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sabato 31 marzo 2012

Epoca romana: Quintario


QUINTARIO. Loro funzione e come rintracciarli
di Giuseppei Sgubbi


Non molo tempo fa, con tre articoletti, “Quintario una importantissima strada della centuriazione romana”, “Leggendo il catasto Faventino”, e”I confini in epoca romana”, ho sollevato il problema QUINTARIO. Non ho fatto altro che far conoscere agli studiosi ciò che avevo appreso sul quintario, al seguito di trentennali ricerche effettuate sulla centuriazione ove io abito, Solarolo provincia Ravenna.
Naturalmente ho precisato che per poter fare delle affermazioni di un certo spessore, occorreva estendere l’indagine anche verso altre zone del mondo romano. Essendo stato invitato a tenere conferenze in zone extra romagnole, ed avendo potuto effettuare utilissimi confronti con altre zone centuriate, ho la possibilità di fare alcune utili precisazioni e di aggiungere qualcosa a quello già detto nei sopra citati articoli. Pertanto, ciò che riporterò in questo articolo, sono i risultati delle mie ricerche, fino ad ora conseguiti, perciò risultati ancora provvisori , in quanto, a mio modesto parere, il “problema quintario” , è ancora ben lontano dall’ essere definitivamente risolto.
Anticipo i risultarti conseguiti, che naturalmente nel corso dell’articolo cercherò di spiegare nei minimi particolari, al riguardo della sistemazione dei quintari, ho affermato, senza tema di essere smentito, che in alcune aree centuriate è stato usato lo “schema Frontino”, un quintario ogni quattro centurie, in altre è stato invece usato lo “schema Igino Gromatico” , un quintario ogni cinque centurie. Naturalmente non posso escludere che in “altre” aree siano stati usati altri “schemi.” Per quanto riguarda la numerazione delle strade, sia le centuriali che i quintari, “barcollo ancora nel buio”, infatti ho aggiunto “ipotesi alle ipotesi”. La prima cosa che intendo sottolineare è la “colpevole latitanza “ degli studiosi, al riguardo di questo importante aspetto della centuriazione. Porto un esempio che ne descrive l’evidente trascuratezza, prendiamo in mano il bellissimo volume Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Modena, dicembre 1983- febbraio 1984. Questo libro contiene saggi di qualificatissimi studiosi della centuriazione romana: Settis, Gabba, Capogrossi Colognesi , Tozzi, Favory, Laveque, Chouquer, Carandini, Castagnetti, Vallat, Pagano, ed altri, ma fino a pagina 128 non troveremo la parola quintario, la troveremo in alcune pagine successive, ove ci si limita a far presente che in epoca romana, fra le altre strade, venivano tratteggiati pure i quintari. Decisamente troppo poco. Di questi esempi potrei portarne a decine, infatti, in moltissimi articoli sulla centuriazione, tale parola non compare. Mi rendo perfettamente conto che per rintracciare i quintari si incontrano grande difficoltà: la pratica della centuriazione ha durato almeno 600 anni, nel corso di un cosi lungo periodo tale pratica è stata regolata da diverse disposizioni di leggi , gli agrimensori sono stati costretti ad adattarsi ad innumerevoli e diverse situazioni paesaggistiche, situazioni paesaggistiche che nel corso dei secoli hanno sicuramente subito ulteriori trasformazioni, perciò non è possibile rintracciarli basandosi solamente nei segni che queste strade hanno lasciato sulla terra. Si tenga anche conto che, al riguardo di tale pratica, gli agrimensori ci hanno tramandato ben poco, perciò alla luce di queste considerazioni, non deve sorprendere se non esiste una “regola aurea”che descriva lo schema usato per tracciare i quintari, una regola che avrebbe potuto favorire un facile rintracciamento. Questo però non deve giustificare il disinteresse verso questo importante aspetto della centuriazione, infatti la bibliografia, al riguardo del quintario, è praticamente inesistente. Nel corso delle conferenze che ho effettuato, ho cercato di descrivere nei minimi particolari quelle che a mio parere sono state le funzioni del quintario, che brevemente sintetizzo: strade di grande traffico nell’interno degli ager, perciò usate sia da quelli che potremmo chiamare “pubblica utilità”, ma, nella occorrenza, usati anche per spostamento di truppe. Lungo il loro tragitto sono stati costruiti i vici , i pagi ed eventuali agglomerati umani, funzioni catastali e postali, delimitazione dei saltus, una di queste strade era riservata alla transumanza, cioè i calles, diventati in epoca medioevali i tratturi.
Ma la funzione più importante che aveva il quintario era quello di segnare i confini degli ager, sul come veniva segnalato questo importante confine, si e detto tutto ed il contrario di tutto, fiumi, cippi, diversa orientamento della centuriazione, distanza equidistante, ecc, il fatto stesso che ogni studioso ha fatto al riguardo proposte diverse, la dice lunga sulla comprensione del come veniva effettivamente tracciato.
Uno sguardo alla situazione attuale, conferma che effettivamente i quintari hanno avuto le funzioni che ho appena accennato, infatti su queste antiche strade si trovano le pievi, le parrocchie, i castelli, i santuari, piccoli e grandi agglomerati umani. Molti confini provinciali e comunali sono tuttora contrassegnati dai loro antichi percorsi. Non credo che tutto questo possa essere annoverato fra le “inspiegabili coincidenze”. Alla luce di queste considerazioni, mi pare che il problema quintario, meriti di essere approfondito in quanto permette di aprire una importante “finestra “ sul nostro passato, infatti offre concrete possibilità di rintracciare gli antichi agglomerati scomparsi, sia di epoca romana che di epoca altomedioevali.
Come rintracciare i quintari Iniziano questo non facile compito analizzando quel poco che ci hanno tramandato i gromatici, per vedere se è possibile trarne qualche utile indicazione: Igino Gromatico ci fa sapere che dalla sistemazione dei quintari doveva scaturire un saltus quadrato di 25 centurie, cinque centurie per ogni lato. Da Frontino apprendiamo che per una insieme di ragioni, forse per errore, sono scaturiti anche dei saltus di 16 centurie, perciò un quintario ogni quattro centurie. Esistono anche altre proposte ed altri esempi, ma da quello che ho potuto constatare, nella stragrande maggioranza delle centuriazioni sono stati usati le indicazioni di Igino, oppure gli “errori” segnalati da Frontino. Sono fermamente convinto che il saltus corretto sia quello consigliato da Igino, non solo perché il significato della parola quintario significa uno ogni 5 centurie, ma anche perché solo con tale saltus è possibile effettuare una corretta variazione della centuriazione. Nel corso delle conferenze che ho effettuato, mi sono lungamente soffermato sul significato e sulle molteplici funzioni dei saltus, un aspetto che tralascio, in quanto per rintracciare i quintari, scopo primario di questo articolo, occorre approfondire ben altri aspetti. Cerchiamo ora di dare una risposta ad una importante domanda: considerato che l’apparato stradale romano aveva come punto di partenza e di riferimento il decumano massimo ed il cardine massimo, il conteggio delle strade per poi tracciare il quintario, da dove iniziava? A parere degli agrimensori e dei pochissimi studiosi che si sono interessati di questo problema, il conteggio doveva iniziare con l’inclusione del cardine o decumano massimo, cioè contare anche quello. In apparenza, doveva essere una operazione facile, ma evidentemente non lo era, più spesso di quello che si crede e per ragioni che non conosciamo, come i fatti dimostrano, l’operazione deve avere incontrato delle enormi difficoltà. Difficoltà giustamente evidenziate da Igino Gromatico, questi, sicuramente uno dei più preparati agrimensori di epoca romana, si chiede e chiede, se la prima linea alla destra del cardine o decumano massimo debba essere chiamata prima, oppure seconda. Considerato che anche Igino consiglia l’inclusione, la domanda appare superflua e troppo ovvia la a risposta, se il conteggio doveva iniziare dalla prima strada, la linea successiva doveva essere considerata la seconda. Invece, come già detto, forse per regole poco chiare, spesso venivano commessi errori. Prima di iniziare il conteggio delle strade, scopo rintracciare i quintari, occorre rispondere ad una altra precisa domanda: in epoca romana le strade come erano classificate e contrassegnate? La nomenclatura attuale delle strade la conosciamo bene, ogni strada è contrassegnata da iniziali. Una A ed un numero, per le autostrade. SS con un numero, per le statali. SP con un numero e con un nome, per le provinciali. SC senza alcun numero( in verità occorreva), ma con un nome, per le comunali. In tale maniera si riesce facilmente a distinguere le strade dalla più grande alla più piccola. Ma la situazione in epoca romana non è altrettanto chiara. Pur senza aver fatto particolari approfondimenti, mi risulta che le consolari erano contrassegnate con un nome, Emilia, Flaminia ecc. I decumani ed i cardini massimi , venivano individuati con le semplici iniziali, DM (decumano massimo), e KM ( cardine massimo). Le strade centuriali , cioè quelle che delimitavano le centurie, venivano contrassegnate con la iniziale K, se cardine, e con la iniziale D, se decumani, seguite da un numero, e con la dicitura destra oppure sinistra a seconda della loro posizione rispetto ai cardini e decumani massimi. A parere di qualche studioso, queste ultime strade non venivano numerate, in quanto non avevano alcuna funzione. Effettivamente, le centurie venivano contrassegnate con un numero, senza aver bisogno di nominare le strade che le delimitavano, ma , considerato che se Igino ha sentito il bisogno di chiedere come deve essere chiamata una di quelle strade, significa che , per ragioni che non conosciamo, vi era la necessità di distinguere le une dalle altre. L’incertezza rimane, una incertezza che riguarda particolarmente i quintari, considerato che queste erano strade di grande traffico, aventi pure funzioni postali e catastali, vi sono buone ragioni per credere che oltre al nome quintario, nome dato a questo tipo di strada, venisse pure numerato, sia per essere distinto dagli altri quintari, sia che per essere facilmente localizzato.
Più avanti, nel corso delle “indagini preliminari” dovrò volutamente omettere di sottolineare anche la necessita di consultare anche ciò che altri hanno scritto al riguardo della locale centuriazione, eppure la grande utilità è fin troppo evidente, ma attenzione, al riguardo della sistemazione dei quintari, alcuni scritti potrebbero essere fuorvianti. Porto un esempio illuminante: ho sotto agli occhi il contributo del padovano Legnazzi, riguardante la centuriazione fra Imola e Faenza. Questi , fermamente convinto che tale centuriazione fosse stata tracciata come nel padovano, cioè con lo schema Igino, (tracciamento padovano comunque meritevole di essere verificato), fece in modo che dalla sistemazione dei quintari, scaturissero dei saltus di 25 centurie.
Questi, non essendosi reso conto che in detta zona la centuriazione era stata invece tracciata con l’erroneo schema Frontino, commise, seppur involontariamente, una lunga fila di errori. Mi sorprende una cosa, nonostante che da anni faccio presente agli studiosi che la carta Legnazzi è inaffidabile, una inaffidabilità ampiamente documentata, la totalità degli studiosi della attuale centuriazione continua a riportare tale carta, come esempio di “centuriazione romagnola”. Questo per dire che occorre evitare di partire ” col piede sbagliato”.
Pur tenendo conto che ogni area è “una storia a sé”, le indicazioni che seguiranno, se seguite con attenzione, permettono, come più volte è accaduto, di rintracciare i quintari, con una certa facilità.
Per prima cosa, dovremo fare alcune indagini preliminari, valide per ogni area centuriata. Avendo trovato alcune tracce di centuriazione, ricostruiamola tutta, per una area abbastanza grande, più o meno come doveva o poteva essere, sia per il verso dei cardini (Sud- Nord), che per il verso dei decumani ( Est-Ovest).



Al seguito di questa indispensabile operazione, disponiamo di una mappa a forma di scacchiera della zona che vogliamo indagare, che, fra l’altro, ci da la possibilità di fare una importante verifica, rendersi conto con quale tipo di centurie è stata tracciata tale centuriazione. La più comune era quella di centurie da 20x 20 actus, cioè di circa 705 metri di lato, ma a volte sono state usate centurie diverse, in tal caso occorre controllare che la lunghezza dei lati abbiano una corrispondenza con gli actus, se così non fosse, la centuriazione potrebbe anche non essere romana. Ad ogni modo, per procedere occorre verificare con esattezza quale tipo di centuria è stata usata. Due utili controlli: dopo aver controllato se alcune strade tuttora praticabili, corrispondono alle maglie della centuriazione, si controlli pure se in alcune di queste si trovano allineati edifici religiosi, (pievi, parrocchie, santuari), oppure edifici civili, ( castelli, agglomerati piccoli e grandi), in quanto in tal caso potremmo aver già individuato un quintario, ma per sincerarsene occorre, oltre naturalmente al conteggio che sarà spiegato, fare uno scavo in detta strada, se la larghezza è attorno ai 4 metri, potremmo dire che siamo stati “baciati dalla fortuna” in quanto faciliterebbe il proseguo della ricerca. Dovremo pure darci da fare, per rintracciare il cardine ed il decumano massimo, impresa non facile, il più delle volte queste due strade si incrociavano al centro del forum romano, ma non sempre, in alcuni casi, per svariate ragioni, si incrociavano fuori dal centro urbano, ma occorre rintracciali. Il rintracciarli è una operazione praticamente indispensabile. Sperando in un esito positivo.
Come individuare correntemente i quintari se la centuriazione è stata tracciata con lo schema Iginio Gromatico.



Iniziamo dal cardine o decumano massimo. Punto di riferimento di queste strade è quello di effettuare la sistemazione dei quintari e di iniziare l’eventuale numerazione delle strade, come a suo tempo fu il punto di riferimento per iniziare la centuriazione.
L’individuazione dei quintari è abbastanza facile, dopo 5 centurie troveremo il primo quintario, dopo altre 5 il secondo, e cosi via. Così facendo vengono a formarsi dei saltus di 25 centurie.
Più problematico il conteggio e la numerazione sia delle strade centuriali che dei quintari. A mio parere, contrariamente alle indicazioni dei gromatici, e della totalità degli studiosi, il conteggio NON deve iniziare dal Cardine o decumano massimo, se proprio vogliamo dare un numero a questa strada, metteremo uno zero. Conseguentemente la prima strada centuriale avrà il numero uno ed altrettanto il primo quintario.
Qualcuno potrebbe giustamente chiedere la ragione per cui il conteggio non deve iniziare dal Cardine e decumano massimo. Domanda pertinente, una ragione c’è, se fosse quello l’inizio, ci troveremmo nella paradossale situazione, che ad una unica linea corrisponderebbe ben tre strade: il cardine o decumano massimo, un quintario ed una strada centuriate. Essendo tutte e tre incorporate in una unica linea, come potranno essere citate in una mappa? Nell’impossibilità ci citarle tutte e tre, sicuramente sarà citata solo la più importante , cioè il cardine o il decumano massimo, e delle altre due che ne facciamo? Le lasciamo lì, facendo confusione? Oppure le cancelliamo? Sono fermamente convinto che alcuni agrimensori romani si saranno resi conto che seguendo alla lettera le indicazioni di Igino, cioè iniziare il conteggio sia dei quintari che delle strade centuriali, includendo il cardine o decumano massimo, avrebbero creato una confusione interpretativa, confusione che col metodo sopra indicato, veniva eliminata.
Il metodo è praticamente perfetto, le strade centuriali ci sono tutte, e tutte progressivamente numerate, altrettanto i quintari.
Di fronte a questo tipo di centuriazione, Igino troverebbe la risposta al suo interrogativo, anzi non l’avrebbe neanche formulata.
Vi sono molte tracce di questo tipo di centuriazione, cioè col saltus da 25 centurie, ma sono convinto che al seguito di una attenta indagine, constateremo che invece, più spesso di quello che crediamo, sia stato usato l’erroneo schema Frontino, cioè saltus di 16 centurie.
Come individuare correntemente i quintari se la centuriazione è stata tracciata con l’erroneo schema Frontino.


Anche in questo caso, l’individuazione è facile, ogni 4 centurie un quintario, percio saltus di 16 centurie. Che questa è la sistemazione dei quintari, non vi sono dubbi, l’ho potuto constatare nel corso delle mie ricerche, per quanto riguarda il conteggio e la numerazione delle strade, la situazione si fa complicata.
Abbiamo già visto la confusione che si può creare iniziando il conteggio dal cardine e decumano massimo, considerato che in questo caso è stata usata tale pratica, non è facile ipotizzarne le conseguenze. Tentiamo una possibile ipotesi, considerato che il primo quintario e la prima strada centuriale, essendo incorporate ai cardini o decumani massimi, non possono essere visibilmente numerate, dovremo per forza numerare solo le successive, conseguentemente la prima strada centuriale che troveremo, dovrà essere contrassegnata col numero 2 , come pure con un 2 dovrà essere contrassegnato il primo quintario. Ipoteticamente questo sarebbe il modo per “limitare” i danni, ma rimangono molti interrogativi, che solo con il ritrovamento di un catasto, avente questo tipo di centuriazione, si potrà dare adeguate risposte.
La centuriazione di Imola e Faenza è stata tracciata con questo schema, errori e confusione compresi. Tracce di tale centuriazione, sono state riscontrate anche altrove, Minturno, Terracina ed in alcune zone della Francia, ma a mio parere è più diffusa di quello che pensiamo.
Pur senza spiegarne le ragioni, Frontino dice che questa è una centuriazione “sbagliata”, aveva ragione, la confusione è ed era evidente, due strade, pur essendo esistenti, non risultano nelle mappe, non solo, con tale schema venivano formati dei saltus di 16 centurie, un saltus che mal si prestava a creare un diverso orientamento centuriale.





Se per una insieme di ragioni poteva esserci la necessita di cambiare l’orientamento della centuriazione, per esempio, a causa della non perfetta pendenza del terreno, oppure per creare un ben visibile confine di ager, si ricorreva alla pratica qui presentata. In questa maniera venivano risolti molti “problemi” fra cui il rovinare il minor numero di centurie, e fare in modo che le strade dei due ager continuassero a combaciare.
Per far questo era indispensabile tracciare il confine con un quintario, (ecco un esempio dimostrante che i confini di ager venivano tracciati con dei quintari), e la centuriazione doveva essere stata tracciata con lo schema delle 25 centurie. Come ben dimostrato dal disegno, dopo 5 centurie di “apertura”, troveremo lo spazio esatto di una centuria, dopo dieci centurie lo spazio esatto di due centurie, dopo 15 centurie lo spazio esatto di tre centurie ecc. Con un saltus formato da 16 centurie questo non era possibile, infatti occorreva tagliare moltissime centurie.
Una curiosità da tenere presente, da Varrone si apprende che esistevano pure dei saltus formati da quattro centurie, un quintario ogni due centurie, ebbene se queste quattro centurie venissero divise per 4, le centurie diventerebbero 16 , come il saltus di Frontino, ma in tal caso le centurie sarebbero più piccole.
Come è noto, quando si dice che i quintari , hanno pure il compito di delimitare i saltus, di 25, oppure 16 centurie, non sempre viene specificato la superficie di tali centurie, come pure non viene specificato se queste devono essere quadrate, oppure rettangolari, considerato che vi sono tracce di almeno una ventina di diverse centurie, i saltus delimitati dai quintari, potrebbero essere diversi nella forma e nella superficie.
Come si può notare rintracciare i quintari non è una “impresa” facile, ma neanche impossibile. Il cercare di rintracciarli, indipendentemente dal risultato, è pur sempre un approfondimento che sicuramente migliora la conoscenza della propria centuriazione, perciò, una azione utile.
Ultimissima curiosità, potrebbe anche accadere di trovare due quintari appaiati, cioè alla distanza di una sola centuria, ebbene in tal caso il problema si complica. Nel mio territorio ho trovato una situazione di questo tipo, ma penso di aver dato una esauriente spiegazione: esistenza in loco di una antichissima via, che per un certo periodo ha avuto anche funzioni transumanti, area interessata da antichissimi confini e da due percorsi di fiumi. Naturalmente, non è detto che in altri luoghi le ragioni siano identiche, occorre studiarle.
Un appello agli studiosi. Sono fermamente interessato a conoscere le varie realtà locali, come pure sono interessato a conoscere i vostri commenti. Gli antichi dicevano una cosa giusta: I complimenti fanno piacere, ma non servono a niente, le critiche non piacciono, ma sono utilissime. Prego perciò sintonizzarsi sull’utile,
Buona ricerca.


POSTILLA
Ad articolo ultimato e spedito ad alcuni “addetti ai lavori”, uno studioso di Pavia mi ha scritto rivolgendomi una serie di domande: ”per quale ragione, nel conteggio delle strade del saltus di 16 centurie, lei ha ipotizzato la possibile scomparsa di due strade, sia la prima centuriale, che il primo quintario?
Quali le controindicazioni se nel conteggio venivano indicate entrambe le strade col numero uno, come infatti è stato fatto nel saltus da 25 centurie?
Giustissime domande che giustamente meritano una risposta. Considerato che non vi sono fonti che spieghino il comportamento degli agrimensori, ho provato ad immaginarlo e per prima cosa mi sono fatto due domande: i quintari venivano tracciati subito, oppure in un secondo momento? La numerazione delle strade veniva effettuata subito, oppure in un secondo momento? La risposta alla prima domanda sembra ovvia, sicuramente i quintari saranno stati tracciati subito, anche perchè tale strada doveva essere più larga delle centuriali. Per la seconda domanda la riposta è dubbiosa, subito o dopo? Se fatta subito, potevano rendersi conto degli errori che stavano commettendo e rimediare, per rimedio si intende fare invece il saltus da 25 centurie e conteggio relativo, se fatta dopo, constatavano gli errori commessi, ma non vi era più la possibilità di rimediare.
Vi sono buone ragioni per credere che la numerazione venisse effettuata in un secondo tempo, mentre i quintari venivano tracciati subito.
Tracciando subito i quintari, si saranno resi conto che creavano dei saltus da 16 centurie, ma non è detto che fosse considerato “un errore”.
Conseguentemente: gli agrimensori esperti non includevano il cardine e decumano massimo. Subito od in seguito, numeravano progressivamente sia i quintari, che le strade centuriate, e vediamo la loro opera nei saltus da 25 centurie,
Gli agrimensori con poca esperienza: hanno incluso il decumano e cardine massimo, hanno creato dei saltus da 16 centurie, conseguentemente hanno creato la confusione che constatiamo nei saltus da 16 centurie.
La risposta che ho dato all’amico di Pavia è questa: se gli agrimensori avessero iniziato il conteggio non includendo, avrebbero di fatto costruito solo dei saltus da 25 centurie, perciò nessun problema.
Purtroppo i fatti , cioè l’effettiva esistenza dei satus da 16 centurie, ci dicono che gli errori sono stati commessi e conseguentemente, come io ho ipotizzato, due strade, pur essendoci, risultano”scomparse”.

venerdì 30 marzo 2012

Archeologia e storia della Gallura

Gallura Orientale
di Paola Mancini


La Gallura è quella regione che occupa la parte settentrionale della Sardegna ed è, attualmente, inserita nella Provincia Olbia Tempio, della quale, a dire il vero, fanno parte anche alcuni comuni che non sono, almeno dal punto di vista culturale, ritenuti galluresi come Oschiri e Berchidda, Alà dei Sardi e Buddusò.

La provincia Olbia Tempio comprende 26 comuni, dalle isole dell’Arcipelago di La Maddalena, a nord, fino a Buddusò, a sud. Il lavoro, oggetto del volume Gallura Orientale, si è concentrato negli undici comuni che componevano la Comunità Montana Riviera di Gallura (Arzachena, Golfo Aranci, La Maddalena, Loiri Porto San Paolo, Monti, Olbia, Padru, Palau, Sant’Antonio di Gallura, Santa Teresa Gallura, Telti). Proprio quest’ente, infatti, prima della sua soppressione nel 2005, mi ha affidato il censimento dei beni archeologici preistorici e protostorici ricadenti nei suoi territori, passando poi il testimone al comune di Monti che mi ha supportato nelle fasi dell’indagine e nella successiva pubblicazione dei dati emersi.

I monumenti sono stati da me individuati puntualmente con un GPS e riportati sulla cartografia, elaborata in ambiente GIS con la collaborazione di Claudio Caria. L’utilizzo del GIS mi ha permesso di essere maggiormente precisa nella localizzazione dei beni e di analizzare meglio la relazione tra
i monumenti e il contesto in cui si trovano. Senza alcuna polemica, ma con il dovuto spirito critico, voglio però, sottolineare, che il GIS, oggi molto usato e spesso abusato, non deve essere svilito a mera e accattivante immagine spesso priva di contenuti, ma considerato uno strumento da ancorare a solide basi scientifiche, all’analisi territoriale compiuta preliminarmente sul campo e successivamente all’interpretazione dei dati, fine ultimo di ogni ricerca. Il volume, edito dalla casa editrice Taphros di Dario Maiore, è arricchito da contributi di altri specialisti: il geologo Giovanni Tilocca, il collega Giuseppe Pisanu e i funzionari della Soprintendenza per i Beni Archeologici per le Province di Sassari e Nuoro, responsabili di zona per l’ente nei territori di cui mi sono occupata: Angela Antona, Rubens D’Oriano e Antonio Sanciu.

Le ricognizioni mi hanno permesso di sfatare alcuni preconcetti che descrivono la Gallura come un microcosmo, una regione diversa dal resto della Sardegna e di capire che si tratta semplicemente di una parte dell’Isola, con le sue ovvie peculiarità culturali, dovute però, in gran parte, alla sua posizione geografica e alle sue caratteristiche ambientali. Quando si parla di Gallura nella mente dei più subito compaiono immagini di spiagge aggredite da folle di turisti e di lussuose ville a pochi metri dalla battigia, mentre per quei galluresi nostalgici, legati, forse in modo anacronistico, alla loro identità, è l’entroterra con gli stazzi, le unità territoriali con le tipiche costruzioni che dal Settecento alla prima metà del Novecento hanno costituito la struttura abitativa e lavorativa dei loro padri. In realtà la Gallura, così come il resto della Sardegna, è una felice commistione di mare e terra, in cui spesso le due realtà si fondono in maniera indissolubile. Questa fusione fra la natura, spesso aspra e inospitale, dell’entroterra e il mare, caratteristica di tutta la Sardegna, è esemplificata molto bene dall’isola di Tavolara; molto fragile perché calcarea ma stabilmente ancorata a un basamento solido in granito, si erge solitaria, per lo più aspra e, apparentemente, poco ospitale, in mezzo al mare ma vicinissima alla terraferma. Proprio qui sono state rinvenute testimonianze significative della frequentazione dell’uomo dalle prime fasi della preistoria.
Com’è noto i primi uomini arrivarono in Sardegna dal mare e solo la carenza di ricerche scientifiche non consente di affermare che la Gallura era abitata fin dal Paleolitico. Le testimonianze più antiche della presenza umana risalgono al Neolitico antico e si trovano nelle zone costiere. Sono da individuare nelle tracce lasciate lungo la via dell’ossidiana che partiva dal Monte Arci e, transitando proprio in Gallura, raggiungeva la Corsica e da qui la penisola italiana, la Francia meridionale e la Spagna. Le testimonianze arrivano dalle stazioni all’aperto individuate sui litorali, come quello di Lu Litarroni ad Aglientu, e dai tafoni, le rocce cave del granito adattate dall’uomo preistorico a ripari con semplici aggiustamenti in muratura. Non sappiamo con certezza se la Gallura fosse solo un punto di passaggio dell’ossidiana verso la Corsica o, invece, avesse anche un ruolo di primo piano negli scambi di questa importante materia prima tanto rara quanto preziosa. La presenza di scarti di lavorazione e schegge nei tafoni galluresi, soprattutto quelli dell’Arcipelago di La Maddalena, testimonierebbe la presenza di una lavorazione in loco del materiale, ma gli studi devono essere ulteriormente approfonditi.

A partire dal Neolitico medio, e fino al Neolitico finale, si popola anche l’entroterra; continua l’uso dei ripari sotto roccia, ma nascono anche i primi villaggi in capanne come quello di Pilastru ad Arzachena. Le maggiori testimonianze provengono, tuttavia, dai luoghi funerari, in particolare, dalle necropoli a circoli megalitici di Li Muri e La Macciunitta ad Arzachena. Si tratta di sepolture costituite da una cista quadrangolare in pietra messa al centro di un cerchio in muratura e, in origine, coperta da un tumulo di terra e pietrame che formava una sorta di collinetta artificiale. Alcuni menhir, posti nei punti di tangenza tra i circoli, costituivano presumibilmente i segnacoli delle tombe, e le cassettine che si trovano all’esterno erano utilizzate, probabilmente, per la deposizione delle offerte.

Le necropoli a circolo galluresi sarebbero le prime manifestazioni del megalitismo sardo, comparso con la cultura di San Ciriaco, momento in cui si verifica un cambiamento nella società neolitica con l’intensificarsi degli scambi e, con essi, delle relazioni sociali; una conferma arriva dagli oggetti di grande raffinatezza qui rinvenuti, veri e propri beni di prestigio, tra i quali vasi in pietra, accettine e vaghi di collana in steatite e pietre dure che trovano confronti puntuali in tombe analoghe rinvenute e indagate nel sud della Corsica, nella Francia meridionale e nell’area pirenaica. A partire dalla successiva cultura di Ozieri il megalitismo si diffonde in modo capillare e origina in Sardegna, così come nella vicina Corsica, necropoli a circoli più complessi e articolati di cui la più celebre testimonianza è quella di Pranu Mutteddu a Goni. In questo periodo compaiono anche i dolmen che segnano un cambiamento nel rituale funerario con il passaggio dalle deposizioni singole e sigillate al momento della deposizione proprie dei circoli, alle deposizioni plurime, garantite con la possibilità di aprire più volte il sepolcro per accogliere nuove sepolture. I dolmen galluresi sono sparsi nel territorio, per lo più isolati o a piccoli gruppi: Li Casacci ad Arzachena, Santu Larentu-Vena d’Idda a Berchiddeddu e, più noti, i dolmen di Ciuledda, Alzoledda, Billella e Ladas a Luras.
Per quanto riguarda le grotticelle sepolcrali scavate nella pietra note come domus de janas, il loro utilizzo, diffusissimo nelle aree di cultura Ozieri, è attestato in Gallura solo in modo sporadico e limitato alle zone più marginali dove filtravano con più facilità le influenze culturali delle zone limitrofe nelle quali sono molto rappresentate: Anglona, Logudoro, Monte Acuto e Baronia. Cito qui come esempio le domus di Lu Calteri a Trinità d’Agultu, quelle di Tisiennari a Bortigiadas, una delle quali con motivi incisi sulle pareti interne, e quelle di San Lorenzo e Solità nell’agro di Budoni.

La rarità di questo tipo di monumento è dovuta, presumibilmente, all’estraneità culturale e religiosa dell’ipogeismo artificiale nella Gallura neolitica, che continua la tradizione megalitica consolidatasi con i circoli funerari prima e con i dolmen poi. Non si deve, infatti, alla gran quantità di tafoni disponibili, alcuni dei quali hanno l’aspetto di vere e proprie domus naturali, né tantomeno alla durezza della roccia granitica; esistono, infatti, intere necropoli scavate nel granito in altri territori, alcuni dei quali inseriti nella provincia Olbia Tempio ma culturalmente estranei alla Gallura, come Buddusò e Oschiri.
Alla fine del Neolitico la diffusione dei metalli pone in secondo piano gli strumenti in pietra e la Gallura perde il suo ruolo di testa di ponte, strettamente connesso alle rotte dell’ossidiana. A questo potrebbe essere imputabile il rarefarsi dell’insediamento. Recenti acquisizioni, provenienti dalle isole di La Maddalena e da quella di Tavolara, hanno permesso tuttavia di arricchire il quadro di conoscenze sull’età del Rame, le cui attestazioni sembravano limitate a sporadici frammenti ceramici rinvenuti in qualche tafone. A partire da queste scoperte, dovute in particolare al rinvenimento di materiali della cultura di Monte Claro da parte di G. Pisanu nella spiaggia di Spalmatore a Tavolara, sono stati individuati e sono in corso di studio da parte di chi vi parla altri contesti eneolitici galluresi, anche nell’entroterra.

A questo periodo potrebbero essere riconducibili anche alcune muraglie megalitiche, almeno nel primo impianto. Alcune di esse come quella di Monte Pinu, che segna il confine amministrativo tra i comuni di Olbia e Telti ed è riprodotta sulla copertina del libro, si trovano isolate e prive di qualunque elemento di cultura materiale che possa ricondurle a età preistorica o protostorica; si attendono pertanto i risultati delle ricerche in corso per tentare di comprenderne la reale attribuzione cronologica. La maggior parte delle muraglie comunque, a onor del vero, si trova in luoghi frequentati in età nuragica come quelle di Riu Mulinu a Olbia, Monte Mazzolu ad Arzachena e Sarra di L’Aglientu a Sant’Antonio di Gallura; pertanto, è accertato il loro uso in questo periodo nel quale il territorio fu popolato in modo ancora più capillare che in passato.
In Gallura, la civiltà nuragica si presenta con le stesse caratteristiche con cui si manifesta nel resto dell’Isola, magari con architetture meno complesse e imponenti della Marmilla, del Logudoro, del Marghine, del Goceano, delle Barbagie o del Sarcidano, forse per la povertà del territorio gallurese, in gran parte poco vocato alle attività agro-pastorali. Si hanno nuraghi a tholos come la Prisgiona ad Arzachena o Tuttusoni ad Aglientu, a corridoio come Lu Brandali a Santa Teresa Gallura o Lu Barriatogghju a Palau, di tipo misto, ovvero strutture in cui si ritrovano entrambe le tipologie, come l’Albucciu ad Arzachena o il Loelle a Buddusò. In Gallura predominano i nuraghi a corridoio, forse anche per la presenza massiccia di imponenti emergenze granitiche che hanno rappresentato sicuramente un condizionamento nella scelta della costruzione da realizzare ma anche parti strutturali pronte da inglobare nella muratura, con un conseguente risparmio di tempo e materiale da costruzione.
La dislocazione in punti dominanti era strettamente connessa alla funzione primaria di difesa delle risorse disponibili, dalle quali dipendeva il sostentamento delle comunità: i campi, nei quali si praticava l’agricoltura e l’allevamento, e il mare, luogo di pesca e di scambi. Esistono anche diversi nuraghi ubicati nelle distese pianeggianti, in particolare nella piana di Olbia; tra tutti ricordo i nuraghi Paulelada e Siana.

Il controllo del mare avveniva sia direttamente, attraverso semplici torri costiere, come quella di Municca a Santa Teresa Gallura, che svolgevano la funzione di punto di avvistamento e di faro del tratto di costa in cui erano ubicate, sia a distanza, con nuraghi ubicati nell’immediato entroterra. Estremamente interessante è il caso del nuraghe Barrabisa in comune di Palau, ubicato su un lieve rialzo collinare a brevissima distanza dal Fiume Liscia, che sembra, in particolare, aver svolto la funzione primaria di avamposto strettamente connesso a una via di penetrazione fluviale.

La popolazione, come in tutta la Sardegna, abitava in villaggi di capanne, a pianta generalmente circolare e a doppio paramento murario legato con malta di fango e zeppe, e riempito internamente a sacco con terra e pietre. Il tetto era costituito da un’intelaiatura per lo più conica di grossi pali appoggiati sullo zoccolo murario o conficcati nel piano di calpestio in terra battuta o lastricato con pietre piatte. Talvolta le capanne esulano da questo schema costruttivo, in quanto, così come i nuraghi, inglobano nella loro muratura le rocce granitiche affioranti.

Queste ultime, a volte sagomate e riadattate, hanno condizionato l’andamento della struttura determinando forme spesso singolari e non perfettamente simmetriche, e quindi sistemi di copertura particolari. Una evidente testimonianza è costituita dal villaggio di Lu Brandali a Santa Teresa Gallura, in cui uno degli ambienti, doveva avere un tetto a unica falda, in quanto lo sperone roccioso inserito nella muratura raggiunge un’altezza tale da impedire qualunque altra possibile copertura.
È una costante, nel territorio gallurese così come in tutti quelli in cui domina il paesaggio granitico, la convivenza, nell’ambito dello stesso insediamento, di strutture circolari in muratura e ripari sotto roccia.
Le genti nuragiche galluresi seppellivano i loro defunti, come consuetudine in tutta l’Isola, nelle tombe di giganti; insieme a queste però utilizzavano anche i tafoni. I due tipi di sepoltura sono stati usati contemporaneamente e non si hanno elementi sufficienti per comprendere se la scelta dell’uno, o dell’altro tipo, dipendesse da presupposti di censo o di nascita.
Le tombe di giganti maggiormente rappresentate sono quelle cosiddette ortostatiche per la presenza di grandi lastroni infissi a coltello sia nell’esedra sia nel corridoio destinato ad accogliere le sepolture. Le più note, soprattutto per le dimensioni ragguardevoli e per la maestosità fornita loro dalla stele centinata posta al centro della facciata, sono quelle di Li Lolghi e Coddu Ecchju ad Arzachena, Su Monte ‘e s’Abe a Olbia e Li Mizani a Palau. Quest’ultima, tra l’altro, con quella di Pascaredda a Calangianus, sono le uniche ad aver conservato la stele eretta nella posizione in cui era stata collocata al momento del suo impianto. Oltre le tombe ortostatiche, le più antiche, sono presenti anche quelle realizzate non più con lastroni infissi ma con filari di pietre più o meno lavorate, come quelle di Lu Brandali e La Testa a Santa Teresa Gallura. Per quanto riguarda le tombe di giganti più recenti che presentano al centro della facciata un monolito trapezoidale con tre cavità verticali scolpite, noto come fregio a dentelli, non ci sono chiare attestazioni in Gallura. Un solo elemento con fregio a dentelli è stato rinvenuto nelle immediate vicinanze di una struttura muraria a filari ad andamento semicircolare nella zona di S’Ajacciu d’Inghjò a Palau.
Sebbene il monumento sia noto in letteratura come tomba di giganti, mancando l’elemento principale di una tomba, la camera sepolcrale, si può ipotizzare, in alternativa, che si tratti di un’esedra cerimoniale priva, sin dall’origine, della parte destinata alle sepolture. Nella parte posteriore, ma non a ridosso della struttura, sono presenti strutture murarie realizzate in età alto-medievale, ma non sembra sia da imputarsi a questo successivo utilizzo dell’area l’eventuale smantellamento della tomba, anche perché la pendenza del livello naturale del terreno nella parte posteriore dell’esedra è talmente marcata da essere poco adatta ad accogliere il corpo principale di un’eventuale tomba.
Concludo questa veloce carrellata sui monumenti preistorici e protostorici della Gallura con un accenno ai pozzi sacri e ai tempietti in antis o a megaron. I pozzi sacri, di cui forniscono testimonianza quelli di Sa Testa a Olbia e, anche se parzialmente mutilato, di Milis a Golfo Aranci, sono sempre lontani dagli abitati, isolati e privi di strutture di protezione. Si tratta quindi di luoghi destinati all’incontro di diverse comunità che non avevano, quindi, necessità di essere protetti, probabilmente anche in virtù della loro funzione sacrale che li rendeva naturalmente sicuri. La loro ubicazione molto prossima alle coste suggerisce un utilizzo che poteva comprendere l’ospitalità verso chi arrivava dal mare.

I tempietti si trovano, invece, sempre su imponenti alture granitiche che dominano vaste estensioni di territorio e sono in associazione con capanne, tafoni e, come nel caso del complesso ubicato sulle cime di Monti Canu a Palau, anche con una fonte sacra. I più celebri sono quelli di Malchittu ad Arzachena e Sos Nurattolos ad Alà dei Sardi, anche in quest’ultimo caso in associazione con una fonte sacra.
Voglio terminare questo veloce excursus sulla Gallura preistorica con la considerazione, rafforzata in questi anni di ricerca sul territorio, che ogni buon studio di archeologia del territorio deve essere ancorato alla visione autoptica dei beni e del contesto in cui sono inseriti, volgendo sempre uno sguardo alle altre realtà territoriali. In questo modo spesso siamo spinti a rivalutare posizioni e idee date per consolidate e a comprendere che, in preistoria, l’ipotesi è, in mancanza di prove certe, da preferire alla tesi.
Numerose, infatti, sono le domande e altrettante le certezze troppo relative che sono affidate alle conferme o alle confutazioni proprie delle dinamiche della ricerca.
Mi piace concludere con una felice espressione di Giovanni Lilliu che, in un suo articolo del 1948 (D’un candelabro paleosardo del Museo di Cagliari, in Studi Sardi, VIII, Sassari, pp.35 – 42), trattando proprio della cultura gallurese scriveva: “Non è da escludersi che lo sviluppo delle ricerche può portare nuovi documenti, tali da mutare, parzialmente o totalmente, ipotesi e affermazioni fatte. Non meglio ad altre discipline che alla preistoria si adatta, infatti, la dialettica del movimento, segno di vita”.

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giovedì 29 marzo 2012

Nuraghe Palmavera, la capanna delle riunioni.


La Capanna delle Riunioni di Palmavera
di Alberto Moravetti , 2006

Lo scavo del nuraghe Palmavera ad opera del Taramelli costituisce di fatto la prima esplorazione di un nuraghe condotta con criteri scientifici, ovviamente riportati agli inizi del secolo. Infatti, non solo lo scavatore procede con metodo stratigrafico, distinguendo la successione dei livelli culturali (certamente doveva essere più articolato lo “strato primitivo” nuragico) lascia testimoni di controllo, descrive con accuratezza sia le architetture che i materiali rinvenuti, è attento alle associazioni, ma si preoccupa di acquisire dai materiali tutte le informazioni che altre scienze gli possono offrire. Fa analizzare, infatti, il metallo dal prof. Francesconi dell’Università di Cagliari e i resti di pasto raccolti dal prof. E. Giglio di Tos, professore di zoologia nella stessa università. I risultati riveleranno che fra i metalli vi era del rame puro e che i resti ossei e malacologici, raccolti con cura e in grande abbondanza, erano di cervo, di bue, di pecora, di capra, di cinghiale, di piccoli roditori (lepri e conigli).
Questa capanna, costruita a Sud-Ovest del bastione ed inclusa successivamente nel tracciato dell’antemurale, per le sue eccezionali dimensioni di pianta risulta l’ambiente di gran lunga più vasto dell’intero complesso, non solo quindi delle capanne ma anche delle camere a tholos del bastione.
Il diametro esterno misura m 11,75/11,50, mentre quello interno risulta di m 8,55/8,87. Lo spessore delle murature varia da m 1,20 a m 1,37, mentre l’altezza residua è di m 1,40/2,10, all’esterno, e m 1,50/2,10 nelle pareti interne.
Gli scavi del 1976 hanno restituito numerosi e significativi elementi culturali che confermano, fra l’altro, la sua destinazione pubblica, intuibile fino ad allora solo sulla base delle maggiori dimensioni di pianta: una nicchia ogivale, rialzata di m 0,45; un bancone-sedile che segue parzialmente il profilo circolare della capanna; una vasca o spazio quadrangolare delimitato da lastre ortostatiche; una base circolare con accanto una pietra tronco conica; un betilo-torre; un “incensiere”; un seggio-tronetto in arenaria. Si può ipotizzare che il Consiglio degli anziani al completo fosse in numero pari ai sedili e quindi di 43 persone. II seggio-tronetto era addossato alla parete del vano, all’altezza della nicchia, fra i sedili a parete e la “vasca” alla quale era unito da una piccola lastra che delimitava in questo modo uno spazio triangolare.

Una pietra in arenaria, ben lavorata, fungeva poi da zeppa, mentre anche il piano su cui poggiava era stato normalizzato “a corona” con piccole pietre. Il modellino di nuraghe fu scoperto nel livello inferiore dello strato di crollo, a contatto con il pavimento, in prossimità del presunto focolare e vicino alla pietra betilica. Giaceva, spaccato sotto il capitello ma in naturale posizione di caduta, con il fusto rovesciato sul piano di calpestio ed il tamburo terminale rialzato di m 0,15 perché poggiava su una frammentaria pietra di arenaria, risultata poi parte di un “incensiere”. Il pilastrino appariva più gravemente lesionato nella superficie investita dal crollo (alt. m 0,66; alt. fusto m 0,37; alt. Capitello m 0,21; diam. base m 0,51). Questo betilo-torre si inquadra nel diffuso “culto delle pietre” di età nuragica che sembra continuare una tradizione profondamente radicata nel pensiero religioso prenuragico. Nei betili-torre, invece, l’“essenza” divina si cala nella pietra che riproduce la dimora-fortezza della comunità che diviene, tramite il pilastrino-torre, anche la “casa del Dio”, difesa e tutelata, quindi, dalla sua presenza.
Un elemento di forma circolare, in arenaria e ben rifinito, con lieve cavità lenticolare al centro della faccia superiore, annerita dal fuoco, da interpretare, forse, come “incensiere” o braciere rituale e da mettere in relazione con il carattere civile e religioso dell’edificio, risultava spaccato in due parti.
Nel 1977, con il completo scavo della capanna e lo svuotamento del presunto focolare, si rinvenne “in situ”, perfettamente al centro del medesimo, calcinato dal fuoco e sotto uno spesso strato di cenere, fittili e resti di pasto, un troncone di pilastrino a sezione circolare e di forma troncoconica (alt. m 0,36; diam. 0,52/0,33), ma con il diametro maggiore in alto, a corrispondere quasi esattamente con quello di base (m 0,51) del betilo-torre rinvenuto l’anno precedente. Nessun dubbio, quindi, sulla pertinenza di questo pezzo al modellino di nuraghe già ritrovato, il quale viene così ad avere una altezza complessiva di circa 1 metro – la maggiore fra quelle note di sculture consimili – ed una forma troncoconica che nel terzo inferiore va rastremandosi proprio per essere inserito al centro del “focolare”, che di conseguenza, almeno in origine, altro non era che la base del pilastrino-torre.
Lo scavo ha infine accertato che quando venne costruita la Capanna delle Riunioni si dovettero demolire strutture abitative preesistenti che insistevano sull’area interessata dal nuovo e più importante edificio. Si normalizzò il terreno con piccole pietre e terra di riporto – fra questa vi erano anche vari frammenti fittili decorati “a pettine” – e quindi si procedette
a realizzare il piano pavimentale della “Curia” con un sottile strato di malta bianca ottenuta con il disfacimento della pietra calcarea.

Gli scavi hanno restituito copiosi materiali fittili, talora decorati a cerchielli, vaghi di ambra e di bronzo, tre bracciali in bronzo finemente incisi a spina-pesce, una lucerna del tipo “a cucchiaio” ed un’altra buccheroide “a barchetta” ornata a cerchielli. Analisi di idratazione dell’ossidiana effettuate dal prof. Joseph Michels della Pennsylvania State University, su un nucleo di ossidiana rinvenuto nella capanna, fra un sedile e la parete, ha fornito la seguente datazione: 898±123 a.C., una cronologia, questa, del tutto accettabile e coerente con i dati emersi nel corso dell’indagine. Infatti, al IX secolo a.C. sembrano indirizzare i materiali fittili con decorazione geometrica. Lo stretto legame formale fra il seggio di Palmavera e un modellino di sgabello bronzeo, di fattura nuragica, proveniente dalla nota tomba villanoviana di Cavalupo, – il corredo, conteneva fra l’altro ancora due bronzi sardi, è riferito alla seconda metà del IX a.C., – costituisce una prova importante per datare l’impianto dell’edificio. Infatti, dal momento che si deve presumere che la Capanna sia stata concepita con l’arredo legato alle sue funzioni pubbliche, la cronologia del seggio può essere indicativa dei tempi della sua costruzione.
Lo scavo, almeno negli strati di crollo indagati nel 1976-77, non ha restituito materiali di età storica o comunque più recenti della fine dell’VIII a.C. La vicenda storica di questa capanna sembra concludersi, quindi, verso la fine dell’VIlI a.C. a causa di un violento incendio che la distrusse e di cui restano vistose tracce di ceneri.

Immagini e testo tratti da: Il complesso nuragico di Palmavera, Moravetti, 2006

mercoledì 28 marzo 2012

Puglia: Dolmen


Il fenomeno dei dolmen nella Puglia meridionale
di Marco Cavalera, Nicola Febbraro

Intorno alla fine del IV millennio a.C. (Neolitico finale) si assiste ad un lento processo di differenziazione nell’organizzazione sociale dei gruppi umani che assumono, sempre più, la forma di comunità sedentarie, dedite all’agricoltura e alla pastorizia. L’evoluzione culturale e sociale coinvolge anche la sfera dell’aldilà, con la conseguente esigenza di rivolgere maggiore attenzione ai defunti e alle loro ultime “dimore”. A tal proposito si iniziano ad utilizzare piccole cavità artificiali come sepolture collettive, fenomeno che avrà grande diffusione nell’età del Rame, per culminare poi nell’età del Bronzo con una maggiore articolazione e complessità delle tombe a grotticella costituite da una pianta rettangolare, corridoio (dromos) di accesso (non sempre attestato) e cella funeraria vera e propria; quest’ultima si caratterizza per la presenza di un gradino – sedile che corre su tre lati, di nicchie scavate nelle pareti e caditoie sulla volta. Nel Salento meridionale una tomba a grotticella è stata individuata e indagata nel territorio comunale di Specchia, nel sito archeologico di Cardigliano. Lo scavo, condotto nel 1989 dalla Soprintendenza Archeologica della Puglia in località Sant’Elia, ha permesso di rinvenire alcuni vasi ad impasto frammentari, provenienti dall’ambiente ipogeico scavato sul fianco di un basso costone roccioso ed utilizzato come sepoltura collettiva. La struttura era costituita da una cella sepolcrale pressoché quadrangolare, fornita di una banchina sul lato est e di un letto sul lato nord, alla quale si accedeva da un vestibolo mediante tre rozzi scalini. La cella presentava sul lato sud un piccolo vano sub-circolare, dal quale vennero recuperati resti scheletrici umani. Tra il materiale fittile rinvenuto, riferibile all’età del Bronzo medio, vi è un’olla con anse tubolari verticali e una ciotola carenata con ansa a nastro verticale. Alla stessa epoca di utilizzo delle cavità artificiali a scopo funerario risale la realizzazione dei monumenti megalitici noti come dolmen, termine di originebretone, coniato dalla storiografia tradizionale, che significa “tavola di pietra”.
La Puglia è l’unica regione dell’Italia peninsulare in cui è attestata la presenza di dolmen, che si concentra su tre distinte aree geografiche:
• nel comprensorio a nord di Taranto;
• lungo il litorale barese.
• nella penisola salentina;
I dolmen del barese e del tarantino rientrano nella categoria dei dolmen a galleria (allée couverte), che si caratterizzano per la presenza di suddivisioni interne della camera sepolcrale. Nel Salento invece sono attestate piccole strutture a pianta rettangolare, poligonale o irregolare. In questi due gruppi rientrano le piccole specchie con una o più strutture dolmeniche ricoperte da pietre e terra (tumuli). I dolmen pugliesi avevano probabilmente funzione autocelebrativa a scopo funerario e andavano a sostituire le sepolture collettive in grotta, denotando un nuovo assetto socio-culturale delle comunità che li realizzarono. La loro collocazione cronologica è compresa nelle diverse fasi della media età del Bronzo (circa 3.600 – 3.300 anni fa). In questo periodo si assiste, oltre alla diffusione dei monumenti funerari come i dolmen e le piccole specchie, ad uno sviluppo dell’estrazione di minerali differenti, da cui trarre – a seguito della fusione – leghe metalliche come il bronzo. Si afferma l’uso dell’aratro ligneo, la produzione e la circolazione di oggetti di prestigio. La datazione dei dolmen salentini è stata offerta non dai materiali archeologici associati (scarsamente attestati), ma da un confronto tipologico e strutturale con quelli presenti sull’isola di Malta, accomunati da numerosi elementi come la planimetria irregolare, le ridotte proporzioni del monumento, l’utilizzo di una tecnica mista per sostenere la lastra di copertura. La studiosa Cipolloni Sampò ritiene preminente l’utilizzo funerario dei dolmen, ma non esclude che in momenti storici differenti si siano alternate altre funzioni. I dolmen pugliesi presentano alcune peculiarità, come l’asse della struttura rivolto in direzione Est – Ovest, con l’apertura rivolta ad oriente, a parte alcune eccezioni come il dolmen Argentina-Graziadei rinvenuto nel territorio di Salve che presenta l’ingresso orientato ad occidente. Uno dei primi studiosi che si è occupato del fenomeno del megalitismo nel Salento è stato Cosimo De Giorgi che, a seguito di un censimento capillare, ha constatato che la maggior parte dei dolmen erano concentrati all’estremità sud-orientale della penisola salentina ed ha distinto quelli presenti in Terra d’Otranto in quattro gruppi:
1. quelli ubicati nell’area compresa fra Calimera e Melendugno;
2. quelli presenti nell’area compresa fra Minervino di Lecce , Uggiano la Chiesa, Vaste e Poggiardo;
3. quelli localizzati nei territori di Giurdignano e di Minervino. Si tratta del gruppo più importante, sia per il numero delle strutture rinvenute che per la loro densità;
4. quelli individuati lungo il versante ionico del tarantino.
De Giorgi classificò tutti i dolmen come monumenti funerari rientranti, originariamente, nella tipologia delle piccole specchie. La funzione della copertura con pietre e terra doveva, secondo lo studioso, impedire agli animali selvatici di accedere all’interno della cella funeraria. Della stessa, salvo rari casi, non è rimasta traccia a causa dell’azione delle piogge e di alcune attività umane. A questi fattori – in conclusione – riteneva di addebitare l’obliterazione di ogni elemento relativo alle antiche inumazioni e al loro corredo funerario.
DOLMEN NEL TERRITORIO DI SALVE
Giovanni e Paolo Cosi – nell’agosto del 1968 – rinvennero, in località la Cabina, i ruderi di un dolmen ubicati a breve distanza dalla strada provinciale 91, a circa 300 metri dalla linea di costa (4 metri s.l.m.). L’attenzione degli scopritori fu attirata da alcuni ortostati infissi verticalmente nel terreno e da monoliti di grandi dimensioni sparsi al suolo. Dalla relazione del rinvenimento si ricava la descrizione della struttura: Il dolmen si presentava composto da due lastre parietali infisse nel terreno: l’una, rivolta a nord, verso la strada, saldamente conficcata nel suolo, l’altra rivolta ad est, e da una lastra di copertura adagiata al suolo e leggermente spostata verso ovest. Giovanni e Paolo Cosi rinvennero al suo interno ossa lunghe umane, sei denti umani, cocci di terracotta grezza, cocci di terracotta fine e un frammento di ossidiana. Orlando, autrice di uno studio sulle strutture funerarie nel Salento dal XVI al X sec. a.C., riporta la notizia della presenza, almeno fino alla fine degli anni ’70, di una piccola struttura dolmenica in territorio di Salve, il cui scavo sembra abbia restituito materiale ceramico di corredo e di cui, purtroppo, non si ha nessuna notizia ufficiale, né si conosce l’esatta ubicazione rispetto ai siti del Bronzo medio iniziale di Spigolizzi e Fano. Franco, in occasione del Convegno Internazionale “Archeoastronomia Credenze e Religioni nel Mondo Antico” tenutosi a Roma nel 1997, ha così presentato il dolmen scoperto da Cosi: A Salve, lungo il litorale jonico nella piccola specchia «Giannella» furono rinvenuti dal Cosi questi due vasi d’impasto riconducibili al Bronzo Antico. Venne trovato anche un frammento di ossidiana – probabilmente liparota – che potrebbe significare il riutilizzo del sito. L’esistenza della piccola specchia Giannella è ignota sia ad alcuni anziani del posto che agli scopritori del monumento. Franco si limita a citare i due vasi d’impasto rinvenuti senza offrirne una descrizione tipologica. Dalle foto a disposizione, prive di riferimenti metrici, si evince che si tratta di una tazza frammentaria monoansata a forma chiusa e di un orlo diritto dal labbro arrotondato e dal collo troncoconico, con un’ansa a nastro verticale (spesso e stretto) che si imposta, superiormente, sull’orlo. I due vasi potrebbero essere riferiti alla fase protoappenninica del Bronzo medio iniziale e trovare confronti con i manufatti ceramici rinvenuti nel vicino villaggio di Spigolizzi.
In località le Pesculuse - 600 metri ad est dal Dolmen Cosi e 40 metri a sud della strada provinciale 91 (5 metri s.l.m.) – è stato localizzato un altro dolmen in discreto stato di conservazione. Anche la struttura megalitica, denominata da Franco “Argentina-Graziadei”, è stata presentata al già citato Convegno Internazionale del 1997. La studiosa, a proposito di megalitismo nel Salento, ha posto l’accento su due monumenti ipogeico-megalitici. Uno si trova nel territorio di Sanarica, l’altro in quello di Salve: tali monumenti sono composti da due elementi principali: quello ipogeico che è la tomba e quello apogeico che è l’accesso; trattasi quindi di costruzione a tecnica mista. Franco, riguardo a quello di Salve, fornisce una breve descrizione: Quello di Salve ha un ingresso megalitico formato da ortostati e piattabande che conduce direttamente nella grotticella ipogeica a forma semicircolare, scavata nel banco di roccia. Sinora non sono stati rinvenuti oggetti significativi. Il primo ad individuare il Dolmen Argentina-Graziadei è stato Giovanni Cosi:Nelle immediate vicinanze del Dolmen (Cosi) rinvenni una costruzione che potrebbe essere definita Dolmen a Pozzo. Non essendo certo della peculiarità della scoperta non ne feci cenno al prof. Lo Porto. Una dettagliata descrizione strutturale e i rilievi topografici del Dolmen Argentina-Graziadei sono stati pubblicati in un contributo della XIII edizione dell’annuario di storia e cultura Annu novu, Salve vecchiu. Il dolmen consta di una cella apogeica costituita da ortostati, di forma irregolare e di dimensioni varie, che poggiano sulla roccia affiorante e che sorreggono una copertura costituita da quattro grandi lastroni uno dei quali, in corrispondenza dell’ingresso, è stato asportato clandestinamente di recente. L’ingresso del dolmen, rivolto ad ovest, permette l’accesso alla struttura ipogeica, per mezzo di una breve rampa formata da tre gradini scavati nella roccia. La cavità artificiale – di forma quadrangolare – e la cella apogeica hanno nell’insieme le seguenti misure: altezza e larghezza 1,5 e lunghezza 2 metri. Alla base della piccola grotta è presente una fossa ellittica, scavata nel banco roccioso (profondità 1,15, larghezza 0,65 e lunghezza 1,9 metri), svuotata del suo originario contenuto da ignoti già nel 1968. È verosimile ipotizzare una sua natura funeraria, pur in assenza di manufatti archeologici o reperti ossei rinvenuti da Cosi e da Franco nella cavità ipogeica o nelle immediate vicinanze del dolmen. Il Dolmen Argentina-Graziadei presenta le medesime caratteristiche tipologiche dei cosiddetti piccoli dolmen del basso Salento, così come sono stati definiti da Cipolloni Sampò, fatta eccezione per l’apertura orientata ad ovest e per la presenza della cella ipogeica. La sua cronologia – comunque – resta incerta. Franco – invece – conclude il suo articolo scrivendo che, anche se tipologicamente queste strutture presentano strette affinità con quelle rinvenute nella valle del Belice, in Sicilia, con quelle sarde come Cuccuru Crabonis di Maracalagonis, con altri rinvenuti nell’isola di Minorca, risalenti alla fine del III – inizi II millennio a.C., esse sono molto tarde, forse medievali e potrebbero significare il perdurare di modelli diffusi nel Mediterraneo.

martedì 27 marzo 2012

Cicladi. Fondi per il restauro


Grecia. Verrà restaurato il teatro di Delos

Via libera al restauro dell’antico teatro di Delos, situato presso uno dei più famosi centri religiosi della Grecia, l’isola delle Cicladi, dove secondo la mitologia sarebbe nato Apollo, il dio della luce. Non per niente l’orchestra, al centro del teatro, è considerata da uno studio degli esperti dell’Università di Atene, come il luogo più luminoso del bacino mediterraneo. Il teatro di Delos è uno delle poche costruzioni antiche del suo genere realizzato completamente in marmo. La sua edificazione è incominciata attorno al 314 avanti Cristo, concludendosi circa dopo settant’anni, intorno al 250 a.C. Nell’88 a.C. la struttura poteva ospitare oltre seimila spettatori, ma venne abbandonato dopo il saccheggio dell’isola da parte degli uomini di Mitridate.

A distanza di 2.100 anni, il Consiglio Centrale di Archeologia, ha ratificato un progetto di restauro del monumento, proposto dall’ ingegnere Constantinos Zampas e dai suoi colleghi Irini Doudoumis e Gerasimos Thomas, in collaborazione con l’ organizzazione “Diazoma”. Il progetto, basato su uno studio di Philip Fraisse e Jean Ch. Moretti, della Scuola Francese di Archeologia, che per prima iniziò gli scavi alla fine del diciannovesimo secolo, prevede una serie di operazioni lievi e di pulizie per salvaguardare il teatro dalle ferite del tempo e restituirgli parte del suo antico splendore. I lavori di restauro interesseranno in particolare la ricollocazione e la classificazione dei pezzi architettonici sparsi intorno, il restauro dei pezzi di marmo del concavo, la protezione della superficie rocciosa per agevolare il deflusso delle acque piovane e la tutela del retro del muro di contenimento e delle pareti.

Secondo la stima proposta dalla stampa ellenica, il costo per la realizzazione del restauro raggiungerà un milione e mezzo di euro. Si spera che alla fine del restauro, il monumento possa essere ammirato dai migliaia di visitatori che ogni anno si recano sull’isola. Anche se sull’uso del teatro non si è ancora deciso nulla, alla fine del restauro potrà ospitare eventi con pochi spettatori, non oltre i duecento. Al momento il teatro assomiglia molto poco alla sua forma originaria, a causa delle numerose parti architettoniche sparse in un ampio raggio, della fitta vegetazione e dei materiali alieni ammassatisi intorno.

Fonte: Archeorivista

lunedì 26 marzo 2012

I monaci orientali in Sardegna: San Basilio


San Basilio e i monaci orientali
di Rossana Martorelli

L’archeologia cristiana parte convenzionalmente dalla nascita di Cristo e arriva fino a Papa Gregorio Magno, nel VI-VII secolo, un personaggio che ha avuto un ruolo importante anche in Sardegna. L’archeologia medievale si fa iniziare convenzionalmente dall’occupazione dei Vandali, alla metà del V secolo, e si conclude con la scoperta dell’America, alla fine del XV secolo, in quanto la scoperta del nuovo mondo sposta il baricentro economico dal Mediterraneo all’Atlantico.
Betlemme e Gerusalemme sono i centri interessati alla nascita e morte di Cristo e proprio in quest’ultima città si forma la prima comunità cristiana, con discepoli e apostoli che iniziano a viaggiare e a portare le idee ovunque. Emblematici sono Pietro e Paolo, che moriranno a Roma. Paolo compì 4 viaggi missionari che lo portarono a visitare il Mediterraneo orientale e buon parte di quello Occidentale. Secondo una diffusa tradizione, ma assolutamente priva di fondamento, il Cristianesimo sarebbe arrivato in Sardegna proprio con San Paolo che, navigando verso la Spagna, avrebbe toccato il porto di Cagliari introducendo il cristianesimo. Quando inizia la vicenda di Cristo, il Mediterraneo era interamente compreso nell’impero romano. Anche l’Europa era romana, tranne parte delle attuali Germania, Ungheria e Russia, ossia i luoghi da cui partiranno le popolazioni barbariche che porranno fine all’impero romano. Cristo nacque quando era imperatore Augusto e morì sotto l’impero era nelle mani di Tiberio. La Sardegna era una delle province romane e quindi assorbì gran parte delle idee religiose del cristianesimo, andando a sostituire le precedenti divinità pagane. Già all’epoca di Tiberio abbiamo la prima diffusione delle idee cristiane in Sardegna. Fonti antiche segnalano una colonia di ebrei e di seguaci del culto egizio di Iside deportata in massa in Sardegna. Il cristianesimo nasce nell’ambito della comunità ebraica; pertanto è verosimile che proprio tramite questo primo nucleo di ebrei arrivati nell’isola sia stato introdotto nei pensieri delle comunità sarde. Abbiamo testimonianze archeologiche di questa comunità ebraica, come ad esempio una lucerna con la rappresentazione del candelabro ebraico. In Sardegna venivano anche deportati i condannati ai lavori forzati per lavorare nelle cave di granito e nelle miniere, forse a Metalla. Sotto l’imperatore Commodo, infatti, abbiamo fonti che parlano di una grande quantità di cristiani che furono deportati in Sardegna, fra i quali Papa Callisto, poi liberati dalla concubina dell’imperatore, simpatizzante per i cristiani, che convinse le autorità a far ritornare molti di questi cristiani.
Le fonti dicono che Ponziano, papa vissuto alla metà del III secolo, fu deportato “in un’insula nociva presso l’isola di Sardegna”. Ponziano è uno dei due papi che hanno conosciuto il proprio successore (l’altro è Celestino V), poiché quando fu deportato, per non lasciare i cristiani senza una guida, rinunciò al suo mandato e fu sostituito da Fabiano. Quest’ultimo, alla morte di Ponziano, si recò in Sardegna per prenderne le spoglie e trasferirle in una catacomba romana, quella di Callisto. L’epigrafe della lapide funeraria è scritta in greco e recita Pontianos Episcopos.
Al 314 risale la più antica testimonianza certa della presenza di cristiani in Sardegna. L’antica Karales aveva un vescovo di nome Quintasio, capo di una chiesa locale, e di un prete, Ammonius, che partecipò insieme al vescovo, ad un concilio indetto dall’imperatore Costantino ad Arles, in Francia, per discutere una delle tante eresie che si stavano sviluppando in quel periodo. Il cristianesimo si diffonde prima nelle città portuali, quelle che hanno più contatti con l’esterno. In un cubicolo sotterraneo scavato nel cimitero di Bonaria a Cagliari ci sono delle pitture murali, oggi quasi completamente scomparse, che fortunatamente furono copiate da archeologi della fine dell’Ottocento. La prima scena raffigura il mito di Giona, tratto dall’Antico Testamento. Il profeta aveva ricevuto da Dio il compito di andare a convertire all’ebraismo gli abitanti della città di Ninive, ma Giona si rifiutò e si imbarcò clandestinamente su una nave che, una volta in mare aperto, si imbatté in una tempesta. Gli antichi pensavano che le calamità naturali fossero una punizione di Dio e, scoprendo Giona, gli attribuirono le colpe e lo gettarono in mare. Giona venne inghiottito da un mostro marino, rimase tre giorni nella sua pancia ma poi viene rigettato fuori e decise di andare a compiere la missione. Evidenti sono le analogie con Cristo, incaricato di compiere una missione, nel sepolcro per tre giorni e poi risorto.

Nell’altra scena si vede una barca alle prese con una tempesta. Alcuni individui cercano faticosamente di salire su una passerella, ma non tutti riescono nell’impresa. Nella simbologia antica la barca è la Chiesa e riuscire a salire sulla barca significa salvarsi, ma non tutti riescono ad essere dei buoni cristiani, ossia non si comportano secondo i principi cristiani. Probabilmente questa immagine è stata eseguita nel periodo di passaggio fra paganesimo e cristianesimo, quando c’era indecisione.
La Basilica di San Saturnino nasce a Cagliari su una necropoli prima pagana e poi frequentata dai cristiani. Alla città di Cagliari si lega in parte anche la vicenda di S. Efisio. Nella sua prigione (il cd. “Carcere di Sant’Efisio”) c’è una colonna e la tradizione vuole che le catene che legavano il santo fossero proprio incernierate in questa colonna, come a Roma, dove è la colonna alla quale si ritiene fosse legato San Pietro. Altri santi antichi sono San Lussorio, a Fordongianus, dove nella cripta sotto la chiesa attuale sono i resti delle tre sepolture che si pensa fossero di Lussorio, Cesello e Camerino, legati dai documenti agiografici agli antichi cristiani. Nell’epigrafe murata su un fianco della chiesa si legge: “qui si sparse il sangue del beatissimo Lussorio”.
Porto Torres è legata, invece, alla memoria del suo martire San Gavino ma dalle fonti apprendiamo che ne ebbe altri due (Proto e Ianuario).
I martiri sono coloro che pur di non rinunciare alla propria fede hanno sacrificato la vita. Nella cristianità antica si conoscono anche i traditori, i cosiddetti “lapsi”, ossia coloro che per salvare la propria vita all’ultimo momento hanno dichiarato di non essere cristiani. Ci sono anche i “confessori”, persone che hanno salvato la vita per condizioni indipendenti dalla loro volontà, magari perché finiva la persecuzione. Ogni religione ha questi martiri, poi diventati oggetto di culto. e attorno alle tombe di questi personaggi furono costruite delle chiese, monumentalizzate ed eseguite delle pitture. I pagani avevano il loro eroe Ercole, i cristiani i martiri. Oltre i martiri ci sono i santi, ossia coloro che, pur non essendo legati ad un martirio, vivono una vita esemplare e muoiono di malattia o di povertà, non necessariamente uccisi. Anche in questi casi si parte da una semplice tomba, attorno alla quale poi si fa un percorso per agevolare il passaggio dei pellegrini per la preghiera, poi si edifica una chiesa, che funge da polo di attrazione per la comunità e gradualmente si formano villaggi e città.
Le religioni hanno al loro interno una simbologia ben precisa: fra i cristiani sono diffuse le croci e il pesce, simbolo di Gesù perché nel II secolo era stato composto in Asia Minore un poemetto che inneggiava al Cristo, alla resurrezione e ai concetti principali del cristianesimo nascente. Le lettere iniziali di tutti i versi, lette in verticale davano la scritta “ichtys”, termine greco che indica “pesce”. Ancora oggi “ittico” indica tutto ciò che riguarda i pesci e da allora, quando si voleva rappresentare simbolicamente il Cristo, si ricorreva all’immagine del pesce. Siamo in un periodo in cui la religione cristiana è ancora illecita e si sente la necessità di creare una sorta di codice di lettura. Ci sono anche marchi di fabbrica, generalmente in ceramica, per pani eucaristici, utilizzati per la comunione, come ad esempio quello ritrovato in un piccolo centro vicino a Cabras, San Giorgio. Oggi non c’è più ma sono stati ritrovati i resti di una chiesa e di un archivio. In questo oggetto c’è un individuo con l’aureola e la scritta intorno ci dice che è San Giorgio. Allora non esistevano le ostie e la comunione veniva data con dei pezzi di pane, come si fa ancora oggi in Grecia e in quei luoghi dove si svolge la liturgia ortodossa bizantina.
Nel V secolo l’impero romano si disgrega e rimane solo la parte orientale. I Vandali, dal nord Europa, passano attraverso la Francia, la Spagna, lo Stretto di Gibilterra e conquistano l’Africa Settentrionale, forse fino ad Alessandria d’Egitto, formando un regno di cui farà parte anche la Sardegna che, quindi, si stacca dall’impero romano. L’isola rimarrà a lungo una provincia d’Africa.
I Vandali erano ariani, ossia cristiani che però non credevano a tutti i dogmi della Chiesa di Roma, ad esempio nella verginità di Maria e davano a Cristo un aspetto umano. I cattolici riconoscono tre entità consustanziali: Padre, Figlio e Spirito Santo ed è ciò che si recita nel Credo. Gli Ariani vedono il Figlio non all’altezza del Padre e prevaleva la parte umana. Inoltre non credevano nel papa e nei martiri.
Alcune popolazioni erano tolleranti, come i Goti, pur occupando l’Italia, non hanno mai creato problemi ai cattolici; invece i vandali, che non amavano combattere e non erano abili governanti, assunsero l’arianesimo come propria identità nazionale e condussero la loro politica mischiandola con la religione, prendendo una decisione rigorosa: chi non era ariano doveva lasciare il territorio. Fu così che circa 200 vescovi e fedeli africani furono mandati in esilio in Sardegna e poi in Corsica. Questa nuova ondata di religione cristiana che arrivò, e in parte si fermò a Cagliari, occupò anche l’interno dell’isola e diffuse nelle campagne il cristianesimo. Le zone più arretrate, lontane dalla città, ricevettero dunque un impulso da questi vescovi e si convertirono, mentre nelle vicinanze del Gennargentu, i Barbaricini mantennero il loro paganesimo per molto tempo ancora.
Vicino a Santa Caterina di Pittinurri (Oristano) c’è il complesso di Cornus con una chiesa, il battistero, la residenza del vescovo e una chiesa per le cerimonie funebri circondata dal cimitero. L’archeologia, con lo studio dei materiali, consente di datare queste strutture all’epoca dell’arrivo dei vescovi africani.
Giustiniano, imperatore di Costantinopoli, decise di eliminare i vandali e le altre popolazioni barbariche e di riconquistare i territori per ricomporre l’intero impero romano. La Francia e la Spagna rimasero comunque in mano rispettivamente dei merovingi e dei visigoti.


La Sardegna diventa bizantina ma fa parte della provincia d’Africa. Giustiniano ha tre linee di programma:
1)i confini erano estesi e bisognava proteggerli con l’impianto di una serie di fortezze. Una prima linea lungo il confine in Bulgaria, Ungheria, Romania, altre fortezze in Turchia (per difendersi dalla temibile Persia), lungo la Siria e in Africa settentrionale. In Sardegna dapprima si fortificano le città, che all’epoca erano portuali, e in seguito si protessero le vie principali, da Cagliari a Porto Torres e da Cagliari a Olbia passando per l’interno, quindi attraverso la Marmilla, la Trexenta e costeggiando il Gennargentu. La Sardegna era il granaio dal quale provenivano le derrate alimentari per l’esercito e nei prodotti agricoli possiamo inserire anche l’attività vinicola. Nelle zone collinari si praticava l’allevamento e si sentì la necessità di proteggere questa area strategica. Spesso si recuperarono le vecchie ville romane, che vennero assegnate a funzionari militari dell’impero bizantino. Oltre agli ufficiali e alle famiglie, nelle nuove fortezze si sistemò la guarnigione militare e tutti coloro, come coloni e agricoltori, che dovevano contribuire alle vettovaglie. Queste ville quindi avevano una duplice funzione: controllo militare della via e mantenimento delle attività agricole. Se i nemici fossero riusciti a forzare la prima linea difensiva bisognava sbarrare la strada con un’altra linea fortificata. Nasceva così una linea parallela di altre fortezze e postazioni di guardia.
2)Il secondo obiettivo era l’unificazione religiosa. Decise dunque di eliminare l’arianesimo e mettere tutto l’impero bizantino sotto l’autorità della Chiesa di Roma. Solo nel 1054 ci sarà la scissione fra bizantini e ortodossi. Il territorio fu completamente cristianizzato, anche se qualche sacca di paganesimo rimase comunque, soprattutto nei territori interni. In questo periodo si assisteva alla vicenda di Gregorio Magno, uno dei papi più importanti della storia. Nella sua opera di evangelizzazione cercò di raggiungere anche i luoghi più lontani, aiutandosi con messi che arrivarono fino all’Irlanda. In Sardegna si nota una fitta corrispondenza con il vescovo di Cagliari Gianuario, continuamente rimproverato da Gregorio perché non si preoccupava delle campagne. Pare che le sacche di paganesimo fossero numerose e che le zone interne non avessero una guida, facendo riferimento soprattutto ai Barbaricini che, come si legge negli scritti, adoravano pezzi di legno (totem) e pietre (menhir). È in questo periodo in cui si iniziò la costruzione di chiesette in campagna. Apparentemente isolate, fungevano da raccordo per i vicini paesi e per le ville dei militari. A volte all’interno delle ville abbiamo ambienti adibiti a luoghi di culto.
3)L’ultimo aspetto fu quello di scrivere un corpus di leggi, il Corpus iuris civilis, ancora oggi alla base del diritto che studiamo noi, e applicarlo a tutto l’impero.

La Sardegna rientra nei due primi filoni: la militarizzazione delle postazioni con gestione anche economica del territorio, e la cristianizzazione con l’edificazione di diverse chiese campestri. Fra le chiese costruite nel periodo bizantino in Sardegna si ricordano San Saturnino e San Giovanni a Tharros. L’arrivo degli arabi fu un grosso problema per l’impero bizantino. Questo popolo partì dalla penisola araba agli inizi del VI secolo indirizzandosi verso il Mediterraneo, considerato il baricentro economico del mondo antico. Conquistò Gerusalemme, Damasco, altre terre nel medio oriente, puntando su Costantinopoli, ma le imponenti fortificazioni della città erano invalicabili. Si indirizzarono allora verso l’Africa settentrionale, arrivando a conquistare Cartagine nel 697 d.C., capitale della provincia d’Africa della quale faceva parte anche la Sardegna. Sebbene alla fine del VII secolo tutta l’Africa settentrionale sia caduta sotto gli arabi, la Sardegna riuscì a difendersi e a mantenere l’indipendenza, diversamente da Cartagine, che fu distrutta e mai più ricostruita (i suoi resti oggi sono visitabili vicino a Tunisi).
La Sardegna in questo periodo ha come referente Costantinopoli, ma vista la lontananza e il fatto che Mediterraneo era infestato dalle navi arabe, iniziò una fase di incremento economico locale. Per sopravvivere non si poteva più comprare dall’esterno e regioni come la Trexenta divennero importanti perché favorirono la produzione locale di agricoltura, allevamento e ceramica.
Mentre i Vandali e gli Ostrogoti lasciarono praticamente libera la possibilità di scelta religiosa, limitandosi ad esiliare gli infedeli, gli arabi distrussero chiese e conventi e, soprattutto in oriente, chi riuscì a fuggire portò in salvo tesori e immagini sacre. Il tragitto di questi religiosi in fuga passò per l’Africa settentrionale per arrivare nell’Italia meridionale, in Sicilia e in Sardegna. Fu così che arrivarono quei monaci orientali che prima avevano i monasteri nella penisola anatolica, in Siria e in Palestina. Tuttora in Sicilia sono conservate moltissime testimonianze. Fino all’XI secolo rimane problematico risalire agli avvenimenti e possiamo parlare di periodo buio in Sardegna. Fa parte dell’impero bizantino ma l’organizzazione risente della lontananza di Costantinopoli e inizia una disgregazione. Progressivamente si formano i 4 giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura. Il giudicato di Cagliari è quello che cade per primo e verrà diviso fra i pisani, mentre nell’ultima fase arrivarono i catalani e gli aragonesi. C’è dunque un passaggio di culture perché si passa dai romani, ai vandali germanici, ai bizantini mediorientali, ai giudicati locali, ai pisani toscani e agli spagnoli.
Quando arrivarono i monaci orientali, il monachesimo era già conosciuto in Sardegna ma era di tipo occidentale. I primi arrivarono con Fulgenzio nel periodo dei vandali, uno dei 200 esuli, che introduce il monachesimo di tipo agostiniano. Il sistema si basa sulla preghiera, sul colloquio diretto con Dio, ma si lascia qualche spazio per il lavoro materiale e si lavora soprattutto nel campo culturale. Ci sono biblioteche e si copiano i codici.
Qualche decennio dopo, Gregorio Magno, con le sue lettere, influenzò molto il monachesimo, lasciando testimonianze di comunità monastiche che venivano fondate da privati cittadini nelle proprie case. Spesso si trattava di volontà testamentarie, ossia chi moriva offriva la propria casa affinché si fondasse una comunità maschile o femminile. Anche l’epoca di Gregorio Magno è attribuibile al monachesimo occidentale, in particolare di tipo cenobitico, dove le persone vivevano in comunità e non in solitudine. Il monachesimo greco è, già in partenza, ascetico. Nacque alla metà del III secolo e si sviluppò sotto Costantino, soprattutto nel deserto dell’Egitto. La spinta fu data dal fatto che Costantino che, quando fu eletto imperatore, introdusse la tolleranza religiosa, favorendo le cosiddette conversioni facili perché il cristianesimo diventò quasi una moda. Alcune persone non gradirono questa svolta perché vedevano cristiani non convinti e i più estremisti lasciarono le grandi città come Alessandria, uno dei poli culturali più importanti dell’antichità, per andare nel deserto. Non avendo di che vivere morivano facilmente e per sopravvivere costruivano delle piccole celle isolate, mentre non c’erano monasteri comunitari. Questo monachesimo ascetico è fatto di meditazione, contemplazione e preghiera, non era previsto il lavoro manuale. In seguito vennero fondate comunità simili a quelle occidentali ma l’aspetto ascetico rimase a lungo tempo.
Fra le testimonianze del monachesimo orientale in Sardegna è un’epigrafe in greco che risale all’età bizantina eseguita su un sarcofago romano più antico. Viene menzionata una “greca monastria”, interpretato come “monasteri greci”, ossia bizantini orientali. Abbiamo anche delle fonti scritte che ci parlano di comunità di monaci orientali a Cagliari, forse temporaneamente.
Un sito importante per il monachesimo orientale è in Egitto, si chiama “Abu Mina” e corrisponde a San Mena, dove attorno al primo monastero si è creata una città, che ha come fulcro una chiesa, il monastero e nelle immediate vicinanze una fonte alla quale i fedeli si recavano per risanarsi in quanto si attribuivano alla sua acqua proprietà mediche. Una delle testimonianze archeologiche è costituita da un’ampollina che raffigura San Mena vestito da militare. Morto in oriente, la leggenda vuole che alcuni soldati che dovevano andare a combattere vicino ad Alessandria portarono sopra un cammello il sarcofago con le reliquie del santo, ma lungo il tragitto l’animale si fermò in un punto ben preciso dove in seguito costruirono la chiesa. Infatti, san Mena è sempre rappresentato mentre prega fra due cammelli. Questa tipologia di ampolline è stata ritrovata anche in Sardegna, probabilmente portate da pellegrini. La circolazione di idee attraverso i viaggi è stata certamente una delle maggiori cause della diffusione del monachesimo orientale anche in Sardegna. Ai monaci orientali viene collegata una serie di luoghi per il tipo di intitolazione; ad esempio Elia era orientale e così viene chiamato il promontorio di Cagliari che da sul mare. In cima c’era un tempio fenicio dedicato ad Astarte ma già nell’Ottocento Giovanni Spano ricordava l’esistenza di un piccolo cenobio abitato da monaci orientali eremiti.
A Siligo c’è Santa Maria di Mesomundu, una chiesetta posta lungo la SS 131, inserita in un complesso termale romano. Di questo luogo abbiamo una notizia importante: quando il giudice di Torres nel 1063 chiese al monastero benedettino di Montecassino l’invio di alcuni monaci per portare in Sardegna la disciplina monastica. I monaci erano già in Sardegna da diversi secoli, ma non quelli benedettini, arrivati più tardi. Il primo luogo che ospitò questi benedettini fu proprio Siligo, che venne tolto ad una comunità orientale. Questa situazione avvenne anche in molti altri luoghi a causa della scissione che avvenne in quel periodo fra la chiesa orientale e quella occidentale. La chiesa di Roma si impegnò proprio nell’eliminare le comunità orientali e concedere le terre ai monaci occidentali, i benedettini. Forse anche la domus de janas di Sant’Andrea Priu, dove nell’ultimo ambiente ci sono una serie di decorazioni di ispirazione orientale, subì la stessa sorte.
Un’iscrizione ritrovata a Cagliari riporta le lettere Monachou ed è riferita certamente ad un monaco greco. Alcune comunità orientali riescono comunque a sopravvivere e ne abbiamo notizia fino al periodo giudicale finale.
San Basilio è un luogo importante per il monachesimo orientale. Importante luogo economico e strategico militare, con fertili terreni coltivabili, fu un importante granaio dell’isola. Costituiva una delle seconde linee di fortificazione dopo quelle costiere. Si è pensato che in questo luogo ci fosse una comunità di monaci orientali soprattutto per via del nome. Quando i monaci arrivarono, difficilmente si stabiliscono nelle aree urbane, mentre preferirono dei luoghi isolati dove dedicarsi prevalentemente alla contemplazione e alla preghiera nel silenzio. Inoltre, una delle attività principali di questi monaci diventerà l’agricoltura e quindi si stabilirono generalmente in campagna.



Basilio di Cesarea nacque in Cappadocia, ai confini con la Turchia nel 330, in pieno periodo costantiniano, e muore nel 379. La sua famiglia è cristiana e, oltre a rifugiarsi nel deserto, i monaci orientali facevano vita monastica anche in famiglia, assorbendone i primi insegnamenti. Grazie alla famiglia benestante studiò a Costantinopoli ed ebbe una notevole preparazione culturale. Gli autori classici (Cicerone ed altri), pur essendo pagani erano tenuti in grandi considerazione per lo stile e la retorica e, in alcuni casi, anche dal punto di vista etico. Nella capitale d’Oriente ebbe contatti con i vescovi e maturò esperienze che mise a frutto al ritorno nella città natale. Si staccò dai ruoli importanti e dagli incarichi politici e lasciò la famiglia per recarsi nel deserto, una costante dell’epoca. Venne sensibilizzato a questo tipo di vita e decise di dedicarsi alla vita monastica. Si accorse che non era possibile esprimere al meglio lo spirito monastico senza fare del bene agli altri. Dei monaci del deserto non condivideva lo spirito individualistico e decise di mettere in piedi una comunità, alla quale diede un taglio medico, ospitando i poveri e gli ammalati e fondando la cosiddetta “basiliade”, una sorta di città-ospedale, che diverrà in seguito il nucleo dell’attuale Cesarea. San Basilio ha scritto molte opere e ciò ha decretato la sua fortuna. Le più importanti sono: le regole morali (un manuale monastico) e le costituzioni monastiche (i principi della sua disciplina monastica). I principi fondamentali sono: i monaci sono tutti uguali, non esiste una gerarchia, devono vivere in povertà lasciando tutto al monastero; è previsto un coordinatore che amministra i beni (l’igumeno), offrono assistenza medica, copiano i codici, leggono le Sacre Scritture e pregano. Questa forma di monachesimo, mista fra eremitismo e vita comunitaria, trova fortuna anche in occidente e i monaci al loro arrivo vennero definiti basiliani. Solo con Papa Innocenzo III, intorno al 1200, l’ordine verrà codificato.

Le dediche delle chiese non sono mai casuali, le comunità agiscono per un martire o un santo legato alla comunità stessa; pertanto anche la chiesa di San Basilio è certamente dimostrazione di un legame fra questo monaco orientale e la comunità che si è creata intorno a lui.
Nel paese esistevano già delle strutture termali e gli scavi hanno mostrato ambienti romani di forma quadrangolare, vasche e canali per l’acqua. Nei tratti murari si notano elementi in mattone e in pietra. Il mattone non è comune in Sardegna, le costruzioni erano prevalentemente in pietra già dall’epoca nuragica; pertanto si tratta di materiale di importazione da Roma; infatti avevano il marchio “officine romane”. C’era anche una produzione in Sardegna ma era di poco conto. Una costante sembra essere l’uso del mattone per strutture termali. Quando arrivarono i monaci, alcune parti degli edifici erano crollate e le ricostruzioni furono eseguite in pietra, integrando i ruderi con murature eseguite con ciò che trovavano nelle vicinanze. Le terme sono sempre collegate ad altre strutture, spesso ville, perché i ricchi proprietari terrieri si facevano costruire residenze dove andare a trascorrere il tempo libero e le terme erano un bene di lusso. Essendo legate alla disponibilità dell’acqua durano nel tempo perché vengono utilizzate anche per altri scopi dalle comunità che si alternano nel tempo. Anche a Dolianova abbiamo la stessa situazione.

A San Basilio c’è una grande vasca e si notano modifiche strutturali degli edifici che suggeriscono varie attività legate al monastero. La villa ha diverse entrate mentre i monasteri sono luoghi chiusi e protetti, quindi si verifica spesso che gli accessi siano tamponati per la trasformazione da villa a monastero. La chiesa attuale di San Basilio è successiva al periodo dei monaci, ma è stata edificata dai monaci provenienti da San Vittore di Marsiglia, chiamati dal Giudice di Cagliari, anche se sicuramente la cappella dei monaci orientali si trova sotto le attuali strutture. Quando arrivarono ricevettero la chiesa di San Saturnino a Cagliari, che diventò la sede del priorato. Questa casa madre aveva una serie di filiazioni sparse nel territorio del Campidano fino ad arrivare nel Sulcis-Iglesiente. Attualmente San Basilio si presenta con un’unica navata ma all’inizio aveva due navate. Sono stati tamponati alcuni archi ed è stata aperta una finestrella. Le chiese a due navate sono molto comuni in Sardegna e in Corsica. Visto che nella liturgia latina la chiesa riproduce la forma della croce, normalmente si presenta con un unico lungo ambiente diviso in navate dispari, nel transetto si trovano l’altare e l’abside che rappresenta la testa della croce, dove stava la testa di Cristo. Le chiese a due navate non hanno centralità e ci si chiede il motivo di questa scelta. Essendo numerose, qualcuno ha pensato che una navata fosse dedicata al battesimo e l’altra alla liturgia, oppure che una delle navate fosse la cappella di un martire. Nel caso delle chiese monastiche si è ipotizzato che una delle navate fosse per i monaci e l’altra per i fedeli. A Cagliari, in Viale Buoncammino, c’è un’altra chiesa a due navate, dedicata ai santi Lorenzo e Pancrazio.
In conclusione possiamo affermare che una comunità di monaci orientali, vicina alle regole di San Basilio, si è stabilita nel territorio del paese di San Basilio, un luogo importante dal punto di vista militare ed economico. A Donori è stata trovata una lastra con scritte delle norme per i commercianti che dalla Trexenta si recava nel porto di Cagliari per vendere le merci. Sono menzionati vegetali e carne, e potevano essere consumati nella città o imbarcati per raggiungere mete lontane, ai tempi dell’imperatore Maurizio, quindi fra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, gli stessi anni in cui arrivano i monaci orientali. Resta ancora da dire che molti luoghi frequentati dai monaci orientali sono riconoscibili dalle pitture perché la simbologia e i soggetti sono caratteristici, pertanto quando gli archeologi sono fortunati e riescono a portare alla luce frammenti di intonaco o elementi che riportano tracce colorate si riesce spesso a ricostruire un pezzo di storia della comunità.


Fonte: Atti del convegno di San Basilio nella rassegna "Viaggi e Letture" a cura di Pierluigi Montalbano