Diretto da Pierluigi Montalbano

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venerdì 31 agosto 2012

I segreti sepolti di Cuma

I segreti sepolti di Cuma



Al termine della via sacra che porta all'acropoli di Pozzuoli, è stato scoperto un imponente monumento del VI secolo a.C. che potrebbe far riscrivere l'intera storia del sito. A effettuare questa importante scoperta è stata una squadra di studiosi di Lettere e Filosofia della Seconda Università degli Studi di Napoli, coordinati dal professore di archeologia classica Carlo Rescigno.
Gli archeologi e i ricercatori si sono avvalsi delle ricerche storiografiche che, negli anni '20 del secolo scorso, sono state condotte sul sito cumano ed hanno integrato queste ricerche con quanto è stato scoperto un anno fa. In questo modo sono riusciti a individuare, in modo inconfutabile, la presenza di un monumento risalente a 2.500 anni fa, coevo al vicino tempio attribuito a Giove.



Questa importante scoperta suffraga la teoria che vuole che sul punto più alto di Cuma, antica colonia greca inizialmente governata dal tiranno Aristodemo, la presenza di un complesso di edifici di culto che si dipanava lungo una sorta di via processionale. Al momento attuale sono emerse due porzioni di templi: quello di Giove e quello di Apollo, ma presto verrà riportato alla luce anche il nuovo edificio religioso. Chissà, a questo punto, quanti altri edifici si potrebbero trovare nascosti nelle viscere del promontorio campano.
Verosimilmente il tempio, inizialmente attribuito a Giove, era dedicato, invece, a una triade venerata a Cuma con un culto sia maschile che femminile che, durante l'epoca cristiana, si trasformò nel culto a San Massimo e Santa Giuliana. Nel corso dell'attuale campagna di scavi sono stati rinvenuti, sotto il tempio, tra le tombe protocristiane, proiettili di colpi di mortaio, cucchiaie divise militari del secondo conflitto mondiale.



Le tombe risalenti al periodo cristiano, scoperte nella campagna scavi del 2011, sono circa una trentina e sono state individuate nel tempio di Giove. Sono fosse a inumazione contenenti i resti dei primi cristiani e il loro corredo funerario. La pavimentazione del tempio è stata in parte divelta per riportare alla luce queste testimonianze della cristianità che vanno dal V secolo d.C. al 1200. Le fosse sono separate l'una dall'altra, ottenute scavando nella pavimentazione. Non tutte le sepolture sono state scavate, sono state riportate alla luce, per ora, solo quelle che sofisticate apparecchiature hanno permesso di classificare come particolarmente interessanti per la presenza di un corredo di pregio.
Si spera, ora, che siano stanziati i fondi per proseguire gli scavi e la riscoperta del volto antico dell'antica Cuma.

Fonte: Le Nebbie del Tempo
Nelle immagini: Alcune sepolture (esterno e interno) e una lastra tombale.

giovedì 30 agosto 2012

I primi gladiatori.

A Paestum i primi gladiatori



Nel 1967 ad Agropoli, in contrada La Vecchia, un contadino, arando nel suo campo, scoprì accidentalmente un'antica sepoltura. Gli archeologi della Soprintendenza per i Beni Archeologici di Paestum confermarono che si trattava di una tomba lucana, di notevole fattura, con pareti dipintee con un corredo funebre contenente vasi firmati da Assteas, un noto artigiano pestano, lo stesso che ha creato il famoso vaso del "Ratto di Europa".
Contemporaneamente alla scoperta di questa sepoltura, furono effettuate altre scoperte aPaestum, in contrada Andriuolo, dove venne alla luce un'intera necropoli lucana. Altre sono scoperte in località Arcioni, Gaudo, Laghetto. I dipinti delle pareti di alcune di queste sepolture ripetono gli stessi temi funebri della tomba lucana di Agropoli.
I Lucani conquistarono la greca Poseidonia tra la fine del V e l'inizio del IV secolo a.C. e la ribattezzarono Paistom. I Lucani s’insediarono su tutto il territorio, dal fiume Sele ad Agropoli, costruendo diverse fattorie agricole, tra le quali, con tutta probabilità, quella di contrada La Vecchia. La sepoltura trovata in questa località è divisa in due per consentire l'inumazione di marito e moglie ed è estremamente importante per l'elevata qualità delle pitture e del corredo funerario che fanno pensare ad un capo guerriero lucano. La tomba è stata datata dagli archeologi al 350-320 a.C.
Molti archeologi concordano nell'affermare, in base proprio a questi e ad altri ritrovamenti di tombe lucane, che i primi combattimenti tra gladiatori si sono svolti nel territorio pestano.

Nell’immagine: Uno degli affreschi pestani con lotta tra gladiatori
Fonte: Le Nebbie del Tempo.

mercoledì 29 agosto 2012

Tombaroli preistorici

Gli antenati dei tombaroli a Cnido


Il tholos di Cnido
Gli scavi nei pressi della tomba a tholos della città greca diCnido, ripresi dopo cinque anni di sospensione, hanno rivelato indizi di furto e saccheggio risalenti a 1800 anni fa. L'antica Cnido si trovava dove oggi sorge la modernaDatca.
Gli scavi degli archeologi dell'Università di Selçuk hanno accertato che alcuni elementi della tomba a tholos sono stati rubati o danneggiati già nell'antichità. "Abbiamo scoperto che i ladri antichi erano più veloci dei nostri contemporanei, nel predare le sepolture. Gli antichi tombaroli hanno svuotato il mausoleo 350 anni dopo la sepoltura dei primi proprietari dello stesso, nel IV secolo a.C.. Abbiamo trovato una candela, abbandonata, nella fretta della fuga, dagli stessi tombaroli, che hanno anche perso alcuni oggetti d'oro", ha affermato ildottor Ertekin Doksanalti.

Scavi a Cnido
Cnido fu costruita in parte in terraferma e in parte sull'isola di Triopion oCapo Krio. In epoca antica l'isola era collegata alla terraferma da una strada rialzata e da un ponte. Apparteneva all'Anatolia e sorgeva di fronte Alicarnasso. Fu fondata dai Dori del Peloponneso sotto la guida di Triopes e faceva parte della Esapoli dorica.
Dell'antica Cnido sopravvivono alcuni reperti monumentali, come le mura ciclopiche, i resti di due porti, due teatrie tracce di un grande edificio, forse un tempio. Sono stati identificati l'agorà, il teatro, un tempio di Dioniso, uno dedicato alle Muse, uno ad Afrodite ed un gran numero di edifici minori. Prassitele scolpì proprio per Cnido la sua statua più famosa, l'Afrodite di Cnido, sfortunatamente andata perduta. La sua copia più fedele si trova, ora, ai Musei Vaticani.
A Cnido era popolare il culto di Apollo, al quale era stato consacrato il promontorio Triopio.

Fonte: http://oltre-la-notte.blogspot.it

martedì 28 agosto 2012

Archeologia sotto le stelle a Cagliari, nel lungomare Poetto.

Appuntamento con la navigazione antica al Poetto.

Dopo il grande successo del primo incontro, sul tema "La Civiltà Nuragica", che ha registrato una uditorio di circa 130 persone, l'Istituto Universitario Sardo per le Tre Età, in collaborazione con il Consorzio Poetto Services, mercoledì 29 Agosto alle ore 20.15, organizza presso il chiosco-bar "La Lanterna Rossa" alla 5° fermata CTM del Poetto, il secondo incontro dedicato alla storia della Sardegna nuragica: il relatore, lo scrittore Pierluigi Montalbano, affronterà il tema della navigazione al tempo dei nuraghi.

Il presidente del Consorzio che coordina le attività dei baretti del Poetto, Sergio Mascia, sottolinea come la collaborazione con l'Istituto Universitario Sardo per le Tre Età costituisca una importante iniziativa che, dopo lo stentato avvio della stagione a causa delle note vicende sull'amianto, contribuisce non solo a rilanciare le attività e l'immagine delle attività dei propri consorziati, ma soprattutto offre ai cittadini una diversificazione delle attività che puntando sulla cultura, oltre alle ormai classiche iniziative musicali, offre un panorama di proposte in grado di soddisfare le più svariate esigenze.

L'iniziativa rientra tra quelle della manifestazione “Poetto: Sport & Village”, manifestazione contenitore giunta alla 9° edizione e che ha lo scopo di qualificare dal punto di vista culturale e turistico il Poetto di Cagliari.
Ingresso libero. Sarà possibile cenare con menù a 10 Euro.

Ecco un sunto di ciò che il relatore Pierluigi Montalbano, con l'ausilio di immagini e filmati, racconterà nella serata programmata per Mercoledì 29 Agosto al Poetto, nel chiosco "La Lanterna Rossa":

Il mare, fin dall’alba dei tempi, rappresenta una risorsa vitale per l’umanità. Le più floride civiltà si svilupparono in prossimità delle coste, laddove le risorse ittiche ampliavano la scelta dei prodotti commestibili e le foci dei grandi fiumi regalavano acqua dolce, terreni fertili e possibilità di trasporto su zattere.
Circa 15.000 anni fa lo scioglimento dei ghiacci provocò l’innalzamento del livello del mare di 150 metri costringendo l’uomo ad abbandonare le zone precedentemente occupate e sfruttate; uomo che, allo stesso tempo, affrontava la necessità di un rinnovamento delle tecniche di caccia, dovendo adattarsi all’estinzione dei grandi animali conseguente ad un profondo cambiamento climatico.
Sfruttando le conoscenze nautiche, acquisite in millenni di navigazione sottocosta, i più audaci si spinsero verso luoghi con clima mite, approdando in quei territori dove l’agricoltura poteva diffondersi.
In mancanza di testi scritti, le testimonianze archeologiche portate alla luce lasciano molti dubbi sull’origine dell’uomo neolitico. Conosciamo il suo “stile di vita” ma non riusciamo a capire a fondo i meccanismi che hanno comportato il più grande salto evolutivo della storia dell’uomo.
Uno degli indizi più efficaci per capire l’evoluzione degli antichi popoli del Mediterraneo è costituito dalle rotte navali dell’ossidiana, percorse almeno dal 10.000 a.C.
La capacità di addomesticare piante e animali, il culto dei defunti, le tracce architettoniche e la religiosità basata sulla Dea Madre arricchiscono il quadro d’indagine di questa serata,
Curiosamente, la civiltà più evoluta della storia marinara, la minoica, non aveva necessità di costruire fortezze difensive per proteggere i porti: i minoici dominavano il mare e nessuno osava aggredirli. Solo una catastrofe naturale, l’eruzione del vulcano Santorini, che colpì il centro nevralgico del loro impero, oscurò quella stella.
La serata si concluderà con un approfondimento su una delle più antiche e misteriose civiltà occidentali, quella nuragica. Porti e approdi della Sardegna costituiscono un esempio di civiltà costiera dell’epoca, capace di edificare oltre 8000 torri.

domenica 26 agosto 2012

Individuate le strutture di un porto di 2300 anni fa.

Il porto ellenistico di Acri
Ai piedi della diga marittima a sud di Acri, in Israele, sono state identificate le grosse pietre di kurkar che gli archeologi avevano cominciato ad individuare nel 2009.
Appartengono all’importante porto di epoca ellenistica (III-II secolo a.C.) della città.


Secondo Kobi Sharvit, direttore dell’Unità di archeologia marittima dell’Autorità Israeliana per le Antichità, “tra i reperti che abbiamo scoperto ci sono grosse pietre per gli ormeggi [...] Inoltre, abbiamo scavato grandi pietre squadrate che, apparentemente, appartenevano a grandi edifici o installazioni, in un’area di decine di metri. Ciò che emerge è il chiaro quadro di una distruzione sistematica e deliberata delle strutture portuali che si verificarono nell’antichità”.



Secondo Sharvit, è possibile che si trattasse di un porto militare: “Di recente c’è stato un ritrovamento che suggerisce che stiamo scavando una parte del porto militare di Acri. Una grossa sezione di pavimentazione in pietra – grande circa 8 metri x 2 – parzialmente esposta. Il pavimento è delimitato su entrambi i lati da due imponenti muri di pietra costruiti in stile fenicio. Sembra che il pavimento tra i muri sia leggermente inclinato verso sud, e inoltre alcune pietre erano crollate nel centro. Presumibilmente era uno scalo di alaggio, un impianto utilizzato per sollevare le barche sulla riva – in questo caso, probabilmente, navi da guerra”. Ma “solo ulteriori scavi archeologici confermeranno o invalideranno questa teoria”.
Stando a una prima analisi, molti dei vasi di ceramica ritrovati provengono dalle isole del Mar Egeo e altri porti del Mediterraneo.


“Fino a questi scavi la posizione di questo importante porto non era chiara”, dice Sharvit.
“Alcuni resti erano stati trovati alla base della Torre delle Mosche e nella regione del nuovo porto turistico. Ma ora, per la prima volta, le parti del porto sono state scoperte adiacenti all’antica costa e alla città ellenistica. Purtroppo, alcune parti della banchina continuano sotto le mura ottomane – parti che probabilmente non saremo in grado di scavare in futuro”.
“Tuttavia, gli scavi continueranno in quelle sezioni del porto che si estendono in direzione del mare e verso il porto moderno, nel tentativo di conoscere l’estensione del porto antico e per cercare di chiarire se c’è una connessione tra la distruzione nel porto e la distruzione portata da Tolomeo nel 312 a.C., dalla rivolta degli Asmonei nel 167 a.C. o da qualche altro evento”.
Autorità Israeliana per le Antichità

Fonte: Il fatto storico.

Dopo i Bronzi di Riace, ripescato nel Mar Ionio un antico tesoro.

Leone in bronzo ritrovato nel mar Ionio


Il mar Ionio, al largo della Calabria regala ancora sorprese archeologiche "mozzafiato". Dopo il ritrovamento dei Bronzi di Riace quarant'anni fa, oggi il mare ha fatto riaffiorare l'effige di un leone di bronzo, una statua e un'antica nave.
A Capo Bruzzano, tra Africo e Bianco, il mare ha fatto riaffiorare l'effige di un leone in bronzo mentre, nella sua profondità, conserva una statua bloccata dagli scogli, inizialmente scambiata per un'armatura, ed un'antica nave. A ritrovare l'effige è stato un appassionato di immersioni, Leo Morabito, mentre a distanza di circa trecento metri, altri due sub, Bruno Bruzzaniti e Bartolo Priolo, hanno individuato la statua e l'antica nave.
I tre sub raccontano che nell'area del ritrovamento del leone di bronzo il fondale è tappezzato da pezzi di vasi di ceramica multicolore ed a poca distanza si intravede una statua bloccata dagli scogli. La prima ipotesi è che i reperti ritrovati appartenessero al carico di una nave affondata proprio davanti alle coste calabresi. Il luogo ed il periodo di quest'ultimo rinvenimento, avvenuto proprio pochi giorni dopo l'anniversario dei 40 anni dalla scoperta dei Bronzi di Riace, il 1972, fa sperare che ci si trovi di fronte ad una nuova ed eccezionale scoperta. Da domani mattina i carabinieri del Gruppo sommozzatori di Messina si immergeranno per capire cosa si nasconde realmente sul fondale. L'area del ritrovamento, intanto, è stata interdetta alla navigazione ed è vigilata da una motovedetta della Capitaneria di porto di Reggio Calabria. L'effige del leone è alta circa cinquanta centimetri e pesa una quindicina di chilogrammi.
I carabinieri del Nucleo tutela patrimonio artistico di Cosenza hanno avviato un'indagine per presunte irregolarità nella procedura: il ritrovamento risalirebbe infatti al 16 agosto, ma le autorità non sono state informate nelle 24 ore successive, come impone la legge.
Anche la soprintendente ai beni archeologici della Calabria, Simonetta Bonomi, non avrebbe ancora avuto modo di vedere i reperti e sarebbe in attesa degli esiti delle indagini.

I Bronzi di Riace
Le due sculture furono ritrovate nel mare Ionio, a 300 metri dalle coste di Riace in provincia di Reggio Calabria, nell'Agosto del 1972. Il sub Mariottini scorge sul fondale un oggetto che inizialmente non riesce a identificare, si avvicina e scopre che dal fondo melmoso esce una mano in bronzo. Mariottini segnala il fatto alla Soprintendenza e una squadra di subacquei professionisti vennero inviati sul posto. Con l'aiuto di speciali apparecchiature i sub riportarono in superficie una statua di bronzo. Proseguendo l'indagine venne poi rinvenuta una seconda statua in bronzo. L’eccezionalità del ritrovamento fu subito chiara, date le poche statue originali di quel periodo che ci sono giunte dalla Grecia. Furono trasportate a Firenze dove fu curato il restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure, uno dei più specializzati laboratori di restauro del mondo. Nel 1980 furono esposte in una mostra, che ebbe un successo enorme, e quindi trasportate nel Museo archeologico di Reggio Calabria dove sono tuttora esposte.


I bronzi di Riace raffiguravano degli imponenti corpi maschili nudi, uno apparentemente più giovane e l'altro più maturo, la loro identità è restata all'inizio celata: le ipotesi su di essa si susseguirono sino ad arrivare a sostenere una loro provenienza greca come bottino riportato a seguito della conquista romana.

Nel 1994 archeologi, restauratori e tecnici dell'Istituto Centrale del Restauro e della Soprintendenza archeologica della Calabria hanno avviato un delicato progetto di restauro al fine di scongiurare la minaccia costituita dalla presenza al loro interno di residui di terra e di sali dannosi. Lo svuotamento delle statue, primo decisivo intervento, è stato eseguito con l'ausilio di una sofisticata strumentazione che ha permesso di entrare all'interno delle statue bronzee. L'esame ha rilevato la presenza all'interno della statua B di una seconda statua in argilla.

Dopo anni di ipotesi e di ricerche i due statuari guerrieri di bronzo sembrano aver ritrovato la loro originaria identità. Un recente studio ha rivelato il ruolo del bronzista Agelada di Argo, maestro di Mirone e di Fidia.
Lo storico dell'arte Paolo Moreno ha avanzato la tesi che gli autori dei bronzi fossero Agelada di Argo e Alcamene di Lemno, tale tesi è nata dallo studio comparato della decorazione del celebre tempio di Olimpia. Il bronzo denominato A sembra mostrare notevoli somiglianze con l'Atlante del tempio di Olimpia, realizzata presumibilmente da Alcamene.
Secondo lo storico il cosiddetto bronzo B sarebbe Anfiarao, indovino del re Adrasto, costretto, secondo la leggenda, a partecipare alla spedizione dei Sette a Tebe. Il bronzo A invece sarebbe Tideo altro eroe della spedizione. I due bronzi farebbero quindi parte di un gruppo statuario dedicato a celebrare la leggenda dei Sette a Tebe accompagnati dai loro discendenti ed epigoni. Secondo i versi di Eschilo, uno dei tre grandi tragediografi greci, Tideo insulta l'indovino Anfiarao, che si rifiutava di partecipare alla spedizione contro Tebe, visto che ne prevedeva l'esito negativo. Adesso i celebri bronzi non hanno solo un nome ma anche una leggenda alle spalle, che spiega la loro postura l'espressione sui loro volti.

L’analisi stilistica e quella scientifica sui materiali e le tecniche di fusione hanno entrambe determinato la differenza sostanziale tra le due statue: sono da attribuirsi a due differenti artisti e a due epoche distinte. Quella raffigurata a sinistra viene normalmente chiamata "statua A", mentre quella a destra "statua B". L’attribuzione odierna, in base ai confronti stilistici oggi possibili, è di datare la "statua A" al 460 a.C., in periodo severo; mentre al periodo classico, e più precisamente al 430 circa a.C., viene datata la "statua B".
Si tratta di determinazioni che possono ancora essere modificate. Al momento possiamo ritenere che si tratti di due atleti o di due guerrieri, raffigurati come simbolo di vittoria.
Entrambe le statue sono raffigurate nella posizione definita a chiasmo, presentandosi con una notevole elasticità muscolare. Soprattutto la "statua A" appare di modellato più nervoso e vitale, mentre la "statua B" ha un aspetto più rilassato e calmo. Ma entrambe trasmettono una grande sensazione di potenza, dovuta soprattutto allo scatto delle braccia che si distanziano con vigore dal torso. Il braccio piegato doveva sicuramente sorreggere uno scudo, mentre l’altra mano impugnava con probabilità un’arma. La "statua B" ha la calotta cranica modellata in quel modo perché doveva sicuramente consentire la collocazione di un elmo di stile corinzio, oggi disperso.
Le statue furono forse realizzate ad Atene e rimosse per essere portate a Roma, forse destinate alla casa di qualche ricco patrizio. Ma il battello che le trasportava affondò e il prezioso carico finì sommerso dalla sabbia a circa 8 metri di profondità. Non è da escludere che all’epoca fu già fatto un tentativo di recupero, andato infruttuoso così che le statue sono rimaste incastrate nel fondale per circa duemila anni, prima che ritornassero a mostrarci tutto il loro splendore.
Ma vediamo come venivano realizzate le statue in bronzo. La tecnica può essere sintetizzata in questi passaggi. Per prima cosa si modellava la statua in argilla. Su di essa, in una seconda fase, veniva collocato uno strato di cera, dello spessore di alcuni millimetri. Terza fase, il tutto veniva ricoperto da altra argilla o terra refrattaria, per costituire un blocco solido e resistente. A questo punto, attraverso un’opportuna serie di fori, praticati nel masso finale per giungere allo strato di cera, veniva colato il bronzo portato a temperatura di fusione (circa 1000° C). Il bronzo, infilandosi in questo masso composto all’interno e all’esterno della forma scolpita da terra refrattaria, andava naturalmente a collocarsi lì dove trovava la cera, la quale, a contatto con il grande calore del bronzo fuso, si scioglieva e colava da opportuni fori ricavati inferiormente. Quando il bronzo si raffreddava aveva preso tutto il posto dove prima era la cera. A questo punto si poteva liberare la statua di tutta la terra refrattaria che la ricopriva. Appariva la statua in bronzo, che però all’interno conteneva ancora l’argilla usata per la prima modellazione. Si aveva ovviamente cura di far sì che la forma non fosse totalmente chiusa, in modo da poter liberare la statua dell’argilla interna. Nel caso dei bronzi di Riace, ad esempio, le due figure sono aperte sotto i piedi, fori che ovviamente non si vedono quando le statue sono collocate in posizione eretta, e da questi fori fu possibile, con paziente lavoro, asportare l’argilla interna. Non tutta l’argilla si riusciva ad asportare, tanto che nel caso dei bronzi di Riace recenti interventi di restauro interno, condotti con microsonde radiocomandate, hanno permesso di asportare ancora un quintale circa di argilla che era rimasto negli anfratti interni delle due statue. Se le statue non erano fuse in un unico blocco, il lavoro risultava più agevole. In questo caso le parti venivano saldate a posteriori in punti appositamente studiati per non influire nella visione dell’opera. Questa tecnica era definita fusione "a cera persa". Di fatto questa tecnica messa a punto dai greci è la stessa che si usa ancora oggi, pur nella diversità dei materiali odierni e della evoluzione tecnologica, a dimostrazione che il modello di procedura era il migliore possibile.
Tale procedimento era dettato dalla imprescindibile necessità di realizzare statue che fossero cave all’interno. Se una statua in bronzo è di piccole dimensioni, nell’ordine di alcune decine di centimetri, si può ragionevolmente realizzarle a blocco pieno. In questo caso basta predisporre solo una forma cava al negativo, che fungesse da formatura della statua. Quando però una statua in bronzo raggiunge le dimensione di uno o due metri di altezza non è più possibile di realizzarle a blocco pieno. Primo perché richiederebbe molto metallo e ne verrebbe fuori una statua dal peso incredibile; ma secondo, il motivo di maggior ostacolo, è che una statua di così grandi dimensioni, una volta colata nella forma, nella fase di raffreddamento, per effetto della differente temperatura tra interno ed esterno con conseguente divario di dilatazione e contrazione, sarebbe sollecitata a tensioni interne così forti che ne determinerebbero automaticamente la distruzione.
Le statue in bronzo erano quindi internamente vuote. Questa circostanza permetteva di risolvere anche un problema particolare: far mantenere le statue in verticale risolvendo eventuali squilibri della forma finita con l’inserzione all’interno della statua di opportuni contrappesi che ne determinavano il giusto equilibrio. Quando però le statue in bronzo venivano copiate in marmo, il problema dell’equilibrio non poteva più essere risolto con contrappesi nascosti. In questo caso si ricorreva a diversi accorgimenti, quali, il più comune, era di inserire dietro le figure tronchi e arbusti che saldassero le membra inferiori in un unico blocco. In questo modo si alterava l’immagine finale, anche se ciò non produceva un risultato estetico del tutto negativo. Ciò è possibile notarlo in tante statue greche i cui originali in bronzo non ci sono pervenuti, perché sicuramente fusi per ricavarne il bronzo per altri usi, e di cui ci rimangono solo copie in marmo di età ellenistica o romana.





sabato 25 agosto 2012

Lingua etrusca e Professor Pittau

Sulla lingua etrusca:
ovvietà ignorate e contraddette
di Massimo Pittau



In Italia, negli ultimi 70 anni, in ordine allo studio della lingua etrusca sono state ignorate, trascurate e contraddette numerose e autentiche “ovvietà” di carattere linguistico e precisamente sono stati ignorati e non applicati alcuni procedimenti e metodi del tutto facili e perfino ovvi – per l’appunto -, che tutti i glottologi o linguisti storici propriamente detti siamo soliti applicare giorno per giorno nello studio di una qualsiasi lingua, appartenente a una qualsiasi famiglia linguistica.
L’ignoranza e la mancata applicazione di tali “ovvietà” metodologiche e procedimenti ermeneutici o interpretativi nello studio della lingua etrusca sono dipese da un fatto certo e chiaro: negli ultimi 70 anni lo studio della lingua etrusca è stato accaparrato, monopolizzato e governato dalla “scuola archeologica italiana”, cioè dagli archeologi della terra e dell’area geografica dove per l’appunto è fiorita la grande “civiltà etrusca”.
Sull’argomento c’è subito da precisare che gli archeologi – soprattutto quelli italiani – hanno un potere politico, organizzativo ed economico enorme, che nessun’altra categoria di studiosi di discipline umanistiche, filologi linguisti storici sociologi antropologi ecc., neppure lontanamente si sogna di possedere.
Innanzi tutto gli archeologi hanno un potere politico enorme, dato che, con strumenti giuridici alla mano, sono in grado di bloccare o trasformare piani regolatori di città, impedire o bloccare costruzioni private e pure di pubblica utilità, far deviare ferrovie, strade e autostrade, dichiarare autentici o falsi reperti che in conseguenza acquistano o perdono valore. E per questa ragione gli archeologi sono temuti, rispettati, vezzeggiati e aiutati dai politici e dagli amministratori pubblici di qualsiasi livello.
In secondo luogo, siccome gli archeologi sono i “custodi” di una notevole parte del “patrimonio archeologico-artistico” dell’Italia – che costituisce anche la sua più grande e più vera ricchezza economica – per questo loro ufficio essi ottengono grandi mezzi economici dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province, dalle Comunità Montane, dai Comuni e dalle Banche, mezzi economici coi quali essi sono in grado di organizzare, con totale loro autonomia e discrezione, scavi sul terreno, restauri di monumenti, mostre, convegni e stampare tutte le pubblicazioni e le riviste scientifiche che vogliono.
Nel 1985 è stato organizzato nelle aree dell’antica Etruria, Toscana Umbria e Lazio settentrionale, il II Convegno Internazionale Etrusco (il I era stato organizzato nel lontano 1929), al quale hanno partecipato ben 600 convegnisti provenienti da tutte le parti del mondo e in occasione del quale sono state aperte in differenti città grandi e belle mostre e stampata una serie di belle pubblicazioni sui vari aspetti della civiltà etrusca. Per la organizzazione di quel grandioso Convegno sembra che coi contributi finanziari dello Stato, delle regioni della Toscana, dell’Umbria, del Lazio e dell’Emilia Romagna, dei Comuni di varie grandi città, della Fabbrica Italiana Automobili FIAT e della banca Monte dei Paschi di Siena, si sia raggiunta la somma di 4 miliardi di lire italiane (si è pure parlato della somma di 14 miliardi, ma io non la credo esatta). In ogni modo si è trattato di una gran bella somma, con la quale non era poi tanto difficile organizzare un così grandioso convegno.
Per la stessa grande disponibilità di mezzi economici che amministrano, gli archeologi hanno un facilissimo accesso in tutte le grandi case editrici, le quali d’altronde sono sempre disponibili a pubblicare libri pieni di belle fotografie e di numerosi disegni dei monumenti archeologici. E per questo medesimo motivo gli archeologi hanno facilissimo accesso nei quotidiani e nei rotocalchi, con interviste concesse e con articoli stesi per la larga divulgazione.
Oltre a ciò nelle case editrici gli archeologi sono anche in grado di bloccare e boicottare pubblicazioni che non siano di loro gradimento. Espongo un caso personale: un noto e importante editore di Firenze si era dichiarato disponibile e felice di pubblicare la mia opera Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005), che comprende analizzato e spesso tradotto l’intero patrimonio lessicale della lingua etrusca che è stato rinvenuto e pubblicato sino all’anno 2005; e si trattava del primo e dell’unico vocabolario relativo alla lingua etrusca che esistesse. Di questo mio Dizionario della Lingua Etrusca Riccardo Ambrosini, professore di Linguistica nell’Università di Pisa, nonché Presidente della «Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti», nella quale mi aveva chiamato per tenere due conferenze, una sulla Tabula Cortonensis e l’altra appunto sul mio Dizionario, mi aveva scritto da San Lorenzo di Moriano in data 18.11.2005: «Carissimo Pittau, ho appena ricevuto il Tuo stupendo Dizionario della Lingua Etrusca e mi sono affrettato a leggerne alcune pagine che attraevano la mia immediata curiosità. Non posso non congratularmi con Te per la sapiente disposizione del materiale e per la prudenza di alcune proposte, che ben sottolinei nella chiarissima introduzione. (….) Complimenti vivissimi e, scusami una sentita invidia per questo Tuo magnifico lavoro, e, insieme con questi, i ringraziamenti più vivi e i saluti più cordiali. Tuo [firmato]». Senonché l’editore fiorentino fu dissuaso dal pubblicare quel mio Dizionario almeno da alcuni membri dell’”Istituto di Studi Etruschi ed Italici” di Firenze, scusandosi poi con me col dire che con quell’Istituto egli aveva rapporti continui ed organici...


Infine quelli che sono i “beni archeologici e artistici pubblici”, cioè appartenenti alla Nazione italiana, i direttori dei vari musei archeologici riescono spesso a renderli “privati”, tralasciando di mostrarli ad altri studiosi e adoperandoli invece per le loro pubblicazioni personali. Una dozzina di anni or sono il Soprintendente ai Beni Archeologici della Toscana, essendo entrato in possesso dei sette frammenti della ormai famosa Tabula Cortonensis, li tenne nascosti per più di cinque anni, per metterli finalmente in circolazione con una sua pubblicazione personale (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati, Sassari 2000, pgg. 41-42).
Ebbene, con tutto questo loro immenso potere politico, amministrativo ed economico non è stato difficile agli archeologi italiani accaparrarsi, monopolizzare e governare pure la lingua etrusca: essi sono in grado di organizzare e governare tutti i convegni sulla lingua etrusca che vogliono, scegliere gli oratori ufficiali, ovviamente escludendone quelli da loro non graditi, stampare pubblicazioni relative alla lingua etrusca, accettare oppure respingere gli studi linguistici dalle loro riviste – in particolar modo quella ricchissima di mezzi che sono gli “Studi Etruschi” di Firenze.
Infine – last but not least – gli archeologi ovviamente governano a loro totale piacimento, oltre che la assegnazione delle Soprintendenze Archeologiche regionali, le cattedre di Etruscologia nelle Università di tutta Italia, cattedre nelle quali essi si prefiggono e si illudono di saper insegnare pure la lingua etrusca, anche con l’ausilio didattico di alcuni manualetti, che io, autore pure della fortunata opera La Lingua Etrusca - grammatica e lessico (Nùoro 1997; sigla LEGL), non esito a definire “indecorosi”, dato che si limitano ad esporre nozioncine di lingua etrusca risalenti alla metà del secolo scorso.

1) Prima “ovvietà” ignorata, trascurata e contraddetta dagli archeologi italiani: non c’è uomo di cultura che non sappia e non capisca che tra l’archeologia da una parte e la glottologia o linguistica comparata e storica dall’altra esiste un oceano di differenze sia in ordine all’oggetto di studio sia in ordine ai metodi adoperati. Pertanto ogni e qualsiasi intervento che un archeologo – in quanto tale - tenti di effettuare in ordine allo studio della lingua etrusca è del tutto illegittimo, velleitario e destinato all’insuccesso.
E appunto dall’aver ignorato, trascurato e contraddetto questa prima, principale e pregiudiziale “ovvietà” sulla immensa differenza che esiste fra la archeologia da una parte e la glottologia o linguistica comparata e storica dall’altra sono derivate tutte le altre numerose “ovvietà” che sono state ignorate e contraddette dagli archeologi nello studio della lingua etrusca.

2) Della lingua etrusca si conservano più di 11 mila iscrizioni, con una documentazione di circa 8.500 vocaboli l’uno differente dall’altro. È doveroso ricordare che il contenuto documentario e quindi il valore ermeneutico od interpretativo di queste 11 mila iscrizioni è subito apparso agli studiosi notevolmente ridotto, quando si sono accorti che nella massima parte quelle iscrizioni sono funerarie e quindi ovviamente brevi e ripetitive. D’altra parte, nonostante questa grave difficoltà iniziale, le due cifre citate sono chiaramente enormi e di questo loro grande vantaggio possono godere meglio solamente due conosciutissime lingue antiche, il greco ed il latino.
E allora, col procedimento metodologico della “comparazione interna”, il reciproco confronto di differenti 8.500 vocaboli – se si fosse effettuato realmente e completamente - non avrebbe non potuto portare alla “decifrazione” del significato di numerosi vocaboli etruschi.
Riconosco che questo confronto di “comparazione interna” in effetti c’è stato, ma in misura assai ridotta e ha portato alla decifrazione di sole poche decine di vocaboli continuamente ricorrenti nelle iscrizioni etrusche; MI «io, me», CLAN «figlio», CLENAR «figli», SEX «figlia», PUIA «moglie», LUPU «morto-a», LUPUCE «morì, è morto-a», AIS, EIS «dio», AISER, EISER «dèi», SUTHI, SUTI «tomba, sepolcro», i numerali TU, THU «uno», ZAL, (E)SAL «due», CI «tre», MAC, MAX «cinque», SEMPH «sette, CEZP «otto», NURPH «nove», SAR, ZAR «dieci», ZATHRUM «venti», CIALXL «trenta», SEALXL «sessanta» e qualche altra decina di vocaboli.
Dunque, il procedimento della “comparazione interna” fra gli 8.500 vocaboli etruschi conservati è stato in questi ultimi 70 anni applicato dagli archeologi soltanto in misura assai ridotta. In maniera particolare essi si sono guardati bene dall’immettere nella “comparazione interna” anche il grande numero di antroponimi etruschi conservati (prenomi o nomi personali, gentilizi e soprannomi o lat. cognomina), del tutto convinti che questi non abbiano alcun valore ai fini della “decifrazione del significato” dei singoli vocaboli etruschi. E invece, nell’avere tralasciato di prendere in esame pure i numerosi antroponimi etruschi, gli archeologi - come mostrerò più avanti - hanno sbagliato e anche di grosso.

3) Ma assai più grave è stata la mancata “comparazione esterna” degli 8.500 vocaboli etruschi posseduti con altrettanti di altre lingue antiche e in maniera particolare ancora col greco e col latino.
Purtroppo i “numeri”, nonostante e a dispetto della loro precisione, si dimenticano con notevole facilità. In linea di fatto mi sembra di ricordare che sia dell’antica lingua greca, sia della lingua latina si conservino e si conoscano attualmente più di 100 mila vocaboli, cioè, sommati assieme, più di 200 mila; che è una cifra enorme, capace con ciò di offrire ai linguisti un vastissimo campo di ricerca e di comparazione.
Ciò premesso, considerato che Greci, Latini ed Etruschi hanno convissuto nel medesimo spazio geografico e per numerosi secoli insieme, è senz’altro assurdo ritenere che numerosi vocaboli della lingua etrusca, sconosciuti nel loro valore semantico o “significato”, non trovino esatto riscontro nei 200 mila vocaboli greci e latini, il cui “significato” invece è del tutto conosciuto. E si tratterà o di vocaboli greci e latini entrati nella lingua etrusca oppure di vocaboli etruschi entrati nella lingua greca o in quella latina. (Si deve pur finire di ritenere che un certo numero di vocaboli greci e latini siano entrati nell’etrusco e che nessun vocabolo etrusco sia entrato nel greco e nel latino; eventi di comunicazione e di scambio fra una civiltà e un altra non hanno mai un’unica e sola direzione!).
E allora la logica conseguenza di questa speciale e fortunata situazione linguistica generale sarebbe la seguente: il “significato” dei vocaboli latini e greci del tutto conosciuto dovrà essere il “significato” pure dei vocaboli etruschi corrispondenti. Pertanto il “significato” di tanti vocaboli etruschi si sarebbe in questo modo finalmente potuto “decifrare” e scoprire.
Sarebbero stati, questi, i logici e necessari risultati di una “ovvia comparazione esterna” fra l’etrusco, il greco e il latino, la quale invece non c’è stata, se non in una misura del tutto trascurabile.

4) Come è stato possibile che gli archeologi italiani, monopolizzatori della lingua etrusca, abbiamo ignorato e non applicato questo importante e indispensabile e quindi “ovvio” procedimento della “comparazione esterna” tra l’etrusco da un lato e il greco e il latino dall’altro? È stato possibile per la ragione che essi hanno accettato del tutto acriticamente la tesi secondo cui “L’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra”.
Questa stupefacente tesi era stata per la prima volta sostenuta dallo storico greco Dionisio di Alicarnasso (I 30, 2), che era vissuto qualche decennio prima di Cristo; sennonché egli non era affatto un glottologo o linguista, anche per il motivo che è stato necessario che dalla sua epoca passassero 1.800 anni prima che nascesse e si affermasse in Europa la glottologia come “studio comparato e storico delle lingue”.
In realtà la tesi secondo cui “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra” avrebbe avuto una fondatezza scientifica solamente a una condizione: che gli archeologi italiani avessero dimostrato di conoscere tutte le lingue di tutti i popoli che sono vissuti nel passato attorno al bacino del Mediterraneo; e conoscendole tutte e alla perfezione gli archeologi avrebbero potuto alla fine concludere con la loro tesi negativa. Senonché gli archeologi italiani non hanno mai dimostrato di possedere quella vastissima e approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui la loro tesi della "incomparabilità della lingua etrusca con una qualsiasi altra", ripetuta sino alla noia, era ed è del tutto destituita di fondamento. D’altra parte io ritengo che non sia esistito nemmeno un linguista propriamente detto che possedesse quella vastissima e approfondita competenza di linguistica storica, ragion per cui neppure alcun linguista sarebbe stato in grado di pronunziare e motivare tale tesi.
In effetti, quando gli archeologi hanno preso come buona e hanno divulgato la loro tesi dell’”etrusco lingua non comparabile con nessun’altra”, non solamente sono andati contro un’altra evidente e forte “ovvietà”, ma addirittura hanno invitato e imposto al linguista che avesse voluto partecipare ai loro convegni e a collaborare alle loro riviste a non far uso di quello che è lo strumento primo e principale della glottologia, la “comparazione” appunto.
Ovviamente è avvenuto che quasi tutti i linguisti, italiani e pure stranieri, non abbiano accettato questa sentenza e imposizione degli archeologi italiani, ma hanno pagato il loro rifiuto con la totale estromissione dalle grandi manifestazioni che gli archeologi hanno di volta in volta organizzato anche sul tema della lingua etrusca.

5) Ma la condanna pronunziata ed eseguita dagli archeologi del metodo della “comparazione” nello studio della lingua etrusca se n’è logicamente trascinata un’altra: la condanna della “etimologia” o del “metodo etimologico”. Questi sono vocaboli condannati, proibiti, esecrati nei convegni e nelle riviste degli archeologi rispetto alla lingua etrusca.
Ed io invece in primo luogo sostengo che essi commettono un grave errore non facendo un dovuta e importante distinzione tra la “comparazione” linguistica da un lato e la “etimologia” dall’altro. Se io confronto o connetto la glossa latino/etrusca Amphiles, Ampiles «maggio», cioè «mese dei pàmpini», col greco ámpelos «vite, vigna», io stabilisco semplicemente una “comparazione”; se invece io dicessi che l’appellativo etrusco “deriva” da quello greco oppure il contrario, allora sì farei una “etimologia”, che significa e implica appunto la “derivazione”.
Nella “comparazione” che io prospetto fra gli 8.500 vocaboli etruschi posseduti ma sconosciuti e i 200 mila greci e latini posseduti e conosciuti, è già molto importante fermarsi a questo stadio, dato che spesso ci consente di “decifrare” o acquisire appunto il “significato” dei vocaboli etruschi. Ma nessun può imporre a un linguista di non procedere oltre, di non adoperare anche l’altro importante metodo della sua ricerca, il “metodo etimologico”. E nell’esempio fatto nessuno potrà proibire a un linguista di prospettare la tesi che l’etrusco Amphiles, Ampiles «maggio», «mese dei pàmpini», greco ámpelos «vite, vigna», lat. pampinus «pàmpino» e (proto)sardo s'ampilare «arrampicarsi anche della vite» “derivano”, uno indipendentemente dall’altro, da un vocabolo della viticoltura del “sostrato mediterraneo e preindoeuropeo”.
Ed è questa un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli archeologi: il linguista ha il diritto e il dovere anche di tentare di trovare la “etimologia” dei vocaboli da lui studiati.
6) D’altra parte è un fatto che gli archeologi italiani in maniera unanime sostengono che per la lingua etrusca "non esiste alcun problema di decifrazione", poiché essa sarebbe stata già "decifrata del tutto". Ma anche con questa loro tesi essi non si accorgono di avere un concetto molto improprio e in parte errato della "decifrazione linguistica".
Per una lingua antica di cui si abbiano soltanto documentazioni scritte, senza cioè alcun riscontro in lingue odierne, in effetti esistono due differenti "decifrazioni", o, meglio, due differenti gradi di decifrazione. Il primo consiste nel "decifrare le lettere alfabetiche” o grafemi, cioè nel riuscire a trasformarli in suoni orali o fonemi, cioè nel riuscire a pronunziarli; e questo primo grado di decifrazione di certo è stato già effettuato per la lingua etrusca, la quale, in conseguenza dell'uso che gli Etruschi facevano dell'alfabeto greco, è ormai quasi perfettamente e totalmente leggibile o pronunziabile. Ma la vera e più importante "decifrazione" viene dopo, quella per cui dai grafemi si passa a capire quale effettivamente sia il significato che essi portano e nascondono, quella decifrazione per cui dai "segni grafici" si riesce a passare ai rispettivi "significati fattuali o concettuali".
È chiaro che il vocabolo e il concetto di "decifrazione" trae origine dalla pratica dei messaggi segreti, che vengono criptati e trasmessi con "cifre". Ebbene, in un ufficio di decifrazione militare, in cui mi sono trovato a operare durante l'ultima guerra mondiale, il nostro primo compito era quello di riuscire a "captare" esattamente le "cifre" dei messaggi cifrati del nemico, ma la vera decifrazione di questi messaggi veniva da noi effettuata solamente dopo, quando da quelle cifre captate riuscivamo a passare al messaggio che esse portavano e nascondevano, quando cioè riuscivamo a passare dai segni cifrati ai rispettivi fatti o concetti significati.
Ebbene, nonostante che gli archeologi monopolizzatori della lingua etrusca lo neghino con decisione, il problema della decifrazione di questa lingua sussiste tuttora e in larga misura. Noi leggiamo e pronunziamo in maniera quasi del tutto sicura tutti i vocaboli che compaiono nella iscrizioni etrusche, ma, a parte gli antroponimi, noi ignoriamo ancora l’esatto significato di centinaia di vocaboli etruschi.
7) Un’altra “ovvietà” ignorata e contraddetta dagli archeologi atteggiatisi a studiosi della lingua etrusca è quella relativa alla scelta iniziale del materiale di studio. Non occorre grande esperienza di studi linguistici per sapere e comprendere che le iscrizioni di una lingua antica sconosciuta tanto più facilmente sono traducibili quanto più sono lunghe. Nelle iscrizioni lunghe infatti le possibilità sia della “comparazione interna” sia della “comparazione esterna” dei vocaboli sono molto più numerose che non nelle iscrizioni brevi. Oltre ciò, nelle iscrizioni lunghe sono anche possibili gli emendamenti di eventuali errori dello scriba antico, mentre nelle iscrizioni brevi tali emendamenti sono quasi sempre impossibili. Inoltre nelle iscrizioni brevi – proprio per esigenza di brevità – si adoperano di frequente abbreviazioni, le quali spesso risultano indecifrabili perché fatte a casaccio. E non bastando ciò, la scoperta della “falsità” di una iscrizione lunga è enormemente più facile della scoperta della “falsità” di una iscrizione breve.
Tale nuova “ovvietà” dello studio preminente del testo lungo rispetto a quello breve avrebbe dovuto spingere gli archeologi ad affrontare innanzi tutto i testi etruschi lunghi posseduti, cioè il Liber linteus della Mummia di Zagabria che, tolte le numerose ripetizioni, presenta più di 500 vocaboli, la Tabula Capuana che ne presenta circa 190, il Cippo di Perugia circa 90, la Tabula Cortonensis circa 60; invece gli archeologi si sono buttati alle iscrizioni etrusche più brevi. Alcune delle quali certamente erano di facile interpretazione e traduzione, altre invece si sono rivelate subito di difficilissima interpretazione e traduzione.
Sarebbe troppo lungo e pure inutile mostrare le lunghe e intricate diatribe che gli archeologi hanno intrecciato intorno ad alcune brevi e brevissime iscrizioni etrusche, per le quali esisteva ed esiste anche la possibilità che sia intervenuto qualche errore da parte dello scriba antico e che qualcuna sia addirittura “falsa”.
D’altra parte, nell’ambito del linguaggio, è un fatto di facile constatazione che in generale i messaggi, quanto più sono brevi, tanto più corrono il rischio di essere ambigui o almeno poco comprensibili.

8) La scarsa rilevanza significativa dell’abbastanza ricco materiale linguistico etrusco fino a noi pervenuto è derivata anche dalla circostanza che molto di quel materiale è costituito da un numero assai elevato di antroponimi (prenomi, gentilizi e soprannomi) a fronte di un materiale lessicale (appellativi, verbi, avverbi, preposizioni e congiunzioni) assai più scarso.
Questa grave difficoltà costituita dal tipo di materiale linguistico etrusco conservatoci non si può né si deve negare, però c’era da effettuare in proposito una importante operazione, che invece non è stata neppure tentata: è ben vero che gli antroponimi si presentano a una prima analisi come “opachi”, nel senso che indicano o “significano” all’ascoltatore o lettore soltanto singoli uomini e singole famiglie, però i veri linguisti sanno che, analizzati a dovere, anche gli antroponimi possono diventare “trasparenti”, nel senso che possono rivelare anche il loro originario “significato”. In origine infatti anche gli antroponimi erano altrettanti “appellativi”, costituiti quasi sempre da sostantivi o aggettivi sostantivati, pure al diminutivo o all’accrescitivo, i quali indicavano o un dato anagrafico oppure una caratteristica, fisica o morale, dell’individuo denominato. Ad esempio, i cognomi italiani Cremona, Ferrara e Verona in origine indicavano la provenienza di una famiglia da una di quelle città; i cognomi Bianchi, Neri e Rossi indicavano, col plurale di famiglia, che i rispettivi individui erano o “bianchi” o “neri, bruni” o “rossi” di carnagione; i cognomi Forti e Gagliardi indicavano una qualità morale dei loro titolari; il prenome etrusco Larth significava «comandante, principe» (Cicerone, Phil., 9.4; Livio, IV.17.1) e l’altro Velthur «avvoltoio», ecc, ecc.
Dunque gli antroponimi, dopo una “opacità” iniziale, interrogati a dovere dal linguista finiscono per offrire anche una “trasparenza” di valore lessicale. E allora, anche il numero elevato di antroponimi documentati dalle iscrizioni etrusche, se fossero stati analizzati secondo le norme e le modalità della linguistica, avrebbero finito con l’offrire anch’essi numerosi e importanti elementi e spunti lessicali relativi alla lingua etrusca. Era, anche questo, un “procedimento linguistico ovvio”, che invece gli archeologi , sefacenti glottologi, hanno ancora una volta ignorato e contraddetto.

9) Fra i popoli della Penisola italiana coi quali gli Etruschi vennero in contatto, quello più vicino furono i Romani. Fra i secoli VIII e VI gli Etruschi e i Romani vissero quasi in una stretta simbiosi. Si deve infatti considerare che il fiume Tevere non era considerato allora al centro del Lazio, ma era considerato il confine fra i Romani e gli Etruschi appunto. Per questa ragione la stessa Roma non era considerata al centro del Latium vetus, ma era considerata una città di confine, fra l’Etruria e il Lazio appunto. Tanto è vero che lo stesso toponimo Roma molto probabilmente era etrusco, cioè una variante dell’appellativo ruma «mammella», indicando il grande “seno” o grande curva che il Tevere fa all’altezza dell’Isola Tiberina e inoltre che lo stesso nome del fiume molto probabilmente era etrusco. Non solo, ma all’epoca della monarchia vigente a Roma, la regnante dinastia dei Tarquini era di nazionalità etrusca e inoltre aveva retto la città non per qualche decina di anni come si pensa e si dice comunemente, ma per più di un secolo. Perfino le più antiche iscrizioni che sono state rinvenute a Roma sono in lingua e alfabeto etruschi e non in lingua latina.
Ebbene, nei lunghi e stretti contatti che gli Etruschi e i Romani ebbero soprattutto in epoca monarchica, è evidente e certo che siano intervenuti numerosi scambi di vocaboli fra le rispettive lingue e soprattutto di antroponimi. La qual cosa è stata luminosamente dimostrata dalla vecchia ma ancora importante e geniale opera di Wilhelm Schulze, Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen (1904), il quale ha evidenziato una vasta corrispondenza di antroponimi latini con altrettanti etruschi. Nella mia recente opera Dizionario della Lingua Etrusca (Sassari 2005) ritengo di avere – in virtù dei successivi rinvenimenti di nuove iscrizioni etrusche - notevolmente allargato il numero di quelle corrispondenze, arrivando al numero di circa 1.600 antroponimi etruschi che corrispondono, in maniera più o meno sicura, ad altrettanti antroponimi latini.
Ma – come ho accennato prima - anche i gentilicia e i cognomina latini, oltre che il loro valore propriamente antroponomastico, ne hanno pure uno lessicale e ne ho tratto la conclusione che il valore lessicale degli antroponimi latini è quello stesso dei corrispondenti antroponimi etruschi. Dunque la “comparazione” e connessione fra gli antroponimi latini e quelli etruschi ha consentito di allargare fino a circa 1.600 il numero di vocaboli etruschi di cui, più o meno, conosciamo ormai anche il valore lessicale e semantico, di allargare cioè il numero di vocaboli etruschi di cui abbiamo, più o meno, decifrato il valore semantico o “significato” prima ignorato.
Anche questo metodo di “comparazione” e d’interpretazione degli antroponimi etruschi era “ovvio”, però gli archeologi italiani atteggiatisi a linguisti l’hanno del tutto ignorato e trascurato.

10) È cosa molto nota che gli Etruschi, nella loro qualifica largamente riconosciuta dagli antichi, di popolo “molto religioso” (che significava anche “molto superstizioso”; erano già soliti fare, per scaramanzia, le corna con le dita), influenzarono parecchio la religione dei Romani. Sia sufficiente ricordare che della Triade Capitolina dei Romani, solamente Giove era propriamente romano, mentre le due altre divinità femminili Giunone e Minerva erano certamente di origine etrusca. Era pertanto un’altra ovvietà linguistica supporre che per i profondi influssi etruschi sulla religione romana fosse entrata nella lingua latina anche tanta parte della relativa terminologia religiosa degli Etruschi. E questo ingresso della terminologia religiosa etrusca nella lingua latina era logico e “ovvio” supporlo e appurarlo nei più lunghi testi che possediamo della lingua etrusca, il Liber Linteus della Mummia di Zagabria e nella Tabula Capuana, dei quali si era subito compreso che si trattava per l’appunto di “testi religiosi”.
Ma gli archeologi italiani hanno tralasciato anche di tentare di effettuare quest’opera di ricerca e di controllo, dato che si erano guardati bene dall’affrontare i grandi testi della lingua etrusca, mentre – come ho già detto - si sono scervellati nella interpretazione e nella traduzione delle sole iscrizioni brevi.
Invece io mi sono buttato nello studio approfondito proprio dei lunghi testi religiosi etruschi, facendo perno appunto nella convinzione che almeno una certa parte della loro terminologia religiosa corrispondesse esattamente a quella latina. E i risultati da me ottenuti con questa prospettiva metodologica ed ermeneutica sono andati molto al di là delle mie più rosee speranze, ottenendo come risultato finale che nella mia recente opera I Grandi Testi della Lingua Etrusca tradotti e commentati (Sassari 2011) io abbia mandato avanti la più ampia interpretazione e traduzione che sia stata finora effettuata di quei testi religiosi.

11) È cosa molto nota che il padre della storiografia occidentale, il greco Erodoto (484-425 a. C.), in un suo passo molto famoso (I 94), racconta che gli Etruschi dell’Italia non erano altro che la metà della popolazione della Lidia - terra dell’Asia Minore o Anatolia, posta al centro della costa del Mar Egeo - la quale era dovuta emigrare a causa di una grave carestia durata ben 18 anni. Questo racconto di Erodoto fu in seguito confermato e anche arricchito di particolari da altri 30 autori greci e latini, mentre fu contrastato dal solo storico greco, Dionisio di Alicarnasso, il quale invece sostenne la tesi secondo cui gli Etruschi erano originari della stessa Italia, erano cioè “autoctoni”. Dionisio era vissuto quattro secoli dopo Erodoto e quindi assai più tardi degli avvenimenti narrati ed inoltre era stato sostanzialmente ostile agli Etruschi, dei quali contestava l’apporto alla potenza di Roma, per attribuirla invece ai Greci.
Ebbene, era logico e “ovvio” che tra i 31 antichi autori greci e latini (Erodoto + 30) favorevoli alla tesi migrazionista degli Etruschi e uno solo – e per di più “sospetto” – favorevole alla tesi autoctonista, gli archeologi italiani dovessero optare per la tesi dei primi, e invece optarono per la tesi del secondo. Bell’esempio, questo, di grande “acribia storiografica”, nuovo macroscopico episodio di “ovvietà” metodologica ignorata e contraddetta: optare per la testimonianza di un solo teste e disattendere quella di altri 31 testi!
E, ad iniziare dagli anni Cinquanta del secolo scorso fino al presente, fra gli archeologi italiani regna sovrana questa tesi: «non esiste il problema dell’origine degli Etruschi, dato che essi erano esclusivamente di “formazione” italiana, erano cioè “autoctoni”!
E tutto questo si sostiene da parte degli archeologi, nonostante che alcuni linguisti stiamo da anni dimostrando numerose connessioni esistenti fra la lingua etrusca da un lato e alcune lingue dell’Asia Minore dall’altro!

12) A iniziare dal 1947, col suo libro L'origine degli Etruschi (Roma 1947), Massimo Pallottino, capo della scuola archeologica italiana, non ha più voluto che si parlasse della "origine degli Etruschi" e, di fatto, almeno qui in Italia non se n’è più parlato per numerosi decenni. Secondo lui, quello della "origine degli Etruschi" sarebbe un problema privo di senso, come lo sarebbe quello della "origine dei Francesi". L'ethnos etrusco - egli ha ragionato - è nato e si è sviluppato, cioè si è "formato" soltanto in Italia, proprio come la civiltà francese è nata e si è sviluppata, cioè "formata" soltanto in Gallia.
Questo concetto della "formazione della civiltà etrusca" avvenuta soltanto in Italia, analogo a quello della "formazione della civiltà francese" avvenuta soltanto in Francia, è stato un punto assolutamente fermo e indubitabile, il quale ha condizionato dal 1947 in poi quasi tutti gli studi relativi alla civiltà etrusca e perfino quelli relativi alla lingua etrusca. Eppure con un po' di attenzione si sarebbe potuto vedere che quel concetto di "formazione" aveva un suo punto debolissimo: era sufficiente osservare che, pur concedendo che "la civiltà francese si è formata soltanto in Francia", niente vieta a uno studioso di mettersi il problema delle "origini" degli elementi che hanno contribuito alla formazione della civiltà francese, e precisamente il problema della "origine dell'elemento latino" che proveniva dall'Italia e il problema della "origine dell'elemento franco" che proveniva dalla Germania. In maniera analoga, pur concedendo che "la civiltà etrusca si è formata in Italia", niente vieta a uno studioso di mettersi il problema della "origine dell'elemento orientale" che è presente in maniera evidente e massiccia nella civiltà etrusca (giustamente è stato chiamato "l'Orientalizzante") e che proveniva dalla Lidia nell'Asia Minore.
In conseguenza la scuola archeologica italiana ha sempre insistito sulla perfetta continuità che si constaterebbe tra l'antica cultura villanoviana dell'Italia centrale e la successiva civiltà etrusca, mentre l'illustre storico della civiltà antica Jean Bérard (La Magna Grecia - storia delle colonie greche dell'Italia meridionale, Torino 1963, pg. 493) ha fatto osservare che "La civiltà etrusca dell'età storica si afferma in opposizione a quella villanoviana nel cui seno si sviluppa; e nulla è più diverso e contrastante dalle povere tombe a incinerazione del periodo villanoviano delle ricche camere funerarie del periodo etrusco vero e proprio".

13) Esistono abbastanza numerose e abbastanza evidenti connessioni culturali e linguistiche che legano con l’Asia Minore od Anatolia anche la antica civiltà dei Sardi Nuragici della Sardegna, quella che è stata la prima “civiltà” dell’Italia, dato che ha preceduto quella degli Etruschi di ben quattro secoli (XIII-IX avanti Cristo). Esistono inoltre alcuni accenni di antichi storici greci, dai quali emerge che pure i Sardi Nuragici provenivano – proprio come gli Etruschi – dalla già citata Lidia, nell’Asia Minore. Ed è pure assai probabile che i Sardi abbiano derivato la loro denominazione e quella della loro terra Sardò-Sardinia dal nome di Sardis o Sardeis, capitale della Lidia.
Connessioni culturali tra i Sardi Nuragici e gli Etruschi erano già state ritrovate e indicate da parecchi decenni: tholos o “cupola” di tombe etrusche simile a quella delle torri nuragiche; navicelle funerarie – di lontana origine egizia - ritrovate in tombe etrusche, del tutto simili a quelle nuragiche; statuine in bronzo etrusche di sacerdoti, sacerdotesse, fedeli e animali simili a quelle nuragiche, armi etrusche simili ad armi nuragiche.
Queste strette connessioni culturali fra gli Etruschi e i Sardi Nuragici trovano la loro spiegazione nella importante circostanza che la Sardegna era ed è a un tiro di schioppo dall’Etruria. Per gli abitanti delle città etrusche della costa tirrenica – che erano quelle più antiche – Cerveteri, Tarquinia, Vetulonia e Populonia era molto più facile, veloce e sicuro raggiungere la Sardegna che non le città etrusche del Mar Adriatico, Spina e Adria.
E nonostante quest’altra “ovvietà” delle strette ed evidenti connessioni culturali e di vicinanza geografica, quando con la mie prime opere La lingua dei Sardi Nuragici e degli Etruschi e Lessico Etrusco-Latino comparato col Nuragico (Sassari 1981, 1984), segnalai l’esistenza anche di connessioni linguistiche fra i relitti della lingua dei Sardi Nuragici con quella degli Etruschi, gli archeologi italiani non si dettero la briga di prestare alcuna attenzione. Non obiettarono nulla, ma stesero sull’argomento un velo di totale silenzio.
Soltanto un archeologo dell’Università di Perugia intervenne con un suo articolo pubblicato in un quotidiano romano per “distruggere” il mio libro. Gli replicai subito dimostrandogli che non aveva nessuna competenza per giudicare un libro di linguistica storica e che – assai peggio – non lo aveva neppure letto! Qualche anno dopo lo stesso personaggio ha ritenuto di intervenire sulla mia traduzione della Tabula Cortonensis, dimostrando però di nuovo totale incompetenza linguistica, tanto da non conoscere la differenza tra il “genitivo soggettivo” e il “genitivo oggettivo” (cfr. I Grandi Testi cit., Capo 3°, pg. 129).

14) Nella tesi pregiudiziale unanimemente e acriticamente accettata dagli archeologi italiani, secondo cui “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra” era ed è implicita l’altra tesi secondo cui “l’etrusco non è una lingua indoeuropea”.
È del tutto evidente e ancora “ovvio” che per affrontare questo argomento sulla indoeuropeità o meno della lingua etrusca occorre possedere una molto ampia e molto profonda preparazione glottologica, cioè di “linguistica storica e comparativa”; cosa che evidentemente non appartiene affatto alla preparazione scientifica di un archeologo. E ciò nonostante la tesi o la pregiudiziale della “non-indoeuropeità dell’etrusco” è forse quella più ampiamente e più comunemente sostenuta e ripetuta dagli archeologi italiani.
Eppure non sono pochi né poco autorevoli i glottologi che invece hanno sostenuto la tesi della indoeuropeità dell’etrusco: W. Corssen, S. Bugge, I. Thomopoulos, E. Vetter, A. Trombetti, E. Sapir, G. Buonamici, E. Goldmann, P. Kretschmer, F. Ribezzo, F. Schachermayr, A. Carnoy, V.I. Georgiev, W.M. Austin, R.W. Wescott, F.C. Woodhuizen, F. Bader, F. R. Adrados, ecc. ed a questa schiera si unisce anche l'autore del presente studio.
Premetto che è abbastanza noto che la scoperta dell’unità linguistica indoeuropea è stata storicamente e primariamente conseguita per la constatazione che i numerali della prima decade di molte lingue risultano corrispondersi fra loro. Ebbene, per parte mia ho perfino dimostrato che per l’appunto anche quasi tutti i numerali etruschi della prima decade corrispondono a quelli di altre lingue indoeuropee (cfr. M. Pittau, Tabula Cortonensis - Lamine di Pirgi e altri testi etruschi tradotti e commentati cit., capo 5 ; che si può leggere anche nel mio sito www.pittau.it).
Oltre ciò io ho avuto modo di mostrare e sottolineare la straordinaria e piena convergenza che si constata fra la lingua etrusca e altre lingue indoeuropee sui seguenti punti (LEGL § 5):
a) congiunzione enclitica etrusca –c, –ca, –ce uguale a quella sanscrita –ca e latina –que (Senatus Populus-que Romanus) (LEGL § 110).
b) morfema –s del genitivo singolare etrusco uguale a quello del latino, del greco e di altre lingue indoeuropee (LEGL § 48).
c) desinenza del participio presente etrusco -nth (AMINTH «Amante», CLEVANTH «offerente», NUNTHENTH «orante») uguale a quella -nt- del latino e del greco (LEGL § 124).
d) desinenza del preterito etrusco –ke, -ce uguale a quello greco –ke: etr. TURICE, TURACE, TURUCE, TURCE, TURKE «donò, ha donato» da confrontare col greco dedórheke «donò, ha donato». .
e) desinenza del locativo etrusco -t(e), -t(i), -th(e), -th(i) uguale a quello greco, anche se raro, óikothi «in casa», thyrhethi «alla porta, fuori», Ilióthi «in Ilio» (LEGL § 59).
f) avverbio etrusco TUI «qui» uguale a quello greco tyi «qui» (LEGL § 109).

Potrebbero queste sembrare convergenze di scarsissimo rilievo, data la ridottissima consistenza fonetica di quei morfemi e di quest’avverbio, ma al contrario si deve rimarcare la loro forte consistenza dimostrativa, posto che, per la “norma dell’economia” che – come è noto – gioca un ruolo enorme anche nel campo delle lingue, i fatti linguistici più frequenti e cioè più importanti sono quelli che hanno la struttura fonetica più breve e semplice (LEGL § 48).
E soprattutto si deve rimarcare che quelli citati sono fatti linguistici relativi non al lessico, in cui i prestiti tra le lingue sono molto frequenti, bensì alla “morfologia”, in cui i prestiti sono rarissimi.
Dunque anche quest’ultima e assai consistente “ovvietà linguistica” è stata ignorata e contraddetta dagli archeologi italiani, che presumono di essere in grado di trattare anche di problemi della “lingua etrusca”: la loro preparazione scientifica di fondo non consente loro di intervenire per nulla sulla questione della indoeuropeità o meno della lingua etrusca.

15) Con una così lunga serie di “ovvietà” relative a specifiche competenze scientifiche, a esatti procedimenti linguistici, - metodologici ed ermeneutici -ignorate, trascurate e contraddette, era logico e necessario che la scuola archeologica italiana, monopolizzando la lingua etrusca, finisse col determinare quello che indubbiamente è stato il più grande “fallimento filologico-linguistico” che ci sia mai stato in tutta la storia delle discipline filologiche e linguistiche, ad iniziare dalla filologia alessandrina fino al presente. E si tratta di un “fallimento” che va avanti ormai da 70 anni e neppure accenna a diminuire!
In questo preciso modo e per questi esatti motivi si spiega un fatto che nell'apparenza poteva finora riuscire del tutto inspiegabile: lingue antiche scoperte in tempi recenti e documentate con scarse e poco consistenti iscrizioni o brani di iscrizioni, nel giro di qualche decennio sono state dai linguisti decifrate, tradotte e classificate. È il caso delle seguenti lingue: sumero, ittito, hurritico, urartaico, elamitico, ugaritico, licio, lidio, frigio, ecc. Invece rispetto alla lingua etrusca, documentata da circa 11 mila iscrizioni e anche con testi abbastanza consistenti come il Liber linteus e la Tabula Capuana, i progressi ermeneutici e di studio effettuati dalla scuola archeologica italiana in questi ultimi decenni sono stati quasi impercettibili. La grandezza di questo “fallimento culturale” è proprio direttamente proporzionale al grande potere politico, organizzativo ed economico che gli archeologi italiani posseggono e di cui si servono ampiamente.
A questo punto sorge spontanea e doverosa la domanda: come si sono comportati in questo settantennio e come si comportano attualmente rispetto alla lingua etrusca i glottologi o linguisti propriamente detti?
Qualche linguista si è allineato del tutto alle posizioni degli archeologi ed è stato da questi accolto bene in tutte le loro iniziative, convegni, pubblicazioni e riviste, e assieme a essi condivide la gloria e il potere.
Qualche altro linguista ha tentato di entrare nel mondo dell’etruscologia italiana, ma con tesi linguistiche non perfettamente allineate con quelle degli archeologi, col risultato però che non ha avuto fortuna e si è dovuto ritirare dal campo. Comincio col citare il caso del glottologo Marcello Durante, autore dell’importante studio Considerazioni intorno al problema della classificazione dell'etrusco - "Parte Prima" (in "Studi Micenei ed Egeo-Anatolici", VII, 1968, pgg. 7-60), nel quale connetteva la lingua etrusca con antiche lingue anatoliche e nel quale c'era l'annunzio di una successiva "Parte Seconda". Avendo un giorno chiesto al collega Durante quando sarebbe comparso il secondo studio già da lui preannunziato, mi rispose, molto amareggiato, che aveva rinunziato del tutto a quella sua idea dopo che aveva constatato la totale indifferenza con cui gli archeologi italiani avevano accolto il suo primo studio...
E assoluta indifferenza hanno manifestato gli archeologi italiani per uno studio di un altro glottologo specialista in lingue anatoliche, Onofrio Carruba, L'origine degli Etruschi: il problema della lingua (Atti VI Convegno Internazionale di Linguisti, Milano 1974 Brescia 1977, pgg. 137-151), il quale, pure lui, connetteva l'etrusco anche con antiche lingue dell'Asia Minore. Anzi, mentre mi è capitato di vedere citato qualche volta da parte degli archeologi italiani il citato studio di Marcello Durante, su quello del Carruba è calato un silenzio totale. E se ne capisce il motivo di fondo: il Carruba aveva osato trattare esplicitamente il tema della origine degli Etruschi, che era un tema proibito e scomunicato dalla scuola archeologica italiana...
Né migliore sorte hanno avuto in epoca successiva altri linguisti che hanno riportato la lingua etrusca al quadro delle antiche lingue dell'Asia Minore: Vladimir I. Georgiev, La lingua e l'origine degli Etruschi (1979), e Lydiaka und Lydisch-Etruskische Gleichungen (1984); e Francisco R. Adrados, Etruscan as an IE Anatolian (but not Hittite) Language (1989) (in "The Journal of Indo-European Studies", Washington 1989, Monograph no. 5, pgg. 363-383. E infine il sottoscritto, glottologo che ha scritto più di tutti sulla lingua etrusca (12 libri e un centinaio di studi) e che nella sua ricerca e analisi ha coinvolto l’elevato numero di circa 1.000 appellativi, 2.500 antroponimi e 1.600 testi etruschi: totale indifferenza da parte degli etruscologi-archeologi, assoluto silenzio da parte loro!
Però c’è da affermare e da deprecare che in generale i linguisti, italiani e stranieri, sono stati e si sono tenuti da parte rispetto alla lingua etrusca, ovviamente intimoriti dallo strapotere degli archeologi e dall’ostracismo da loro esercitato nei confronti degli “eretici”.
Ma probabilmente ancora più grave è il “fallimento culturale” relativo alla lingua etrusca, provocato dagli archeologi. rispetto alla grande massa di lettori e di appassionati, che sono numerosissimi in Italia e in Europa: per effetto della tesi pregiudiziale degli archeologi circa il fatto che “l’etrusco è una lingua non comparabile con nessun’altra”, corre nel grande pubblico intellettuale e perfino fra gli insegnanti di ogni scuola e ordine, il grave pregiudizio secondo cui la “lingua etrusca è tutta un mistero”, “la lingua etrusca è una “sfinge impenetrabile”, della quale non si è finora riusciti a “decifrare” assolutamente nulla…
E questo pregiudizio che corre nel grande pubblico intellettuale se ne trascina un altro addirittura più grave e molto pittoresco: nella stampa quotidiana, nei rotocalchi, nelle trasmissioni delle varie televisioni, almeno ogni semestre si fa avanti un nuovo genialoide “scopritore della chiave di decifrazione dell’etrusco”. Ed egli si gode per alcuni mesi la fama e la gloria mediatica, fin tanto che queste sono oscurate dopo qualche tempo da un novello “scopritore della chiave di decifrazione dell’etrusco”….
Questi sono dunque i risultati effettivi del monopolio e del governo che della lingua etrusca ha fatto una categoria, anzi una “casta” di individui tanto potenti, che riescono a far passare per “competenza linguistica” e a millantarla quella che non lo è affatto!

Massimo Pittau
Professore Emerito dell’Università di Sassari

Nota bene: i necessari riferimenti bibliografici si possono trovare nello scritto dello stesso autore 50 anni di studi sulla lingua etrusca in Italia, che si può leggere anche nel sito internet dell’Autore.

venerdì 24 agosto 2012

San Vero Milis, crolla la torre Scab 'e Sai

San Vero Milis, crolla la torre Scab 'e Sai



La campagna di recupero è partita in ritardo e non si è riusciti a salvare la famosa torre costiera Scab 'e Sai, di San Vero Milis, sulla costa oristanese, per la quale era stata lanciata una campagna di recupero con l'intervento della Conservatoria delle Coste della Sardegna.
Per salvarla era stato deciso di arretrarla di venti metri per evitare che cascasse in mare, stante l'erosione della falesia (quella che precede il canale Is Benas e la spiaggia di Is Arenas).


Oggi però gran parte della torre è crollata in mare. Sul posto sono intervenuti i Vigili del Fuoco e la Polizia municipale insieme col sindaco di San Vero Milis. L'allarme sulle condizioni precarie dell'antica torre di epoca aragonese era stato lanciato dagli ambientalisti e da alcune associazioni culturali e subito raccolto dalla Conservatoria delle Coste. Ma evidentemente si era già perso troppo tempo.


Foto prima del crollo:
in alto di "ASSOCIAZIONE INCONTRA LA CONSERVATORIA DELLE COSTE"
in basso di http://it.wikipedia.org/wiki/File:San_Vero_Milis_%E2%80%93_Torre_di_Scab'e_Sai_(2).JPG

giovedì 23 agosto 2012

Sarepta, città industriale dei fenici.


Sarepta, un sito industriale fenicio
di Pierluigi Montalbano

È un centro minore, situato nel promontorio di Rassel El Cantara, 13 km a sud di Sidone che probabilmente controllava questo villaggio. Non ha subito l’insediamento urbano ed è stato dunque indagato a fondo. Il termine Sarepta deriva da una radice semitica ed è un verbo legato all’attività industriale: significa bruciare qualcosa, pertanto già il nome della città è eloquente.
Nel 1800 era stato scoperto un torso maschile del IV a.C. in pietra che riproduce una divinità con simboli egizi e orientali: gonnellino egizio e pettorale in cui è appeso un ciondolo, un simbolo astrale costituito dalla falce lunare che sormonta il disco solare. La città conosce un occupazione ininterrotta dal 1600 a.C. fino ad età ellenistica, quando il sito fu abbandonato. Gli scavi americani del 1964-1974 hanno portato alla luce strutture abitative, un tempio rettangolare e un quartiere artigianale.
Il tempio è uno dei pochi esempi mediterranei che possiamo vedere in oriente. L’edificio è localizzato fuori dall’abitato e si conserva per un alzato minimo, giusto un filare. Sono state ricostruite varie fasi dell’impianto: è del VIII a.C. e ha vissuto fino ad età ellenistica (IV a.C.). Presenta un ingresso non in asse. Nel mondo antico c’erano sia templi longitudinali con ingresso in asse, sia templi con ingresso laterale.
Attorno ai lati perimetrali si nota la presenza di un bancone destinato alla deposizione delle offerte. I templi semitici sono piccoli, spesso inseriti in santuari, e presentano edifici non destinati a ospitare i fedeli durante le liturgie celebrate. I banconi servivano per ospitare le offerte votive che i fedeli portavano al tempio per dedicarli alle divinità. Gli edifici più grandi sono posteriori, caratteristici delle civiltà greca e romana. Sul lato breve si trova un altare costituito da varie lastre e foderato in pietra. Al centro si presenta una lastra in pietra con un foro, che consentiva alle offerte liquide di penetrare all’interno della terra sottostante e di essere accolte dalle divinità. Davanti all’altare c’è una fossa nel pavimento che in origine ospitava un pilastro sacro non strutturale, in legno, legato al culto, simbolico, simile a quello esterno che troviamo nel tempio di Melkart a Tiro. Annesso all’edificio c’è una favissa, ossia un ripostiglio dove sono state trovate molte offerte. Le donazioni avevano una loro sacralità e quando non c’era più spazio per inserirne di nuove, si faceva pulizia disponendo le vecchie offerte in un deposito sacro situato nelle vicinanze. All’interno delle favisse troviamo quindi i depositi votivi di un determinato periodo ma non possiamo datarle con precisione perché l’arco di utilizzo poteva durare anche alcuni secoli.
Fra i reperti importanti abbiamo una placchetta con un’iscrizione del VII a.C. che testimonia la divinità alla quale era dedicato il tempio: Astarte-Tanìt, una definizione doppia.
In Libano fra i secoli VIII-VII a.C. c’era una straordinaria presenza di officine per la lavorazione: gli avori e i metalli rifiniti rappresentavano una delle più importanti attività dei mediterranei d’oriente anche se nella madrepatria non abbiamo traccia di questi oggetti perché venivano esportati nelle grandi corti che se li potevano permettere.
L’abitato presenta strutture poco monumentali ma si notano forni per il pane, simili ai Tabouna usati in Tunisia per cuocere. Sono semplici giare senza fondo dove veniva posto il combustibile. Le pareti si riscaldano e al centro c’è una struttura sulla quale si prepara il pane: spianate che si cuocevano poggiandole sulla superficie incandescente.
Nell’abitato sono evidenti i “testimoni di scavo” che derivano da un sistema di scavo diverso da quello per “estensione”, introdotto nel 1970 dagli inglesi. Fino al 1930 lo scavo più frequente era lo “sterro” ma si perdevano molti dei riferimenti. Se si scava un nuraghe o un sito termale, si lavora in uno spazio circoscritto, ed è preferibile lavorare per estensione. Quando si scava nei Tell orientali (collinette artificiali tipiche dell’area siro-palestinese determinate dalla sovrapposizione delle diverse fasi degli insediamenti. Troia è un esempio di Tell) ci si orienta in modo diverso perché non ci sono strutture monumentali. Si rischia di perdere molti reperti perché le strutture murarie sono in terra cruda e si sfaldano, passando inosservate nello scavo. Per gli antichi era più semplice riempire le strutture più vecchie e costruire sopra piuttosto che demolire, ecco perché troviamo Tell alti parecchi metri. Per questi motivi si è dovuti ricorrere a metodi di scavo che consentissero di ricostruire le diverse fasi di costruzione degli insediamenti. Mortimer Whiler e Katherin Canyon, inglesi, hanno elaborato un sistema che si basa su uno scavo a griglia di quadrati delimitati da testimoni, così da consentire una lettura dello scavo non solo in maniera orizzontale, come siamo abituati oggi dalle nostre parti, ma anche verticale, per controllare tutto in tempo reale.
Un aspetto documentato in tutto il mondo antico è la perificità delle strutture: per non disturbare il centro abitato con i rumori. Il quartiere artigianale di Sarepta ha restituito tracce di diverse attività industriali: tintorie per tessuti, officine metallurgiche con fonderie, stampi per gioielli, forni per ceramica, macine per granaglie e torchi per la trasformazione alimentare e per l’olio. L’attività più importante era quella dei forni ceramici, ne sono stati individuati ben 22. Erano diffusi in tutti i siti antichi ma raramente sono arrivati fino a noi. Con la ceramica si fabbricavano manufatti per uso domestico e per la conservazione di cibi e bevande. Vetro e metallo, essendo preziosi, non erano usati per questi scopi.
La scoperta di una zona artigianale è un evento raro perché questi siti sono soggetti a un veloce decadimento a causa di strutture realizzate per lavorare, e non per essere edifici di rappresentanza. Inoltre molte strutture erano a contatto col fuoco e il degrado era veloce. In ambito punico si contano solo una ventina di siti artigianali.
I forni ceramici più antichi presentano una caratteristica forma ad omega, dovuta ad un muretto di sostegno che andava a separare il vano di combustione. In una fase successiva, ellenistica, il muretto centrale è sostituito da una colonnina. In questi grandi forni ci sono sempre due camere ben distinte: quella di combustione e quella di cottura, nella quale veniva posto il materiale da riscaldare. Il calore non doveva disperdersi, quindi la camera di combustione, generalmente, era scavata nel terreno. Le pareti venivano foderate con argilla cruda che nella fase di combustione si vetrificava. Il vasaio poteva infilare il combustibile attraverso una camera di attizzaggio. Fra le due camere vi era una superficie orizzontale in argilla, denominata suola, realizzata spesso con mattoni piano convessi. Il pilastrino o muretto centrale che separava i due vani aveva la funzione di sostenere la pesante suola. Questo elemento orizzontale era forato obliquamente per consentire al calore di passare ma doveva impedire alla fiamma di raggiungere direttamente gli oggetti soprastanti. Sopra la suola c’era la camera di cottura che veniva creata e smontata ad ogni ciclo di cottura. Le ceramiche, dopo essere state tornite e fatte essiccare a durezza cuoio, venivano sistemate sopra la suola e impilate fino a creare il cumulo. Poi si procedeva alla cottura che durava da poche ore fino a diversi giorni. La durezza cuoio era necessaria perché durante la cottura se l’argilla era troppo dura si spaccava, se era troppo morbida si piegava su se stessa. Mentre si creava il carico si realizzavano anche le pareti della camera di cottura, che poi venivano smontate per recuperare il carico cotto. Pertanto, quando si scava si trovano quasi esclusivamente le camere di combustione con spessi strati di argilla vetrificata nella pareti. I forni ad omega e quelli circolari ci mostrano l’evoluzione che hanno avuto queste attività. Sbagliare una cottura significava perdere tutto il lavoro e i forni piccoli erano più semplici da controllare, quindi il rischio era minore. A Sarepta troviamo attestati entrambi i tipi di forno.

Nell'immagine alcune strutture della zona industriale di Sarepta.

mercoledì 22 agosto 2012

Stonehenge rivisto dagli archeologi


Stonehenge rivisto dagli archeologi
Intervista a cura di Nicolas Constan


I megaliti di Stonehenge erano parte di un progetto architettonico molto più ampio di quello che può essere visto oggi. Vince Gaffney, professore di archeologia presso l'Università di Birmingham, ha pubblicato una nuova mappa del sito, e ci dà le sue impressioni.
Lei ha appena pubblicato i primi risultati di una mappatura molto dettagliata intorno al monumento megalitico di Stonehenge in Gran Bretagna. Che cosa rivela?
V.G. Dimostra che Stonehenge faceva parte di una serie di monumenti che si trovano nelle vicinanze. Sapevamo già di alcuni, ad esempio, 500 metri a nord si estende un vasto percorso rettilineo, 3 miglia di lunghezza e un centinaio di metri di larghezza, il "Curriculum". Negli ultimi anni, gran parte della ricerca ha stabilito che le fasi di costruzione di Stonehenge si inquadrano tra il 3000 e il 2000 a.C., ma nessuna mappatura sistematica di quello che c'è stato tra questi monumenti era stata eseguita.
Come si procede?
V.G. Abbiamo indagato il seminterrato con varie tecniche: magnetometro e radar. Il rilievo è registrato con un laser. Gli strumenti sono stati montati su diversi veicoli motorizzati, come il quad, fatta eccezione per le zone fragili che sono state esplorate a piedi. Ad oggi abbiamo mappato più di 600 ettari vicino a Stonehenge . L'obiettivo è quello di raggiungere nelle prossime due stagioni, un po' meno di 1000 ettari. Per realizzare questo compito, abbiamo condiviso le nostre risorse con gli altri paesi. Il team studierà anche la mappatura di Stonehenge intorno a un insediamento romano in Austria e un altro vichingo in Svezia.
Che cosa hai scoperto?
V.G. Abbiamo identificato più di due dozzine di strutture precedentemente sconosciute. Tre o quattro sono circolari o a ferro di cavallo, e misurano fino a più di venti metri. Uno di loro era probabilmente un monumento fatto di pali di legno. Strutture di forme circolari o ovali sono abbastanza comuni a quel tempo. Alcune grandi buche raggiungono i 5 metri di diametro.
Quale potrebbe essere la funzione di questi buchi?
V.G. Almeno due, su ciascuna estremità del Cursus, potrebbero avere un significato astronomico. Sono un'estensione del viale di Stonehenge. Ora sappiamo che è in questa direzione che il sole sorge al solstizio d'estate, quando ci mettiamo all'ingresso del monumento. Un altro foro è nella direzione del letto. I costruttori di Stonehenge potrebbero quindi mettersi in relazione al Cursus, più antico di cinque secoli. Ma c'è un lavoro molto importante da fare per dimostrarlo, poiché questi allineamenti potrebbero essere solo incidentali. Quando saremo sicuri che alcune strutture sono parte del tutto, allora sarà il momento di avviare altre ricerche.

Immagine di www.sawiggins.wordpress.com

martedì 21 agosto 2012

Tomba reale scoperta in Bulgaria.


Sensazionale scoperta archeologica in Bulgaria.


La tomba reale Tracia venuta alla luce vicino al villaggio di Sveshtari è una delle scoperte archeologiche più sensazionali nel corso degli ultimi trenta anni in Bulgaria.
Il progetto archeologico è organizzato presso il sito Sboryanovo e prevede due volontari di ogni stato: Polonia, Romania, Italia, Turchia, Azerbaigian, Armenia e Bielorussia. Al di fuori del programma, tre volontari dal Giappone si uniscono con la partnership della Fondazione giapponese ICI.

La tomba reale è perfetta nell’architettura, stupisce sia con la sua ricchezza di ornamenti scultorei sia per i suoi colori vivaci. Si tratta di un monumento di notevole arte tracia e costituisce una scoperta sensazionale, tanto che è stata inclusa nella lista UNESCO.

Il sito è stato riportato alla luce durante gli scavi nella riserva storico-archeologica "Sboryanovo", situata tra i villaggi Malak, Porovetz e Sveshtari, del comune Isperih, in Krapinetz River Canyon e nelle colline intorno.

La tomba è costituita da un passaggio (dromos) e tre camere quadrate: anticamera, camera laterale e camera sepolcrale principale, coperte da una volta semicilindrica. La pianta dell'edificio offre un nuovo esempio interessante di edificio della Tracia. La decorazione della tomba è eseguita nello spirito dell'architettura contemporanea ellenistica. Il suo ingresso è fiancheggiato da due colonne rettangolari (antae). Sopra di loro c'è una piastra architrave con un fregio a rilievo, composto da stilizzate teste di bovini (bucrani), rosette e ghirlande. Dieci belle figure femminili con le mani alzate come cariatidi sono magnifiche. Misurano circa 1,20 m di altezza ciascuna e si presentano frontalmente. Indossano lunghi abiti senza maniche (chtons) legati con un nastro sottile sotto il seno.

Due letti funebri, ossa umane e le offerte sono state scoperte nella camera centrale. Con i dettagli in pietra sparsi è stato possibile ricostruire la facciata della tomba a edicola - naiskos, costituita da pilastri, cornicioni e un frontone, e chiusa con tre porte di pietra. Il letto funebre è maestoso e rappresenta un simbolo del confine tra la vita e la morte. L'edicola isola la tomba del sovrano divinizzato - la parte più sacra della tomba - dal resto del luogo. Al centro della composizione la dea sta offrendo un anello d'oro al sovrano, rappresentato come un cavaliere di fronte a lei. Su entrambi i lati ci sono processioni di servi e portatori con armatura che trasportano diversi doni in mano.

La tomba è stata costruita a Sveshtari intorno a 2300 anni fa, un’epoca che coincide con una grande ondata politica, economica e culturale della tribù trace dei Geti. La decorazione architettonica della tomba è ricca e perfetta, e testimonia il potere politico del sovrano.

Fa parte del patrimonio storico-archeologico della riserva Sboryanovo, che comprende anche la città tracia di Helis e il santuario tracio Demir Baba Teke, oltre a diverse tombe trace più piccole.