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lunedì 31 gennaio 2011

Il culto del fuoco e altri sincretismi.


Il calendario sardo è disseminato di sagre e feste in tutti i mesi dell’anno. Un certo diradarsi si verifica solo gli ultimi giorni di carnevale e durante la Quaresima; ma con i riti della Settimana Santa riacquistano nuovo impulso.
Le sagre sono ottime occasioni per dare risalto al folclore poiché, oltre a svolgersi nel loro ambiente naturale, assicurano molto spesso la presenza di gruppi in costume che possono così esibirsi nel modo più autentico, favorendo una affascinante presa di contatto con le tradizioni dell’isola.
L’essenza principale di queste sagre è di natura religiosa e a motivarle sono stati voti di singole persone per grazia ricevuta e voti comunitari per la cessazione di pestilenze, carestie, inondazioni, invasioni di cavallette, ma a volte sono state ispirate dal ritrovamento, spesso leggendario, di simulacri. Il loro svolgimento vede sempre un accavallarsi di riti cristiani e componenti pagane che attestano come la religiosità dei sardi, pur essendo profondamente radicata, non sia aliena da reminiscenze di culti primitivi.
Notevole importanza ha il legame tra i miti e le vicende dell’agricoltura, che hanno sempre condizionato l’isola. Questo spiega anche certi riti propiziatori di un buon raccolto, ottenibile da una terra feconda, e rafforza il convincimento che la partecipazione del popolo alle sagre, in passato, non avesse tanto lo scopo di divertirsi ma, come sostiene Salvatore Cambosu, “piuttosto per stordirsi, per nascondere l’ansia e la cupezza nel tumulto e nell’allegria rumorosa”.
A ciò va aggiunta l’esigenza (peraltro sempre viva in ogni popolo) di potersi rivolgere a qualche divinità, che si è espressa in un avvicendarsi di culti i quali, anziché sostituirsi l’uno all’altro cancellando i precedenti, hanno conservato le matrici originarie, ancorché pagane, dando luogo ad un sincretismo non di rado caratterizzato da aspetti di eccezionale fascino.
Fra le migliaia di sagre che si celebrano tutti gli anni, un certo numero ha origini tanto antiche da mostrare non pochi legami con le costumanze dell’età nuragica. La miglior dimostrazione è offerta dai rituali caratteristici del culto fallico, la cui diffusione è confermata dai tanti betili, sparsi nelle campagne. Questo culto si è protratto sino alla fine del Settecento, quando la religione cattolica ha completato la sua penetrazione nell’isola, senza tuttavia riuscire a cancellarlo del tutto. Tant’è che riaffiora sia nei falò (tuvas) di Sant’Antonio Abate e di San Giovanni Battista, sia in certe forme di comparatico stipulato con le canne fresche (cannas friscas), tutti legati anche all’antico culto del fuoco. In Barbagia il culto delle pietre va assai oltre i betili, per coinvolgere perfino le rocce dove la leggenda colloca una qualche impronta della Vergine: un accostamento comprensibile, se si tiene conto che i barbaricini sono rimasti attaccati più a lungo del resto dell’isola alla religione pagana e, quindi, più numerosi sono i suoi intrecci con quella cristiana.
Altrettanto può dirsi per il culto dell’acqua, che attribuisce poteri taumaturgici alle fonti ed alle sorgenti. Lo conferma una tradizione di Capoterra (ma si potrebbero citare molti altri casi) dove i fedeli, dopo aver bevuto l’acqua sorgiva della grotta di Santa Barbara, particolarmente venerata da quella popolazione, deponevano in una sporgenza della roccia una piccola croce ottenuta con due stecchi: ma in quella stessa fonte, in epoca pagana, probabilmente si offrivano doni e si rivolgevano preghiere agli dei. In entrambi i casi, dunque, celebrando riti di purificazione e consacrazione. E una conferma ulteriore è data dalla venerazione per la Madonna d’Itria che, in effetti, trae origine dalla Hodighetria, con cui la Chiesa greca ha definito il culto dell’acqua.
La maggior parte delle sagre risale al periodo della dominazione bizantina. Moltissime, infatti, presentano caratteristiche simili ai rituali ortodossi diffusi in Grecia, nei quali risaltano forme popolari di cerimonie religiose vicine alle rappresentazioni sacre. Queste rappresentazioni, analoghe a quelle dei primi secoli del cristianesimo, hanno assunto il massimo sviluppo fra il VI ed il VII d.C., e cioè quando la Sardegna si trovava sotto il dominio di Bisanzio, dal 533 all’800 d.C.
In quei festeggiamenti dovevano certo rientrare i balli rituali con cui i primi cristiani solennizzavano l’arrivo di un vescovo nella sede della diocesi e che, secondo la prassi del culto greco, si svolgevano all’interno delle chiese, ed il via veniva dato dallo stesso vescovo. Altre caratteristiche consistevano nelle corse di cavalli, nelle gare poetiche, nei banchetti e pernottamenti, anche questi ultimi effettuati dentro le stesse chiese in cui si celebravano i riti religiosi.
Tutte queste usanze non potevano trovare il favore della Chiesa di Roma che, pur accettandone suo malgrado qualcuna, ne ha contrastato altre, in particolare quelle che sembravano rappresentare una profanazione degli edifici di culto. Il sinodo di Sassari del 1552 giunse a sollecitare l’intervento delle autorità civili affinché non permettessero al popolo di recarsi a manifestare la propria devozione, nella speranza che tale divieto evitasse la conseguenza ovvia di ballare, banchettare con pane, carne e vino (usanza, questa, definita variamente sa fitta o su chirriòlu) e pernottare dentro la chiesa.
Altre condanne furono pronunciate dai sinodi di Torres del 1555, 1606 (che allargava la condanna a tutte le forme di festeggiamenti comunitari assimilabili a giochi), 1625 (contro la promiscuità di uomini e donne che dormivano dentro la chiesa), 1644, 1877 (che condannava i commerci, i banchetti ed i pranzi in campagna); di Cagliari del 1651, 1760 (per contrastare i pernottamenti promiscui dentro il tempio), 1886; di Ampurias del 1777. Tuttavia, per eliminare queste usanze sono occorsi molti secoli. È sufficiente ricordare che a Sindia, per la festa di San Demetrio, si sono conservate fino al 1936, e per superarle si è resa necessaria la soppressione dei festeggiamenti, decretata dal vescovo di Bosa. Solo nei primi anni Ottanta è stata riproposta, ma balli e banchetti si sono tenuti fuori dal tempio.
In molte sagre isolane c’è, comunque, qualche elemento religioso-popolare che non può essere attribuito all’influenza bizantina, ma si colloca nel periodo della dominazione aragonese-catalana. Uno fra i più evidenti è sa ramadùra, un termine decisamente sardo che indica il lancio di un insieme di fiori e foglie mentre sfila una processione. In qualche caso, tuttavia, assume un significato assai più ampio: ad esempio, per la festa di San Giacomo apostolo, che si svolge il 25 luglio a Serrenti, s’arromadùra (così è chiamata in loco) comprende anche il taglio ed il trasporto delle canne e frasche per la costruzione di una tettoia sotto cui ballare.
Tuttavia la Chiesa per molti secoli è stata l’unico sostegno contro le avversità, ed alla religione i sardi si sono rivolti con trasporto incondizionato: ne fa fede l’appassionata e gelosa devozione che si è sempre dedicata ai santi, non di rado assurti al ruolo di vessillo della fierezza degli isolani. Non a caso la stragrande maggioranza delle sagre è dedicata alla Vergine ed ai santi.
La storia religiosa della Sardegna inizia tre secoli dopo l’avvento di Roma, ed è proprio questa dominazione ad offrire molti esempi di fede cristiana tanto forte da sfidare il martirio. Così prende l’avvio un'agiografia in cui spiccano i martiri Efisio, Lussorio e Gavino, che nell’isola riscuotono la maggior venerazione, ed i cui interventi miracolosi trovano un terreno tanto fertile da non lasciare spazio a qualunque realistica spiegazione di determinati eventi. Che importa se la flotta francese, nel gennaio del 1793, non riesce a conquistare Cagliari per la tiepida aggressività degli attaccanti e per l’imperizia di chi li guida? Ciò che conta è l’invocazione rivolta dal popolo a Sant’Efisio che così, da legionario romano, diviene il condottiero dei sardi e il salvatore della città.
Non minor devozione si rivolge a Costantino, quantunque mai sia salito all’onore degli altari cristiani ma si tratti di un santo guerriero importato da Bisanzio. Curiosamente in secondo piano, ma non per questo trascurata, è la figura di San Giorgio di Suelli, forse l’unico santo sardo realmente vissuto nell'antichità (di tutti gli altri non si hanno valide documentazioni storiche), al quale sono stati attribuiti tutti o quasi i miracoli del San Giorgio Megalomartire del menologio greco. Ed a questi sono da aggiungere Santa Barbara e Santa Greca, Santa Vitalia e San Gemiliano, Sant’Antioco ed i Santi Cosma e Damiano, San Basilio, Sant’Elena, Santa Giusta e tanti altri che formerebbero un lunghissimo elenco.
La venerazione per la Vergine si esprime attribuendole i nomi più impensati, ad iniziare dalla già ricordata Madonna d’Itria per continuare con Nostra Signora di Bonaria, del Buoncammino, di Monserrato, di Intermontes, di Cracaxia, di Sauccu, della Defensa, del Riscatto, de su Succursu, di Zuradili, per non parlare delle Vergini che assumono il ruolo di pastora o avvocata e trovano la maggior devozione negli ovili e nei rifugi di banditi.
Ma c’è un inno che dimostra con le parole e con l’eccezionale livello musicale quale sia l’intensità del sentimento dei sardi verso la Madre di Cristo. È un’Ave Maria che nulla ha da invidiare ad altre assai più famose. “Deus ti salvet, Maria, chi ses de gràtia pièna: de gràtia ses sa vena e ‘i sa currènte. / Su Deus onnipotènte cun tegus est istàdu: / pro chi t’hat preservàdu immaculàta. / Beneitta et laudàda subra tottus gloriòsa: / mama, fiza e ispòsa de su Segnòre. / Beneìttu su fiòre e fruttu de su sinu: / Gesus, fiòre divìnu, Segnore nostru. / Pregàde a Fizu ‘ostru pro noi peccadòres: / chi tottus sos erròres nos perdònet./ Ei sa gràtia nos donet in vida e in sa morte: / e in sa diciòsa sorte in Paradìsu.” (Dio ti salvi, Maria, che sei piena di grazia: / sei la vena di un torrente di grazia. / Il Dio onnipotente è stato con te: / perché t’ha conservata immacolata. / Benedetta e lodata su tutti gloriosa: / sei Madre, figlia e sposa del Signore. / Benedetto il fiore e frutto del tuo seno: / Gesù, fiore divino, Signore nostro. / Pregate vostro Figlio per noi peccatori: / perché tutti gli errori ci perdoni. / E la grazia ci doni in vita e nella morte: / e nella felice sorte in Paradiso.)
L’organizzazione delle sagre comporta un considerevole impegno; a farvi fronte, come già accennato, è generalmente un comitato con a capo un obriere, o il priore di una confraternita, che viene eletto il giorno della festa e conserva la carica fino alla ricorrenza successiva. A lui spetta l’onore di conservare il vessillo sacro (spesso anche un piccolo simulacro del santo) ed accompagnarlo in ogni altra festa religiosa; ma anche l’onere di provvedere, aiutato dai soci, alla questua indispensabile per recuperare i mezzi occorrenti a realizzare la festa dell’anno seguente. In Gallura i comitati organizzatori si chiamavano soprastàntie ed erano considerati maggiori o minori a seconda dell’entità della somma o del bestiame messo a disposizione.
Va da sé che il ricavato delle questue veniva utilizzato in buona misura per l’acquisto delle vettovaglie indispensabili a rifocillare i pellegrini, che raggiungevano le chiese campestri spesso come scioglimento di voti. Questo tipo di organizzazione esiste ancora oggi, mentre l’usanza dei banchetti e pernottamenti si perpetua nei pressi delle chiese, spesso circondate da modestissime abitazioni (cumbessìas, muristènes, ecc.) dove soggiornano i novenanti.
Questo attaccamento alle proprie radici è sempre più sentito nell’isola. Da molte parti ci si va orientando verso serie indagini sia per realizzare i costumi con la massima possibile fedeltà, sia per organizzare le sagre nella forma più autentica.

Testo tratto dal volume "Le tradizioni popolari della Sardegna" di G. Caredda

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