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venerdì 20 gennaio 2012

Sant'Imbenia (Alghero) - La trasformazione della società nuragica.


Marco Rendeli
Riflessioni da Sant’Imbenia


I risultati della nuova stagione di scavi nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia stimolano una serie di riflessioni sulla organizzazione economica sociale che riguarda non solamente il sito ma anche il suo territorio.

Con questa breve nota si vuole proporre una riflessione su di un tema non nuovo nel panorama della ricerca archeologica in Sardegna, quello della trasformazione che occorre nella società isolana tra età del Bronzo finale ed età del Ferro e delle conseguenze dirette e indirette che esso lascerebbe presupporre. La nuova stagione di scavi iniziata nel 2008 nel villaggio nuragico di Sant’Imbenia
ha prodotto una serie di dati nuovi e, a mio avviso, importanti che potranno influenzare la maniera nella quale leggere e interpretare i dati per una fase che dalla fine del X giunge fino almeno al VII, se non VI a.C. La messa in luce di uno spazio collettivo centrale che calamita attorno a sé una serie di ambienti chiusi e spazi aperti, appare ai miei occhi la punta di un iceberg sotto la quale sono da leggere una serie di eventi che potrebbero aver modificato in maniera sostanziale l’organizzazione, i modelli di produzione e, in generale, la società in questa parte della Sardegna. Il dato archeologico più eclatante a mio parere risiede nella programmazione di quello che potremmo definire un vero e proprio intervento urbanistico che si compie nel villaggio a un dato momento della sua storia: esso coinvolge, riteniamo con tutta evidenza, una serie di più antiche abitazioni che vengono abbattute, pesantemente modificate o entrano a far parte di strutture edilizie complesse a più vani. In questa fase si passa dalla presenza di un’edilizia di tipo circolare, generalmente monovano, a una complessa nella quale vi sono soluzioni differenti. Infatti alcune parti di antiche abitazioni vengono rimodulate nel senso che una parte delle loro murature diventano rettilinee, c’è una grande attenzione alla definizione degli stipiti degli ingressi, si realizzano progetti all’interno dei quali si prevede un’alternanza di vani chiusi e di ambienti aperti. Non appare quindi casuale che all’interno della porzione di villaggio finora scavata risulti presente, nella sua autonomia edilizia, una sola capanna circolare (la cd. “capanna dei ripostigli”): anch’essa però, da quel che si può leggere nei diari di scavo e da quel che si interpreta a un’analisi dei paramenti murari interni, ha subito una profonda ristrutturazione. Infatti l’odierno accesso alla capanna, da sud, non era quello originario: una tamponatura ben visibile sul paramento murario interno induce a ritenere che esso fosse posto a nord. Questa trasformazione può aver avuto luogo nel momento in cui si rialza di quasi un metro la pavimentazione inserendo all’interno della capanna uno spesso strato di terra che livella e funge da livellamento e preparazione per il pavimento in lastrine che vi verrà poi realizzato sopra: questo strato di livellamento è quello che ha restituito importanti frammenti di materiale di importazione greca e fenicia che possono collocarsi cronologicamente fra la fine del IX e la prima metà dell’VIII a.C. (la coppa in fine ware, la coppa a semicerchi pendenti, la coppa a uccelli e la coppa a chevrons). La ragione per quale si modifica in maniera così sostanziale questo ambiente, a prescindere da un evento traumatico che può avere interessato la capanna e che non possiamo escludere a priori (incendio, crollo parziale), potrebbe essere stata dettata da ragioni differenti: non appare casuale infatti il fatto che l’apertura più antica desse direttamente sull’andito che a oggi rappresenta l’unico accesso diretto, in entrata e in uscita, dello spazio aperto collettivo. Dunque, pur se limitrofa alla piazza, la cosiddetta capanna dei ripostigli acquisisce una diversa “raion d’etre”, che al momento appare ancora sfuggente, ma che la rende come struttura viva all’interno del nuovo piano urbanistico. Dalla pianta si può comprendere bene come tutto il progetto abbia come punto centrale lo spazio aperto e come questa parte del villaggio sia stata pesantemente modificata rispetto a delle possibili fasi precedenti: tale sensazione si rafforza se consideriamo la pianta elaborata sulla scorta delle indagini geoelettriche condotte da P. Johnson. Sembra infatti che tutto il complesso sia recintato da un muro lungo il quale, nei pressi dell’angolo nord occidentale, sembra aprirsi un accesso. Manca al momento una chiara definizione dell’area recintata nella zona orientale e quindi appare difficile comprendere se questa “recinzione” inglobasse totalmente o parzialmente la cosiddetta “capanna delle riunioni” parzialmente venuta alla luce e poi ricoperta nel corso della prima stagione di scavi nel sito. A questa domanda non è possibile dare oggi una risposta non per carenza della ricerca ma per una sua oggettiva impossibilità alla conduzione: infatti, nonostante l’importanza del sito e il grande impegno, in primis di F. Lo Schiavo, che la Soprintendenza per i beni archeologici delle province di Sassari e Nuoro ha profuso per questo sito, esso giace in una proprietà privata dove è difficile poter pianificare una serie di interventi, anche non distruttivi come indagini magnetiche o geo-elettriche, a largo spettro. Quel che però possiamo evincere dalle indagini svolte fino a oggi da P. Johnson è che l’abitato non si ferma alla zona scavata: verso nord, infatti, indagini magnetiche e geo-elettriche hanno messo in evidenza la presenza di un certo numero di altre strutture sepolte sotto il campo da calcetto: esse giungono fin quasi alla strada che conduce verso Capo Caccia e sono interrotte dalla presenza di una sorta di canale circolare: dato il tipo di indagini non possiamo ipotizzare e stabilire una relazione diretta fra canale e abitato. Quando potremo indagare sul campo di calcetto vedremo se questa relazione può esistere e se il canale possa essere considerato al contempo un’opera coeva alla fase di vita dell’abitato realizzata per bonificare il sito dalla troppa presenza d’acqua e un limite fisico allo sviluppo dell’insediamento, almeno in questo settore di Sant’Imbenia. Quel che appare assodato, comunque, è che l’insediamento copriva un’area più ampia rispetto a quella determinata dal raggio definito dalla prima stagione delle ricerche: se il nuraghe è posto in posizione centrale rispetto all’abitato e se il canale ne definisce un limite fisico la dimensione si aggirerebbe attorno ai 3 ettari. Dunque un altro elemento di novità assieme alla constatazione che questo programma urbanistico interessa solamente una parte dell’abitato, forse non casualmente proprio quel settore più vicino al nuraghe nella sua parte rivolta al territorio piuttosto che verso il mare. Se la lettura del villaggio che fino a ora è stata ipotizzata può apparire verisimile, potremmo iniziare a trarre una serie di riflessioni che di questa trasformazione possono essere considerate parte e conseguenza. Il primo riflesso riguarda proprio l’aspetto urbanistico del programma: la creazione di quel che ai nostri occhi appare uno spazio aperto collettivo, possibilmente destinato allo scambio sia all’interno di un “sistema locale” sia con mercanti giunti nel golfo di Porto Conte, implica un processo di alienazione di spazi che potremmo precedentemente considerare privati a favore della creazione di un’area “collettiva”. Questo dato, a nostro modo di vedere, appare di una certa importanza poiché inserisce, all’interno di un villaggio fatto di capanne o di abitazioni a più vani, un’area aperta con chiare connotazioni pubbliche. Un’area dunque alienata all’abitato che viene destinata dalla collettività alle attività di scambio e commercio intendendo con esso non solamente quello “internazionale” ma anche, e forse soprattutto, quello interno. Il secondo riflesso e la seconda implicazione a questo ragionamento riguarda la realtà economica e sociale del villaggio e del territorio: potremmo infatti ipotizzare che una presenza continuata e costante di mercanti che con le loro navi arrivano a Porto Conte possa essere stata il detonatore di profondi cambiamenti anche nella maniera di concepire la produzione sia all’interno del villaggio, sia in quello che potremmo definire un’area vasta, ossia il territorio di riferimento. Esso offre risorse che possono essere utili per queste forme di scambio e che rendono appetibile una sosta: come ha ben messo in risalto F. Lo Schiavo questa parte della Nurra era certamente nota da molto tempo ai mercanti che venivano da Oriente, soprattutto per le sue capacità minerarie: rispetto al passato la fase di IX-VIII secolo a.C. appare diversa rispetto alle precedenti in quanto mostra un più alto grado di coinvolgimento e di partecipazione delle componenti locali con una serie di conseguenze occorse anche a livello sociale. Infatti il reciproco interesse a sviluppare forme di scambio, in un orizzonte che appare comunque essere precedente le prime strutturazioni coloniali nell’isola, comporta da parte della componente indigena una sensibile trasformazione dei “modi di produzione”, necessaria questa per rispondere in maniera soddisfacente alla domanda dei mercanti. I mutamenti occorsi possono essere visibili in almeno due sfere di azione: quello relativo al materiale metallico semilavorato e lavorato, quello della produzione vinicola. Il primo si è reso ancor più evidente dalla scoperta di un terzo ripostiglio di panelle di rame e di oggetti in bronzo negli scavi 2010 che si aggiunge agli altri due rinvenuti nella capanna dei ripostigli: si tratta, se sommiamo i rinvenimenti, di più di un quintale di materiale metallico riposto in contenitori anforici adattati per l’uso o di uno ziro. Si potrà discutere a lungo su una funzione “attiva” o “passiva” di questi ripostigli, ma il dato che ci pare debba essere sottolineato è quello di una forte accumulazione di materiale metallico, soprattutto semilavorato, presente all’interno di una parte dell’abitato che per sua forma di organizzazione appare fortemente vocata allo scambio. In una prospettiva futura è nostra intenzione procedere all’analisi archeometrica di questi lingotti che permetta di definire le possibili compatibilità con le emergenze minerarie locali o altrimenti a forme di scambio di minerali con altre parti del Mediterraneo. Da questo punto di vista si può proporre, nel quadro di relazioni che si sviluppano con altri settori del Mediterraneo, il recupero di almeno due documenti che potrebbero essere rappresentativi di quella sfera del dono che si accompagnava alla transazione commerciale: i due bronzetti di produzione levantina rivenuti al nuraghe Flumenelongu e presso Olmedo vanno ascritti al fenomeno di vitalità economica che non si ferma nel golfo di Porto Conte ma investe una parte più vasta del territorio, tanto ampia quanto almeno le possibili fonti di approvvigionamento delle risorse metalliche, Argentiera, Calabona, Canaglia. Essi infatti potrebbero essere la testimonianza che i protagonisti dei rapporti con i mercanti all’interno della “zona commerciale” di Sant’Imbenia provengono dai centri produttivi del territorio, nei quali si attua una forma di redistribuzione degli oggetti scambiati. In almeno altri due settori della produzione possiamo vedere e ipotizzare queste forme di trasformazione che coinvolgono il centro e il territorio: la produzione vinicola e l’artigianato ceramico a essa connesso. Fortemente interfacciate fra loro, queste due attività offrono un quadro di novità importante: non appare un caso, infatti, che a partire dalla seconda metà del IX a.C. l’attestazione di contenitori da trasporto, riconosciuti con la denominazione di “anfore di Sant’Imbenia”, si riscontri in diverse aree del Mediterraneo centro occidentale. Queste anfore si accompagnano spesso con un contenitore di medio-piccole dimensioni, le brocche askoidi, la cui irradiazione nel Mediterraneo appare al momento anche più ampia. Con il progresso delle scoperte e degli studi mi pare che si possa affermare che le due forme possano essere considerate in certo modo complementari quasi a formare un set del bere di matrice isolana. Brocche askoidi e, soprattutto, anfore di ispirazione levantina sono la spia evidente del mutamento dei tempi soprattutto per quel che riguarda le compagini locali: esse infatti segnano il passaggio a un modo di produzione che, dalla sussistenza, prevede la realizzazione di cospicue eccedenze che servono a soddisfare la domanda proveniente dai mercanti. Ciò presuppone anche una trasformazione nel senso di una specializzazione nella produzione di contenitori ceramici per rispondere a una domanda che non è più quella legata alla sussistenza quanto piuttosto impone la creazione di contenitori legati alle eccedenze per soddisfare lo scambio. Il vino sardo, e in questo caso particolare quello della Nurra meridionale, si attesta nella Spagna meridionale, a Cartagine, in Etruria settentrionale. L’area algherese, con tutte le componenti “politiche” che hanno intrapreso questo percorso di trasformazione, entra appieno in una serie di circuiti commerciali che prendono forma e sostanza in una fase che comunque appare precedente le prime strutturazioni coloniali levantine sull’isola: riecheggiando il titolo di una fortunata mostra del 1999 che riguardava le presenze greche in Campania in una fase precedente l’istallazione a Pitecusa, queste frequentazioni e correnti commerciali connesse fanno parte di una storia che potremmo definire “prima di Sulki”. Essa ha come protagonista la componente locale che risponde con trasformazioni importanti nei suoi assetti organizzativi, economici e sociali interni a quella società o a quelle comunità, e che coincide con quei fenomeni pionieristicamente denominati già molto tempo orsono da G. Lilliu come propri dell’aristocrazia e che sottintendevano una complessità organizzativa e sociale. Rispetto a quelle indicazioni oggi possiamo aggiungere nuovi tasselli alle realtà isolane: essi rappresentano parti di società complesse, ben strutturate e forti, con un patrimonio simbolico del passato che si riverbera nel presente: sbaglieremmo, forse, a interpretare questa fase come l’inizio di un lungo declino, di un ripiegamento in se stesse delle società sarde o, ancor peggio, del loro “imbarbarimento” conseguente al contatto e allo scambio con i mercanti che solcano il Mediterraneo in questa fase. Le società della Sardegna a partire dall’età del Ferro, al contrario, esprimono una spinta propulsiva al cambiamento e alla trasformazione iniziando, ai nostri occhi, una non breve stagione di coscienza delle proprie capacità e della propria forza, del controllo dei mezzi e dei prodotti, della propria capacità di concepire forme di organizzazione più complesse e articolate rispetto al passato.

Fonte: L’Africa romana XIX, Sassari 2010

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