando fu donata ai monaci vittorini nel 1089.

L’ipotesi parte dall’impianto tipico delle chiese bizantine a croce. Ai bracci ovest ed est se ne aggiungevano altri due che li intersecavano in direzione nord e sud. L’impianto doveva essere cruciforme con al centro la cupola. Una prima prova l’abbiamo in un disegno del 1631 contenuto in un manoscritto cartaceo della Biblioteca Universitaria di Cagliari. Il titolo è Alabanças de los santos de Cerdeña (“Celebrazione dei Santi di Sardegna”) e si deve a un ecclesiastico della cerchia arcivescovile cagliaritana in un momento in cui si intraprendevano ricerche archeologiche per ritrovare le reliquie dei martiri. Nel manoscritto si trovano inseriti due fogli che presentano la pianta cruciforme e una veduta della chiesa. Il fulcro è la cupola in muratura, impegnativa dal punto di vista strutturale, che presenta quattro finestrelle poste nei punti cardinali legati alla simbologia medievale che voleva le cupole ispirate al cielo, elemento di raccordo fra la sfera terrena e il cosmo. La struttura che regge la cupola è un cubo dato da quattro arcate dalle quali partivano i bracci che creavano la chiesa a forma di croce.
Osservando attentamente la cupola si nota che manca l’omogeneità della tecnica costruttiva; si intuisce che si è verificato un crollo e si è proceduto a una ricostruzione. I giri di pietra alla base della cupola sono blocchi in pietra grandi e allineati, mentre al di sopra di questi la tecnica cambia e si passa a piccole pietre a forma di mattoncini. Forse furono proprio i Vittorini a curare questo restauro murario, così come fecero per i quattro bracci della chiesa bizantina a croce che risultavano danneggiati. Anche i quattro robusti pilastri sono ricostruiti senza seguire lo stile architettonico classico che aveva ispirato la costruzione originale. In età romana negli spigoli si inserivano le colonne, come si nota nelle ville e nelle terme. Nella ricostruzione di San Saturnino i Vittorini si basarono invece sulle forme dell’architettura romanica europea dell’XI secolo, applicate dai monaci architetti che in Provenza, Costa Azzurra e Catalogna furono gli artefici della prima architettura romanica europea. Le stesse architetture esistevano in Valle d’Aosta, Liguria, pianura padana, Lombardia, Emilia fino ad arrivare in Toscana.



Uno degli elementi romanici è la volta a botte, copertura in pietra che ha la forma di un semicilindro poggiato su un ambiente sottostante. Anche la volta a crociera è tipicamente romanica ed è costituita dall’intersezione di due volte a botte. Un’altra caratteristica del romanico è l’utilizzo dei materiali di spoglio, cioè elementi architettonici in marmo o altri materiali che non vengono lavorati appositamente per l’edificio ma provengono da altri monumenti di età precedente, che per vari motivi crollano o vengono abbandonati: terme, templi, strade porticate. Vicino a San Saturnino esisteva in età romana un tempio del sole e certamente molti materiali arrivano da lì. Si notano i pezzi di colonna riutilizzati nel nuovo edificio.
Una logica analoga porta ad interpretare anche la chiesa di Sant’Antioco che, come quella cagliaritana, sorge su un’area cimiteriale (di età punica), viene dedicata a un martire locale (di età adrianea), alla metà del VI viene ricostruita in forma di croce con cupola centrale e nel 1089 viene donata ai monaci vittorini. Oggi la chiesa è stata restaurata ma la facciata non rispecchia i colori originali: giallino, rosa antico e azzurro spento, caratteristici degli intonaci del momento della costruzione, coerenti con quelli del Carmine di Oristano datata al XVIII secolo. Purtroppo il colore mattone assegnato dalla Soprintendenza crea uno stacco troppo forte fra gli elementi strutturali e il risultato non è piacevole. Dall’interno della chiesa si può accedere a una rete di cunicoli che mettono in relazione le tombe a camera di età fenicio punica con le catacombe cristiane. Anche in questa chiesa si possono distinguere due fasi fondamentali: la chiesa a croce cupolata originale e le strutture di ampliamento e ricostruzione che probabilmente sono frutto del restauro compiuto dai monaci vittorini. Fino al 1966, quando iniziarono i lavori di sistemazione voluti dal parroco Don Armeni, la chiesa si presentava completamente intonacata con un pavimento a quadrelli ottocentesco che oggi è sparito, così come gli intonaci che sono stati totalmente rimossi, riportando la chiesa ad una muratura a vista grazie alla quale si può osservare la tecnica costruttiva della cupola, realizzata con pietre di dimensioni omogenee. Non essendosi verificato alcun crollo, la cupola di Sant’Antioco permette di dedurre come si presentava quella di San Saturnino. Questa chiesa consentiva di mantenere vivo il culto per Sant’Antioco, uno dei santi più venerati nel meridione della Sardegna da allora fino ad oggi, in quanto Sant’Antioco è il patrono dell’intera Sardegna. L’interno della chiesa mostra le strutture bizantine originali alle quali si addossano le murature dell’ampliamento.

I monaci vittorini ebbero anche chiese più piccole, come ad esempio quella di Santa Caterina di Semelìa che si trova nel territorio comunale di Elmas ed è citata dalle fonti nel 1095. Non ha conservato molto della sua fase medievale ma si può intuire una semplice aula mononavata, con abside semicircolare a est. Una chiesa piccola che serviva certamente a una comunità di pochi monaci. Nel 1090 i Vittorini ottennero anche la chiesa di San Giorgio di Decimoputzu, trasformata nei secoli ma con facciata di tipiche forme romaniche. Il recente restauro ha visto la demolizione del bel portichetto che, pur non essendo attribuibile alla prima costruzione, le conferiva l’aspetto di una chiesa campestre, molto più elegante dell’odierna che mostra delle antiestetiche tamponature in cemento. Il portico a tettoia esisteva in molte chiese campestri ma oggi viene impietosamente demolito e sacrificato in nome di un presunto ritorno al “primitivo splendore”, laddove non è possibile ripristinare lo stato originario di un monumento trasformato nel tempo.
San Giorgio poteva essere una chiesa a tre navate, tipiche dell’età romanica, ricostruita con archi gotici in tempi successivi quando fu anche demolita l’abside dell’edificio romanico. Una sua ricostruzione porta a una verifica delle stesse dimensioni proporzionali della chiesa di Sant’Efisio di Nora. A Nora il portico costruito nel Settecento ha cancellato completamente la facciata originaria. Possiamo quindi utilizzare San Giorgio di Decimoputzu per capire come era la facciata di Sant’Efisio di Nora e, viceversa, utilizzare l’abside di Sant’Efisio per capire come era quello di San Giorgio. Queste due chiese sono contraddistinte da un’estrema sobrietà delle murature, senza archetti, senza semipilastri parietali (lesene), senza decorazioni, un modo di concepire l’architettura che si basa sulla maestosità e grandiosità delle strutture murarie, tipico dell’XI secolo.
Sant’Efisio di Nora nel 1089 viene donata ai monaci vittorini. Non conserva tracce evidenti di una chiesa più antica perché i monaci la ricostruiscono integralmente. Della prima chiesa non conosciamo la cronologia, ma fu costruita sulla tomba del martire Efisio che, secondo la tradizione, fu condotto a Nora per essere decapitato ai piedi della rupe di Coltellazzo e poi sepolto fuori le mura della città, nel punto dove oggi sorge la chiesa, poiché la legge romana proibiva le sepolture dentro le mura. Gli scavi hanno recuperato il tracciato di un’antica chiesa dentro la città, vicino alle terme a mare. È parzialmente sommersa e si presenta a tre navate. Fuori dalla città sorse il santuario di Efisio dal quale nel 1088 i pisani sottrassero le reliquie del santo per portarle a Pisa dove si sviluppò un culto. Nel camposanto toscano esiste traccia degli affreschi di Pinello Aretino che raffigurano Sant’Efisio e i compagni del martirio. Visto che la chiesa dentro le mura non era recuperabile, i Vittorini decisero di demolirla ed edificarne una di forme romaniche.
I blocchi utilizzati per le pareti sono grandi, lisci, ben squadrati e forse provengono dalle mura in rovina della città. La cripta dove si trovavano le reliquie del santo è ancora oggi accessibile. L’aula è divisa in tre navate da robusti pilastri e termina a est con la muratura semicircolare dell’abside. La copertura è in pietra con volte a botte su vani a pianta rettangolare. In due navate le volte sono divise da sottarchi, un elemento tipico della prima età romanica. La chiesa conserva traccia del passato punico della città: nella muratura romanica del fianco si nota inserita una piccola stele, un blocco parallelepipedo con una figura umana mummiforme, quindi egittizzante, che forse arriva dal tofet, cimitero infantile di Nora riportato alla luce a ridosso della chiesa da una mareggiata avvenuta una notte del 1888.

Immagini delle chiede di San Saturnino, Sant'Antioco e San Giovanni di Sinis sono di di diocesidicagliari.it, cattoliciromani.com, spazioinwindi.libero.it

Le immagini delle chiese di San Giorgio di Decimoputzu, Santa Caterina di Semelia e Sant'Efisio di Nora sono di www.amigosdelromanico.org, www.flickr.com (by Roberto Serra), e flickr.com


Fonte: atti del convegno di Nora nell'ambito della rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano

mercoledì 21 dicembre 2011

Le antiche ceramiche della Sardegna


I manufatti in argilla dalla preistoria ai nuragici
di Pierluigi Montalbano

La Sardegna protostorica è caratterizzata da un’età aurea in cui caccia, pesca e agricoltura contribuivano al raggiungimento del benessere di quel pacifico popolo di laboriosi artigiani che producevano ceramiche riccamente decorate. Erano plasmate sapientemente e commerciate in ogni angolo dell’isola. Le tracce di quelle antiche culture si trovano anche in Francia, Spagna, nord-Africa e coste tirreniche.
In quell’epoca i sardi non avevano bisogno di torri e mura, vivevano in villaggi corredati di luoghi per il culto e zone funerarie. Il Neolitico sardo dal 6.000 al 3.000 a.C. fu un’epoca di fioritura artistica e le ceramiche che ho riassunto nell’immagine sono lo specchio della cronologia sarda fino all’avvento della civiltà mediterranea (l’età cosiddetta fenicia) che creò un nuovo gusto e quello stile inconfondibile che dal X a.C. si diffuse rapidamente lungo tutte le coste.
Il fermento culturale di questo lunghissimo periodo aiuta la comprensione dello stile di vita dei sardi e la povertà delle ceramiche nuragiche si scontra con le maestose architetture che svettano sul panorama isolano. La ricchezza, l'abbondanza e la bellezza artistica dei manufatti contrasta fortemente con la linearità e l'assenza di icone del periodo nuragico. In particolare, si assiste alla creazione di armi formidabili come le spade di Sant’Iroxi mentre spariscono le belle ceramiche del campaniforme. Perché le spettacolari domus de janas, le sepolture singole (o di clan familiari) che hanno caratterizzato per 1500 anni l’aspetto delle zone funerarie sarde, sono sostituite dalle tombe dei Giganti? E' verosimile che dietro la forma di torri e tombe si celi una nuova simbologia?
I sardi già nel VI Millennio a.C. erano capaci di creare vasi con decorazioni della Dea Madre nelle anse (figura in alto a sinistra), già nel 3.000 a.C. realizzavano coppe con decorazioni antropomorfe, nel 2.000 a.C. parteciparono alla koinè del campaniforme, un gusto internazionale che si manifestò in mezzo Mediterraneo fino alle Alpi, ma durante la civiltà nuragica, ossia a partire dalla fine del XVIII a.C., perdono questo gusto creativo e si dedicano agli edifici immensi costruiti in pietra locale. Solo intorno al XI a.C. le ceramiche sarde riprendono un gusto decorativo che le porta a rivaleggiare in bellezza con quelle micenee. La differenza sostanziale fra queste e quelle è facilmente individuabile in tutti i musei: le sarde sono incise, le micenee (o comunque levantine) sono dipinte. Proprio in questo periodo la civiltà nuragica pone le basi per una rivoluzione sociale che porterà, a partire dal X a.C., a non costruire più le alte torri, e a trasformare le più imponenti in luoghi di culto. Inizia in quel periodo anche la realizzazione delle prime grandi forme scultoree in arenaria (Monte Prama), e piccole in bronzo (guerrieri, divinità e sacerdoti), forte rappresentazione di quella società divenuta aristocratica. Volge al termine il lungo periodo aniconico e, oltre ai piccoli nuraghe simbolici (circa 1 metro di altezza) posti all'interno delle grandi capanne delle riunioni, si realizzano caratteristiche figure antropomorfe in arte geometrica, altre a barchette e animali realizzati con una tecnica difficile e sopraffina: la fusione a cera persa.
La religiosità vede nei riti dell'acqua (vasche) e del fuoco (altari e sacrifici) la massima espressione del culto verso la divinità principale: il Dio rappresentato attraverso le costruzioni ciclopiche. Le due cesure culturali sono individuabili nella facies Sant'Iroxi e nel passaggio dal Bronzo al Ferro. 700 anni di storia che possiamo definire l'età d'oro dei nuraghe.
Esaminiamo cosa accade nei manufatti di questa prima cesura.



Nella facies Sant’Iroxi abbiamo per la prima volta la comparsa di grandi spade (tipo El Argar) al posto dei pugnali. La base di queste pregevoli armi è arrotondata, come quella dei più antichi pugnali, ma la lunghezza arriva fino a 80 cm. Nei protonuraghe non ci sono reperti della fase Sant’Iroxi, quindi, poiché si assiste ad un cambio epocale, in questo periodo a mio parere potremmo far iniziare il periodo sardo nuragico. A Decimoputzu si sono trovati 180 individui sepolti, ma inizialmente erano circa 250 perché una parte manca completamente.
Le facies Sa Turricula, Monti Mannu e San Cosimo, sono precedute da quella Sant’Iroxi, che propone delle novità ceramiche fondamentali rispetto al passato: assenza del vaso tripode, sostituito da un vaso con 4-5 piedi alla base, e comparsa di bollilatte, con una sorta di risega interna che consente di poggiare il coperchio fra collo e spalla del vaso. Altri elementi importanti di questa facies sono piccoli vasi a colletto riverso a 4 anse (o 2 anse e 2 bugne) che accompagneranno la produzione ceramica fino al Bronzo Finale. Altri elementi proseguono dal Bonnannaro: anse a gomito che col tempo tenderanno a cessare (e con San Cosimo sono in versione differente perché non presentano più la forma classica con l’ansa a gomito).
Non bisogna confondere l’ansa a gomito classica con quella a gomito rovescio che compare nel Bronzo Finale e perdura fino all’orientalizzante del Ferro (con ceramiche tornite e dipinte, tipiche nuragiche).
La fase Sant’Iroxi è studiata a partire dagli scavi del 1990 benché fossero già noti materiali di quella fase (Maria Luisa Ferrarese Ceruti), inseriti erroneamente nel grande calderone del Bronzo Antico (Bonnannaro A-Corona Moltana).
I contenitori sono piccoli (ollette a 4 anse con orlo riverso), e possiamo giustificarli dal fatto che i ritrovamenti sono esclusivamente in contesti sacri: funerari o grotte (Su Moiu di Narcao e Su Benatzu di Santadi) e rientrano quindi nel regime delle offerte di cibi ai defunti: acqua, incenso, miele, latte…
A partire dal Bronzo Medio (e fino al Bronzo Finale), ad esempio a Su Benatzu (nota come grotta Pirosu), si moltiplicano i ritrovamenti di materiali per uso cultuale delle grotte.
In questi vasetti compaiono sia l’ansa ad anello che l’ansa a gomito ma non ancora l’ansa a gomito asciforme (quella che risale verso l’alto tipica di Sa Turricula). Questo fatto è strano, perché questa tipologia di ansa compare già nel Campaniforme B (Sulcitano, con decorazioni anche a fasce verticali). Potrebbe essere un’anomalia delle ricerche o dovuta all’ambito funerario, che è quello di Sant’Iroxi (infatti non conosciamo villaggi di questa facies).
I protonuraghe più antichi (quelli a corridoi passanti) non sono ancora scavati e quindi non abbiamo dati per verificare. Il discorso è comprensibile se si pensa, ad esempio, al Talei di Sorgono che è un protonuraghe più recente (con camera a piano terra) nel quale sono state trovate ceramiche Sa Turricula. Se ne deduce che i protonuraghe più antichi dovrebbero presentare materiali più antichi, ma gli scavi ancora non ci danno questa certezza. D’altro canto i materiali sono stati ritrovati nel villaggio, quindi non sappiamo se erano presenti anche all’interno del Talei.
In questo nuraghe abbiamo anche vasetti, tazzine e bicchieri tronco-conici ansati (ma anche privi di anse) che continuano per tutto il Bronzo Medio, fino alla facies San Cosimo. I vasi più grandi (olle a collo largo con labbro appiattito) sono di forma arcaica e li troviamo anche nella fase Bonnannaro A.
Con la ceramica Sa Turricula iniziano i contesti sia tombali che insediativi. Continuano i vasetti troncoconici con prese quadrangolari trasversali (a volte bugne) o cilindriche. Compare la decorazione plastica (nervature) con cordoni che partono dall’orlo, e spesso all’interno del collo ci sono le riseghe (si tratta di bollitori). I vasi sono polipedi (i tripodi non ci sono più), hanno il coperchio e presentano delle coppelle, scavate o in rilievo. Abbiamo anche piatti con orlo appiattito, simili a quelli Monte Claro e a volte inseriti erroneamente (come è avvenuto nel Nuraghe Bruncu Maduli di Gesturi) in questa fase proprio perché non si conosceva ancora la facies Sant’Iroxi.
È possibile fare dei confronti precisi di queste tipologie ceramiche di olle biconiche e globulari a tesa interna (pissidi), bollitori e tegami con i materiali delle facies Proto-Appenninica e Appenninica, a dimostrazione delle relazioni ad ampio respiro presenti in questo periodo.
Le anse si trasformano leggermente nella facies successiva, quella denominata San Cosimo, pertanto è abbastanza semplice classificare i materiali di queste tre facies.
Per non allungare ulteriormente l’argomentazione tralascio di descrivere le ceramiche posteriori, ma conto di aggiungere qualcosa nei commenti.


L'immagine in alto è realizzata con ceramiche fotografate in vari musei sardi. E' stata creata a scopo dimostrativo.

Il collage di ceramiche nuragiche a mezza pagina è realizzato con immagini tratte da La Civiltà Nuragica, Lilliu, 1999

martedì 20 dicembre 2011

Maya, la profezia della fine del mondo nel 2012 è stata smentita.


Messico. Studioso smentisce la profezia Maya del 2012
di Martina Calogero


Niente più fine del mondo, ma semplicemente l’inizio di una nuova era. Secondo Sven Gronemeyer, studioso tedesco de La Trobe University in Australia, la tavoletta su cui è incisa l’iscrizione, che si trova in Messico, sul Monumento 6 del tempio Maya di Tortuguero, è in parte illeggibile e quello che ne rimane indicherebbe il principio di un nuovo ciclo. Al posto di morte e distruzione, quindi, il ritorno dal cielo di Bolon Yokte, la misteriosa divinità Maya della guerra.
L’ipotesi di Gronemeyer è giunta qualche giorno dopo l’annuncio da parte dell’Istituto messicano di Antropologia relativo alla scoperta di una seconda testimonianza che avrebbe avallato la profezia del 2012 ed è stata comunicata proprio nel corso di una conferenza, organizzata dall’Istituto nell’area archeologica di Palenque, nel Messico meridionale, allo scopo di inibire la nuova ondata di panico scatenata dall’ultimo ritrovamento. La nuova iscrizione è stata trovata su un mattone, tra le rovine di Comalcalco, nei pressi di Tortuguero, e potrebbe riferirsi esplicitamente al 2012, ma per adesso il documento è tenuto dall’Istituto lontano dagli occhi del pubblico.
In contrasto con le previsione apocalittiche pullulate negli ultimi anni, che attribuiscono a eventi diversi il compito di porre fine al mondo, lo studioso tedesco ritiene che l’iscrizione si riferisca solamente alla fine di un periodo, incominciato 5125 anni fa con l’inizio dell’Età dell’Oro e che finirà il 21 dicembre 2012. Infatti, Bolon Yokte è anche la divinità della trasformazione: secondo Gronemeyer, l’antico sovrano Bahlam Ajaw aveva semplicemente indicato il passaggio del dio e l’intenzione di ospitarlo nel tempio di Tortuguero. La data ha una valenza simbolica perché è vista come il riflesso del giorno della creazione.
Fonte: Archeorivista

lunedì 19 dicembre 2011

Defunti illustri in Sardegna

Antenati e “defunti illustri” in Sardegna: qualche considerazione sulle ideologie funerarie di età punica.
di Giuseppe Garbati


(tratto da Bollettino di Archeologia on line I 2010/ Volume speciale A / A3 / 5)
Introduzione

La ricostruzione delle ideologie funerarie e dell’immaginario oltremondano nel mondo fenicio e punico costituisce uno dei campi di studio più stimolanti e problematici al tempo stesso. Sebbene rimangano moltissime zone d’ombra sulla conoscenza di questa specifico ambito sociale e religioso, dovute alla ben nota quanto sconfortante scarsezza delle testimonianze dirette, letterarie ed epigrafiche nello specifico, la ricerca ha potuto giovarsi, negli ultimi anni, dei risultati di numerose indagini archeologiche; condotte in diversi contesti necropolari della madrepatria e delle colonie, esse hanno consentito la raccolta di nuovi dati, ampliando la quantità e la qualità delle informazioni e contribuendo, pertanto, a disegnare un panorama assai più completo (e complesso) rispetto agli anni passati. Una delle regioni in cui l’apporto dell’archeologia si è dimostrato particolarmente ricco di nuove suggestioni è senza dubbio la Sardegna, sia in relazione ai contesti e ai corredi funerari appartenenti alle fasi arcaiche della presenza fenicia, sia in riferimento alle molteplici testimonianze inquadrabili nell’età della conquista punica. In merito a questa seconda epoca, cui sono rivolte le nostre riflessioni, alcuni elementi interessanti, indagabili sotto varie prospettive, sono stati restituiti solo di recente dagli importanti rinvenimenti che hanno interessato la necropoli punica di Sulcis. In particolare, le indagini condotte in loco da P. Bernardini hanno portato alla scoperta di una nuova tomba, pubblicata nella sua interezza nel 2005. La ricchezza del sepolcro, nonché la possibilità di disporre di un notevole complesso di dati, consentono, quindi, di esprimere alcune considerazioni, orientate da un lato all’analisi del panorama storico e culturale di appartenenza del sepolcro e, dall’altro, ampliando il quadro, all’esame del complesso religioso che potrebbe aver rappresentato la base ideologica della realizzazione del monumento. La tomba, la numero 7 della necropoli punica di Sulcis, datata grazie al corredo ceramico entro la seconda metà del V a.C., è composta da un’unica grande camera a pianta trapezoidale (cui si accede da un ampio corridoio gradinato) provvista al centro di un pilastro (fig. 1). L’interno della cella, lungo la parte superiore delle pareti, presenta «larghe fasce dipinte in rosso che inquadrano otto nicchie costruite – due per


ogni parete – ed una falsa porta; anche le facce laterali e posteriore del pilastro centrale sono riquadrate da bande rosse». Il nodo della decorazione è costituito da un altorilievo dipinto, ricavato sulla parete anteriore del pilastro (fig. 2). L’immagine, di accentuata ispirazione egiziana, rappresenta una figura maschile incedente, ritratta in posizione frontale e vestita di un corto gonnellino; il braccio sinistro, portato al petto, reca al polso un laccio cui è legato un piccolo contenitore, mentre il destro, disteso lungo il fianco, presenta il pugno chiuso a tenere un rotolo. Su entrambe le braccia è riportata una serie di tre bracciali, resi attraverso pittura rossa; la stessa pittura e del pigmento nero sono ampiamente utilizzati per sottolineare altri particolari dell’immagine, sia anatomici (le labbra, la barba, i baffi, la capigliatura, le orecchie, i capezzoli), sia inerenti all’abbigliamento e agli accessori (il copricapo, il gonnellino, il diadema, il rotolo, il recipiente). Come suggerito da Bernardini, la tipologia e l’iconografia del rilievo non sono certo ignote alle necropoli del comprensorio sulcitano; il nuovo esemplare, infatti, va ad aggiungersi ad altre due sculture affini presenti, l’una, nella stessa necropoli di Sulcis e, l’altra, in un sepolcro della vicina Monte Sirai. Sul fondo della camera, inoltre, in prossimità dell’angolo di destra, lo scavo ha permesso il recupero dei resti di un feretro ligneo il quale, sebbene pervenuto in precarie condizioni di conservazione, doveva recare sulla parte superiore una decorazione a rilievo con la riproduzione di un’immagine antropomorfa simile, con buona probabilità, al personaggio scolpito sul pilastro: si tratta di una produzione che si lega alla tradizione egiziana dei sarcofagi in legno e cartonnage (noti anche in ambiente cartaginese), demarcando nuovamente, assieme all’altorilievo, la forte impronta egittizzante dell’intero contesto.

Note di iconografia e di iconologia
Il particolare ambito di appartenenza e l’iconografia del personaggio sulcitano pongono una serie di questioni che non solo coinvolgono la fisionomia delle ideologie funerarie fenicie e puniche, ma che si riallacciano specificamente,
come vedremo più avanti, alle relazioni tra la madrepatria e il mondo coloniale. Iniziando dal problema dell’inquadramento storico-artistico – di cui in questa sede vengono presentati solo alcuni spunti di riflessione – la temperie d’origine cui la scultura si ispira va rinviata verosimilmente ad ambiente levantino, fenicio e cipriota nella fattispecie. Nonostante non sia difficile, come indicato, riscontrare la profonda influenza da parte dell’arte e della cultura egizie e sebbene esistano precisi paralleli nella documentazione coloniale (alla Sardegna si aggiungono Malta e la Sicilia, con, rispettivamente, un esemplare da Tas Silg e uno dallo Stagnone di Marsala), l’altorilievo potrebbe trovare i precedenti diretti nella produzione orientale, fenicia e cipriota, di sculture di tipologia analoga (sia a tutto tondo, sia a rilievo). È noto che in Oriente una simile corrente artistica si articola cronologicamente in due fasi: la prima si sviluppa nella madrepatria a partire dall’VIII secolo e comporta la diffusione di opere che imitano direttamente la
statuaria egiziana (ne è esempio il celebre torso di Tiro); l’altra, invece, che inizia intorno al 600, pur riproponendo anch’essa i modelli egizi, trova la sua sede primaria di elaborazione nell’isola levantina, «tanto da far pensare, in più di un caso, all’importazione da Cipro delle stesse statue ritrovate in Fenicia o forse degli artigiani che le produssero in loco». Se però nel territorio insulare questa produzione non scende oltre l’età persiana, in Fenicia tali sculture sono ben documentate anche in fasi più recenti (IV-III a.C.), come mostrano alcuni esemplari da Sarepta e da Umm el ‘Amed. Simili indicazioni potrebbero suggerire, pertanto, che i modelli di derivazione dell’altorilievo di Sulcis non vadano cercati direttamente in Egitto (che pure rimane l’ambiente originario di mutazione del tipo), quanto



nelle stesse aree levantine, dove la ricchezza e la lunga fase di sviluppo di questa produzione ne fanno una delle forme più notevoli dell’arte scultorea locale. Il rinvio al mondo fenicio e cipriota, del resto, non rimane certo speculativo se teniamo presente che l’età in cui è inquadrabile la scultura sarda segue immediatamente un periodo ricco di stimoli, durante il quale si assiste, in modo consistente, alla riapertura dei contatti tra le colonie occidentali e la Fenicia, coadiuvati dalla più liberale politica dell’impero persiano. Tra le regioni orientali maggiormente interessate dal fenomeno, vanno annoverati il territorio di Sidone (sede di un governatorato appartenente alla V satrapia) e, non a caso, l’isola di Cipro; quest’ultima, come documentato da diverse classi di materiali, dovette ricoprire in tale contesto una funzione primaria, in quanto componente e veicolo della cultura fenicia nella diffusione da Oriente a Occidente. Ed è proprio per il tramite delle aree levantine che anche nuove o già note suggestioni egiziane dovettero raggiungere l’ecumene coloniale, pur senza escludere l’esistenza di apporti diretti dalla valle del Nilo. Che la tomba sulcitana possa rientrare pienamente in questa temperie – o che almeno possa essere considerata come uno dei risultati del rinnovamento dei rapporti – è poi suggerito da un ulteriore aspetto, relativo, specificamente, all’architettura del sepolcro: la porta d’ingresso alla camera funeraria presenta lungo i margini un motivo a cornici multiple, ben noto in numerosi esempi della produzione di stele. Secondo un esame di S.F. Bondì, tale decorazione andrebbe ricondotta ad ambito culturale fenicio-cipriota, considerata la diffusione del motivo in numerose tombe dell’isola, databili nel corso del VI a.C.. Passando ora all’esame iconologico del rilievo, ricordiamo che già nella pubblicazione della tomba P. Bernardini ha sottolineato giustamente come l’identificazione della figura non sia né semplice né immediata; l’immagine, infatti, può essere interpretata, per esempio, quale rappresentazione «di un genio o demone ctonio, incaricato di proteggere i defunti e il loro ultimo sonno o periglioso viaggio dell’anima, secondo modelli di lettura applicati peraltro anche alle maschere e alle protomi rinvenute in contesti funerari». Nonostante l’eventualità di un simile riconoscimento, lo stesso Bernardini, tuttavia, preferisce vedere nella scultura l’allusione simbolica al defunto eroizzato; secondo l’autore, tale identificazione sarebbe indicata, tra l’altro, dalla pittura rossa, posta a sottolineare alcuni particolari dell’esemplare e forse da legare a «riti di preparazione del cadavere ben attestati nell’Africa punica e punicizzata». Ques’ultima interpretazione è poi suffragata da almeno altri due elementi, inerenti entrambi al contesto di rinvenimento. In primo luogo, abbiamo già avuto modo di notare come all’interno della camera funeraria sia stato trovato, anche se estremamente danneggiato, il feretro ligneo che conteneva i resti del defunto, decorato superiormente con una figura affine all’immagine sul pilastro. In secondo luogo, i documenti archeologici riflettono l’originaria destinazione del sepolcro a un’unica deposizione, quella attestata dai resti del sarcofago, il che manifesta ulteriormente il prestigio del defunto. Non da ultimo, è utile ricordare la presenza nella cella di resti di uccelli e di uova deposti all’interno di una nicchia e sparsi sul pavimento, da intendere come residui di rituali funerari connessi probabilmente a ideologie di rigenerazione nell’aldilà. A questi dati si può aggiungere che la possibilità di un confronto tra l’altorilievo, le maschere e le protomi di ambiente necropolare, che potrebbe indicare nell’opera la rappresentazione di un «demone», non può essere utilizzata come diretto supporto alla lettura del monumento, considerata la differenza sostanziale tra le categorie artistiche messe a paragone; è significativo, infatti, che nulla di mostruoso o grottesco connoti la figura: rispetto alle immagini riportate sulle maschere, per esempio, l’altorilievo appare ben più personalizzato. Seguendo quanto già indicato da Bernardini, sarà quindi preferibile leggere l’esemplare nei termini di una concettualizzazione figurativa del defunto, rappresentato in una veste che lo rende, dopo la morte, appartenente a una particolare categoria sovrumana legata alla percezione fenicia dell’universo oltremondano. Naturalmente, nessun elemento del sepolcro ci informa in via diretta sui tratti specifici di questa identificazione; e se è certo allusiva la pittura che evoca la falsa porta, forse in riferimento all’idea di una soglia verso una realtà extra-ordinaria, extra-umana, rimane pur sempre un sensibile vuoto documentario. Tuttavia, alcune indicazioni più precise possono essere raccolte soffermandoci di nuovo sul quadro storico e culturale d’insieme.
Tra Oriente e Occidente
L’eventualità di rintracciare nel mondo levantino di VI e V secolo i modelli originari del personaggio sulcitano, e con essa la possibilità di identificare nella statua la raffigurazione ideale del titolare del sepolcro, permettono di compiere un ulteriore passaggio per la lettura della scultura. Il transito dalla Fenicia e da Cipro verso Occidente di prodotti ed esperienze artistiche, infatti, si accompagna alla penetrazione negli insediamenti coloniali di nuove forme di culto che, in Sardegna nella fattispecie, ma così anche a Cartagine, trovano la più compiuta affermazione proprio a partire dall’età persiana; lo indica, per esempio, la presenza nelle colonie di divinità precedentemente assenti, come Sid e Shadrafa. Rimanendo sul suolo sardo, nel tentativo di chiarire l’ambito culturale di appartenenza dell’altorilievo, ci sembra utile soffermarci particolarmente sulla figura del dio Sid, la cui morfologia potrebbe restituire alcuni spunti di riflessione, consentendo anche l’individuazione dei fondamenti religiosi di riferimento della scultura stessa. Il culto del dio acquista una «rinnovata» o «nuova» centralità nell’isola a seguito della conquista cartaginese, e specificamente nel corso del V secolo, momento cui va assegnata l’edificazione del tempio di Antas (Fluminimaggiore – Sardegna interna sud-occidentale). Identificato con il romano Sardus Pater (il Sardo che, secondo alcuni brani classici, colonizza la Sardegna e ne diviene eroe eponimo), Sid si mostra come una divinità dalle forti coloriture dinastiche, un «eroe divino», per usare una nota espressione di S. Ribichini, antenato progenitore e, in quanto tale, personaggio intimamente vincolato alla legittimazione ideologica dell’avvenuta conquista punica della Sardegna. Egli, inoltre, è legato nelle funzioni al dio nazionale dei Fenici, Melqart, tanto da essere associato alla divinità tiria in una nota iscrizione di Cartagine. Peraltro, Sid si presenta fortemente debitore, nella morfologia, di antiche tradizioni orientali incentrate sulla venerazione di personaggi storici divinizzati dopo la morte (questione sulla quale dovremo tornare più avanti) e si presenta affine, proprio in questo particolare aspetto, ad altre note divinità fenicie, quali Eshmun,
Shadrafa e Milkashtart. Il suo culto, inoltre, è permeato di aspetti religiosi appartenenti alla cultura di sostrato, di nuovo focalizzati sulla diffusione e sulla venerazione di figure dai tratti dinastici: il titolo B’BY, che accompagna il nome di Sid nelle iscrizioni puniche di Antas – da intendere come termine di derivazione paleosarda recante il significato di «padre» (in senso dinastico) –, sottenderebbe un legame diretto del dio con una divinità regionale delle genti indigene (lo stesso Sardo, eroe eponimo di Sardegna). Ora, fermo restando il riconoscimento in Sid di caratteri propri della tradizione locale sarda, ci sembra però che non sia necessario «scomodare» la figura di un «primo (dio nuragico) dei Sardi», del quale d’altra parte mancano testimonianze dirette. È preferibile, piuttosto, cercare un momento di contatto tra le due culture, la fenicia e quella di derivazione nuragica, proprio nel culto degli antenati, che costituisce uno dei tratti più qualificanti della religiosità protostorica dell’isola, come del resto indicato, solo per citare qualche esempio, dalle celebri statue di Monti Prama o anche da alcune serie della bronzistica figurata: in queste opere è spesso riportata l’immagine di illustri personaggi raffigurati in ruoli significativi, arcieri, sacerdoti, guerrieri, per la sopravvivenza dell’identità propria delle comunità elitarie indigene. Tematiche eroiche, principesche e sacerdotali appaiono centrali all’interno dei gruppi dominanti, i quali, con finalità di autocelebrazione, tendono a ritrarsi «con i simboli e gli apparati del culto e, soprattutto, con l’arredo delle proprie armi». Nella figura di Sid B’BY sarebbero quindi confluiti alcuni tratti delle memorie cultuali protostoriche, rinviabili alla venerazione di personaggi illustri divinizzati dopo la morte, più che le qualità di una divinità specifica già pienamente concettualizzata, nei suoi tratti regionali, in età protostorica. Questa breve digressione sulla morfologia di Sid ci consente, a questo punto, di proporre qualche ulteriore considerazione. Più precisamente, la questione che si pone risiede nella possibilità di comprendere se sia possibile istituire forme di relazione tra la diffusione delle sculture funerarie del Sulcis, così legate alla venerazione dei defunti e al loro processo di eroizzazione, e la coeva affermazione del culto di un dio dalle forti coloriture dinastiche, strettamente vincolato alla sfera oltremondana. Una simile domanda, oltre a trovare motivazione in comuni aspetti religiosi dei due elementi posti in relazione, è giustificata anche dall’appartenenza dell’altorilievo sulcitano e del culto di Sid a un medesimo sfondo storico e culturale, tutto concentrato, come si è notato in precedenza, sulla maturazione delle nuove suggestioni che da Oriente raggiungono l’Occidente durante l’età persiana (e che sembrano trovare in Sardegna terreno fertile per la
loro stessa affermazione). Proprio in virtù di questo aspetto, per cercare possibili elementi di confronto e di comprensione è necessario volgersi nuovamente a Oriente.
Verso Oriente. Re, eroi, antenati La documentazione levantina mostra una particolare attenzione cultuale verso membri insigni della società cittadina dopo la morte. Forme simili di culto vantano una lunga storia nella Siria-Palestina, tanto da essere testimoniate nei testi letterari almeno della tarda età del Bronzo. Ci riferiamo, nella fattispecie, alle figure dei Rapiuma ugaritici (e dei Refaim biblici): come è noto, il nome di questi ultimi qualifica defunti illustri (sovrani, guerrieri, personaggi storici rilevanti), assurti, dopo il decesso, a un rango speciale tra le ombre dei morti; spesso in rapporto con la dinastia regale, essi ricoprono notevoli capacità di intervento benefico nei confronti dell’uomo. Il fondamento mitico del culto dedicato a questi personaggi è conservato nella vicenda del dio Baal; come si evince dalle tavolette ugaritiche, costretto ad affrontare in un terribile scontro il dio Mot, la «morte», egli diviene il protagonista di una vicenda di scomparsa negli inferi e di ritorno alla vita, attraverso la quale ottiene il rango di Baal-Rpu, «Baal il salvatore/guaritore», capo dei Rapiuma. Sul piano cultuale «la catabasi di Baal agli inferi apre la strada al riconoscimento (…) del semplice morto che diviene naturalmente antenato. Membro, cioè, di una comunità ritenuta attiva e operante a favore dei vivi, presente nelle memorie e nel culto». In questo senso il mito di Baal, nell’episodio della lotta contro Mot, della sconfitta e della conseguente riaffermazione del dio, si fa fondamento di una «soluzione» alla morte, che trova spazio e materia nelle pratiche cultuali dirette alla devozione di personaggi storici divinizzati. Pertanto, ad Ugarit, «entrare a far parte dei Refaim è in concreto un mezzo per conservare anche dopo la morte una funzione precisa ed essenziale, che appare una reale e vincente alternativa culturale tanto ad una larvata forma di “esistenza” nell’aldilà, quanto a soluzioni snaturalizzanti come la vita eterna». Grazie a numerosi studi, più o meno recenti, siamo oggi in grado di riconoscere quanto le concezioni relative a Baal e ai gruppi di Rapiuma/Refaim abbiano influenzato la storia religiosa e la sistemazione dei pantheon cittadini negli insediamenti fenici, tanto da portare le morfologie di alcune delle principali divinità, poliadi e non, a essere direttamente debitrici del mito e del culto del grande dio ugaritico. Ne troviamo il più chiaro esempio in Melqart, concepito come la «ipostatizzazione mitico-rituale della figura del sovrano, proiettato nella sfera delle divinità; o, se si vuole, rovesciando completamente l’ottica, del coinvolgimento del Bacal cittadino nel novero dei dinasti, facendone appunto il primo re, il capostipite, l’esemplare». Se quindi appare piuttosto evidente la conservazione, in alcune divinità fenicie, di elementi appartenenti alle tradizioni ugaritiche, facenti perno sul culto dei Refaim (come accennato, oltre a Melqart, rientrano nello stesso contesto anche Eshmun, Shadrafa, Milkashtart e lo stesso Sid), dobbiamo però ammettere che proprio la presenza di quella stessa categoria di avi divinizzati, che potrebbe rappresentare una chiave di lettura dell’altorilievo sulcitano, si mostra alquanto flebile nella documentazione fenicia. I dati epigrafici più antichi in merito, infatti, tacciono del tutto, laddove il nome Refaim ricompare in età persiana e, specificamente, nelle iscrizioni funerarie dei re sidonii Eshmunazar e Tabnit; tuttavia, l’architettura dei testi – si tratta di maledizioni rivolte contro gli eventuali profanatori delle tombe reali – appare riservare al termine un significato molto ampio, tale da poter includere tutti i comuni defunti piuttosto che una sola categoria, peculiare, di antenati. Sembrerebbe cioè che nel tempo l’antico culto, cristallizzatosi nella morfologia di particolari divinità, quali Melqart, abbia trovato in queste una sorta di «soluzione fenicia», lasciando meno spazio alla prestigiosa alternativa, umana e culturale, alla morte che gli stessi Refaim rappresentano nel passato ugaritico. Tuttavia, all’interno di un simile contesto, un particolare dato epigrafico risulta indicativo. Sebbene, come visto, la documentazione fenicia parrebbe conferire nel tempo ai Refaim la connotazione di comuni defunti, nel mondo occidentale il culto degli stessi Refaim sembra riproporre alcune delle sue qualità originali. È di nuovo attestato, infatti, nell’Africa romana grazie all’iscrizione bilingue di El-Amrouni (I d.C.): l’epigrafe, neopunico-latina, si apre con la dedica ai Refaim, definiti ’lnm, ed equiparati ai Mani latini. In tal caso, pertanto, ci troviamo di fronte a una chiara testimonianza del valore dinastico attribuito a certi gruppi di personaggi dopo la morte, forse sulla linea del mantenimento, mutatis mutandis, di quegli aspetti che, almeno apparentemente, troviamo affievoliti (?) in Fenicia nelle epigrafi dei re di Sidone.
Sid pater e defunti “illustri”
Ora, per riprendere le fila delle nostre riflessioni, è il caso di soffermarci su quello che costituisce il principio fondante, il mito riattualizzato nel rito, del culto di personaggi celebri e operanti a favore dei vivi dopo la morte (originari di ambiente siro-palestinese), vale a dire la ricordata relazione tra la vicenda di Baal e l’istituzione del culto dei Rapiuma. Spostando infatti quello stesso fondamento verso la Sardegna, è lecito tornare a chiedersi se l’affermazione dalla piena età punica di Sid, dio pater, vicino nei tratti proprio alle figure dei Rapiuma, abbia avuto una qualche relazione con la coeva diffusione di particolari forme di culto funerario, espresse da raffigurazioni tanto personalizzate quali gli altorilievi del Sulcis: questi, infatti, sono forse il sintomo più tangibile della celebrazione «eroica» di personaggi di prestigio, non così presente, almeno a livello figurativo, nelle fasi precedenti. Nel tentativo di suggerire linee di lettura, certamente più propositive che risolutive, ci sembra che l’analisi d’insieme dei dati fin qui discussi difficilmente potrà essere letta scindendo le varie componenti del quadro culturale. Il culto di Sid, «eroe divino», e quello dei defunti eroizzati si mostrano come parti costituenti di uno stesso sistema, in buona misura analogo a quanto l’antica documentazione levantina ci propone: le ideologie promosse in Sardegna dal V secolo nel culto di una divinità dinastica – garante dell’affermazione politica ed ideologica di Cartagine nell’isola –, potrebbero aver costituito una sorta di principio fondante, da cui avrebbero attinto alcune modalità di «guardare alla morte». Seguendo quest’ottica, la possibilità di disporre di tradizioni cultuali e mitiche, di certo stratificate nel tempo, avrebbe consentito l’istituzione e la promozione di particolari forme del culto funerario; e questo è tanto più da sottolineare se torniamo a pensare alla fase storica in oggetto: il cambiamento della situazione sociale di Sardegna, ad avvenuta conquista punica (il che dovette essere fonte di squilibri), nonché la ripresa dei rapporti con la Fenicia, potrebbero aver rappresentato i due poli entro i quali si sarebbe mossa la ricerca di elementi tradizionali (levantini), anche applicabili alla nuova dimensione culturale dell’isola. Del resto, sebbene manchino a tutt’oggi fonti letterarie di ambito fenicio in merito, potremmo rintracciare l’eco di simili dinamiche in numerosi racconti classici facenti perno sulle figure di eroi protagonisti, anche nella morte, della storia più antica della Sardegna. Viene spontaneo pensare, per esempio, a Iolao, da alcuni identificato con Sid, il quale trova nell’isola, secondo Solino, il luogo della sua sepoltura: è ancora Solino che ricorda lo svolgimento di un culto presso il sepolcro dell’eroe greco (I, 61). È naturale che con tali osservazioni non si intende schiacciare i dati oggi disponibili, e il loro divario cronologico, in un quadro immutato e immutabile, che tale rimane nel passaggio dei secoli e nel trasferimento ad Occidente; così come non si vuole necessariamente vedere nella scultura sulcitana l’immagine di uno dei Refaim dai tratti essenzialmente identici a quelli di ambito levantino (le semplici ma profonde differenze di contesto cronologico e storico impongono ovvie cautele in questo senso). Tuttavia, l’esistenza di figure divine intimamente legate al mondo dei morti e il loro rapporto con culti di eroizzazione di particolari categorie di defunti si mostra come un aspetto così essenziale della religione fenicia che difficilmente potrà non aver avuto riflessi, pur aggiustati e rielaborati, nel mondo coloniale. Su questa linea, il teatro culturale al quale ci sembra appartengano le sculture sulcitane potrebbe essere quello di una riproposizione, anche sul piano figurativo, di un antico modello religioso vicino-orientale, fondato sul rapporto «divinità morente»/culto dei morti; esso potrebbe aver trovato una nuova consistenza nella Sardegna di V secolo, anche in conseguenza della riapertura delle relazioni con la Fenicia e con il mondo cipriota. Rimangono significative, del resto, le profonde connotazioni egittizzanti della tomba n. 7 di Sulcis, che certo arricchiscono e integrano il panorama delineato, pur non essendo necessariamente interpretabili come fonte primaria delle ideologie veicolate dai vari elementi – l’altorilievo in primis – del sepolcro stesso. Peraltro, proprio nell’isola, le rinnovate suggestioni avrebbero interagito, da un lato, con la memoria cultuale delle genti insulari, consentendo la confluenza nella morfologia di un dio fenicio, Sid B’BY, di tradizioni appartenenti al retaggio locale; dall’altro, avrebbero invece condotto ad esiti squisitamente punici, le tombe sulcitane; pur mutate le condizioni sociali, politiche e culturali nel passaggio ad Occidente, il modello levantino avrebbe consentito a membri eminenti della società di assumere, dopo la morte, un rango speciale nell’aldilà, secondo una veste che tanto deve alle tradizioni siro-palestinesi: è dunque anche in questa direzione che potrebbe essere letta una parte degli apporti fenici che segue la ripresa dei contatti tra la madrepatria e l’ecumene coloniale, rinnovandosi o trovando essi stessi nuova affermazione. Rimane da rimarcare infine, ma è questo un aspetto che meriterebbe un ulteriore approfondimento, il fatto che tali processi sembrino concentrarsi preferibilmente nella regione sulcitana, tra Sulcis stessa, Monte Sirai e Antas, disegnando il profilo di un territorio ampiamente aperto alla ricezioni di stimoli, nonché alla loro rielaborazione da parte delle nuove e delle antiche culture trovatesi in contatto.

Fonte: www.archeologia.beniculturali.it/pages/pubblicazioni.html