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lunedì 29 ottobre 2012

Le navicelle bronzee nuragiche 2° e ultima parte


Le navicelle bronzee nuragiche 2° parte di 2
di Pierluigi Montalbano


Dopo l'introduzione alle navicelle, come promesso, inserisco una panoramica delle imbarcazioni in bronzo più celebri fra quelle visibili nei musei sardi.



Tutte le navicelle pongono quesiti di difficile soluzione per la funzione svolta.


Erano barche in miniatura?



E' possibile creare questi oggetti se non si hanno competenze marinaresche?

Le tracce archeologiche metallurgiche, ceramiche e architettoniche lasciate dai sardi sono numerose e importanti. E' possibile che ci siano così tante interpretazioni ma nessuna sia convincente?



Orli e listelli in rilievo sulle mura
Lo scafo delle navicelle nuragiche, di disegno lineare e di norma austero nella decorazione, presenta talvolta sulle fiancate uno o più ordini di rilievi che, a differenti altezze, corrono lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. Gli scafi di tipo V possiedono sempre almeno due cordonature; una, superiore, solitamente situata poco sotto il bordo; un'altra, inferiore, sempre in corrispondenza dell’intersecarsi del fondo con le bande. Una terza cordonatura è talvolta interposta equidistante tra le prime due.
Sappiamo per certo che la cantieristica antica faceva largo uso di funi e gomene nella costruzione degli scafi. Non solo nella legatura delle stuoie di papiro, come documentato nei numerosi dipinti egizi dell'Antico Impero, ma anche nella costruzione di scafi in legno, utilizzandole con precise funzioni strutturali. Questa cima era destinata a contrastare le forze che, qualora la nave si fosse trovata in dorso d'onda, avrebbero altrimenti spezzato in due o più parti lo scafo.
La struttura doveva probabilmente essere completata da una seconda cima, tesa al di sotto della chiglia, allo scopo di conferire uguale resistenza alle opposte sollecitazioni alle quali la nave era invece soggetta durante la navigazione in caso d'onda. Poco sotto il bordo, ancora oggi è d'uso che le piccole imbarcazioni applichino un listello di legno, con funzione di paracolpi (detto bottazzo), situato in tale posizione per sfruttare la maggiore resistenza che ha lo scafo in corrispondenza dell'intersezione tra le mura e le pontature di coperta.
Questo listello viene talvolta sostituito da una grossa gomena, come d'uso ancor oggi, che con il medesimo scopo corre lungo tutto il perimetro dell'imbarcazione. L'ipotesi che i rilievi a listello (e la funicella), presenti poco sotto il bordo delle navicelle nuragiche con scafo di tipo V, siano un elemento strutturale e non decorativo della costruzione, sarebbe accettabile se tali navicelle fossero il modello di imbarcazioni di modeste dimensioni adibite a compiti di traghettamento, con la conseguente necessità di proteggere lo scafo dai frequenti piccoli urti durante le operazioni di accosto, di abbordo, di approdo.
Se così fosse sarebbe possibile, a partire dalla presumibile dimensione delle gomene e dal posizionamento dei parabordi, trarre una precisa indicazione di scala che ci consentirebbe di stimare intorno ai 7 metri la lunghezza dell'eventuale modello reale di una navicella con scafo del tipo V.
Completano lo scafo di molte navicelle, oltre la protome e gli apparati di sospensione, diversi altri elementi, strutture e attrezzature tra i quali possiamo comprendere, insieme al gavone di prora che spesso risulta dalla fusione della protome con lo scafo, altri oggetti quali trasti, anellini, animali, totem, rilievi, colonnine, barrette di rinforzo.
La connessione delle parti può essere ottenuta fondamentalmente in due modi: mediante un procedimento di fusione limitato alle superfici da unire oppure mediante l'introduzione tra esse di un altro metallo fuso.
Il gavone di prora è del tutto assente negli scafi cuoriformi e del tipo V, dove è spesso sostituito da una particolare giunzione della protome che simula una funicella avvolta a spirale. Il gavone non svolge solo la funzione di tenere all'asciutto cibi, indumenti e quant'altro occorra riparare dall'acqua durante la navigazione, ma anche quella, strutturale, di chiudere con una parziale pontatura, irrobustendola, la sezione di scafo maggiormente esposta alla violenza delle onde.
La presenza del gavone può essere trascurata solo nel caso di piccoli scafi, destinati ad acque tranquille. La sua assenza parrebbe allora confermare che almeno per quanto concerne gli scafi di tipo V, non a caso sempre privi di albero, siano da escludere le grandi dimensioni e l'utilizzazione nella navigazione d'altura.
L'ambito costiero-palustre dello scafo del tipo V consentirebbe allora una diversa lettura del piccolo anellino che compare in posizione laterale su alcuni scafi, nonché del piccolo rilievo a “sella” presente sui tre scafi cuoriformi. Tanto l'anellino che il rilievo a sella si mostrano sempre nella medesima posizione, sull'orlo delle mura di sinistra in posizione circa equidistante tra prua e poppa.
Secondo Lilliu nella n° 78 da Tula questo anello sostituiva l'anello che, in altri esempi, sormonta il mezzo del manico a doppio ponte, e ancora quando si voleva appendere l'oggetto dopo l'uso in piano. L'interpretazione lascia tuttavia spazio ad alcune considerazioni:
1) ci si domanda per quale motivo l'anellino sia presente su alcune barche del tipo V e C, mai in quelle di tipo E ed EV, e sia sempre posizionato nel medesimo punto rigorosamente sul lato sinistro;
2) non si vede inoltre la necessità di un ulteriore anello di sospensione, e per giunta di tanto minori dimensioni, in alternativa ad altri numerosi e più efficienti appigli, come il manico, l'anello, la protome.
Cosa si deve intendere poi per “appendere dopo l'uso”? Certamente l'espressione è da riferire all'uso domestico dell'oggetto-lucerna. Ma l'unico risultato pratico che poteva ottenersi appendendo l'oggetto lateralmente era forse quello di facilitare lo sgocciolamento dell'olio combustibile residuo, al fine di ripulire perfettamente la lampada.
Resta tuttavia da chiedersi se un artificio di così complessa realizzazione (l'anellino doveva essere fuso a parte e poi saldato in una posizione che consentisse di bilanciare l'oggetto) sia giustificabile dal modesto risultato raggiunto, che si sarebbe più facilmente potuto conseguire posando la barchetta capovolta su un piano ovvero sospendendola per la protome. Tuttavia in questi due ultimi casi i manufatti si sarebbero potuti danneggiare.
Negli scafi cuoriformi compare un piccolo rilievo a sella che per Lilliu “forse stilizza un uccello o qualche altro animaletto”. Tuttavia riesce assai difficile leggere nel rilievo la stilizzazione di un uccello e non si comprende perché in questi scafi debba mostrarsi appena accennato e per di più rinunciando alla simmetria che su altre navicelle nuragiche vuole gli uccelli sempre disposti a coppie.
Potremmo allora avanzare l'ipotesi che questi rilievi altro non siano che i frammenti residui di anellini del tutto simili a quelli già visti sulle navicelle del tipo V, e che la posizione meno protetta abbia fatto sì che nessuno di tali anelli si sia conservato integro. Si può allora ipotizzare che tale anellino non rappresenti se non un particolare tipo di scalmo atto ad accogliere un solo remo, propulsore e direzionale insieme, ovvero una pertica atta alla navigazione lagunare e palustre in bassi fondali, ovvero un unico remo con funzioni solo direzionali. Sulle navi nuragiche la propulsione doveva essere affidata a remi a pagaia (così come sono d'altronde equipaggiate le barche fenice di Korshabad), vista l'assenza di altri oggetti sulle fiancate interpretabili come scalmi. Difficilmente si può ravvisare nelle colombelle un vezzo artistico di oggetti aventi funzione di scalmo.


Le colombelle sull’anello di sospensione...e altri animali.
Diversamente vanno interpretate le colombelle che spesso ornano la sommità dell'anello di sospensione. Esistono sostanzialmente due linee di interpretazione: una fa capo al Lamarmora che considera le colombelle animali esclusivamente e variamente simbolici; l'altra, del Crespi, che legge nei volatili anche un significato funzionale e pratico, allude alla avventurosa scoperta della terra, mediante la direzione segnata dal passaggio delle emigrazioni di certi volatili. La tesi ricorda come non si può escludere che le colombelle rappresentate avessero più che funzione rituale valore pratico, “per il loro sapersi dirigere, se liberate, verso casa e che i marinai di legni a vela usavano talvolta liberare le colombe quali vivi, anche se muti e romantici, messaggi di favorevoli navigazioni”. Il navigante, fuori dalla vista della terra, faceva uso di uccelli che liberava da una gabbia e seguiva nel loro volo per raggiungere l'approdo. Questo metodo, noto nel viaggio degli Argonauti (Apollodoro), è lo stesso raffigurato su di un sigillo babilonese, seguito da Ut-Napitshstim (il Noè babilonese) nella leggenda del diluvio, e dai suoi successori biblici. La tesi trova ulteriore conferma nelle navicelle sarde dove la colombella si trova in cima all'anello di sospensione, quasi sempre, salvo nei manufatti n° 15 da Nuragus e n° 40 da Gravisca, correlata alla presenza dell'albero o del semialbero.
Anche altri animali, oltre le colombelle e quelli raffigurati nelle protomi, sono presenti su alcune navicelle sarde. Nella n° 43 da Nuoro appare una scimmia, nella n° 2 da Abbasanta Lilliu pensa di riconoscere un topo o un ranocchio, nella n° 31 da Bultei la battagliola è ornata da due cani, nella n° 64 navicella del Duce da Vetulonia Lilliu descrive due anatrelle, un riccio, alcuni cani, un suino, un torello con le corna giovani, una pecora e un animale sdraiato e disteso per lungo sull'orlo.

Il Lilliu ritiene “la navicella da Vetulonia, come le analoghe, un esempio di battello da trasporto di lunga navigazione per la forma e le dimensioni, ma non certamente per l'ornato plastico, che non ha relazione alcuna con animali trasportati per mare. A quale scopo caricare cani e cinghiali?”.
Tuttavia lo scopo c’è: i cani sono animali da caccia e per la difesa personale, mentre i cinghiali erano preziosi per la carne e il grasso. I cinghiali possono essere addomesticati se catturati da piccoli e perciò potevano diventare una merce. Inoltre i denti e le zanne erano ottimi talismani per la loro forma lunata.
Altre strutture presenti in coperta su alcune navicelle di età nuragica sono infine barrette bronzee, cosiddette di rinforzo. Il Crespi avanza l'ipotesi che le lunghe barrette raffigurino due remi ovvero un albero a doppia antenna, temporaneamente smontato come d'uso sulle navi antiche. Vi sono inoltre le protomi prodiere: tutte le navicelle oggi conosciute, qualunque sia la foggia dello scafo, mostrano traccia di un prolungamento della prora ornato da una protome animale che riproduce in modi diversi il toro (o il bue), il cervo (o il daino), l'ariete (o il muflone). Il toro è la figura predominante.
Estremamente varia è poi la tipologia delle corna, nelle quali gli artigiani si sono sbizzarriti, per Lilliu, “nell'inventare forme, posizioni, movimenti vari, per lo più naturali rendendole col modellato per lo più robusto ma non pesante e quasi sempre elegante nelle linee bellamente ricurve”. Anche la lunghezza e l'orientamento del collo presentano una ricchissima casistica, variando da inclinazioni perfettamente orizzontali ad altre esattamente verticali. Non è da escludere l'ipotesi che la protome, saldata per ultima alla prua, venisse poi modificata nell'orientamento, deformandone il collo, per bilanciare in modo micrometrico la navicella.
Dal punto di vista nautico le protomi delle navicelle sarde, di generose dimensioni, paiono nella maggior parte dei casi inadatte alla navigazione. Nel maggior numero dei casi le protomi venivano fuse a parte e solo in un secondo momento saldate alla prora, con tecniche diverse. Si possono riconoscere le tecniche d'unione “a manicotto”, più diffuse sulle barche del tipo V, e le tecniche a “piastra saldata”, più comuni sugli scafi ellittici. Nella tecnica a manicotto la protome viene innestata tramite un bottone o spinotto in un corrispondente alloggiamento. Nella tecnica a piastra saldata la protome presenta all'estremità inferiore del collo una flangia triangolare che viene adattata, saldandola, alla prora dello scafo, formando in tal modo una sorta di gavone.
Molte delle barchette nuragiche possono essere utilizzate, oltre che posate su un piano, anche in posizione sospesa. Ciò grazie ad appositi apparati di sospensione i quali, seppure di differenti fogge, presentano tutti sulla cima un anello verticale e sono calibrati in modo da consentire l'equilibrio dell'oggetto, che nel supposto uso come lucerna doveva essere tale da evitare ogni perdita di liquido combustibile.
La tipologia degli apparati di sospensione può essere ordinata secondo tre classi ben distinte: a ponte, ad albero impostato sul fondo, mista. Al culmine è situato un anello, talvolta aperto sulla sommità, altre volte saldato o chiuso in cima da una colombella. È possibile che all'anello fosse collegata una corda o una catenella del tipo “a otto”, ben noto ai fonditori di età nuragica. La sezione piatta delle maglie sembra bene adattarsi agli anelli aperti nei quali l'ultima maglia della catena poteva facilmente essere introdotta di traverso per poi reggere senza difficoltà, quando raddrizzata, l'oggetto.
L'uso di funi o catenelle sembra tuttavia impedito, in alcune navicelle, dalla presenza della colombella che sovrasta l'anello. Ci pare allora più verosimile ipotizzare che la navicella venisse sospesa inserendo l'anello in un piolo fissato alla parete in posizione orizzontale. In questo modo la colombella, lungi dal rappresentare un ostacolo, sarebbe anzi servita da appiglio per sfilare più comodamente la navicella dal suo sostegno.
Al di là delle evidenti funzioni che il manico a ponte riveste nell'oggetto-lucerna, resterebbe da chiedersi fino a che punto la sua foggia possa aver tratto ispirazione da strutture similari eventualmente presenti su un ipotetico modello reale.
Strutture centinate simili nella forma sono visibili su barche egizie dell'Antico Impero e possono essere ritrovate nei cerchi a botte delle imbarcazioni tradizionali del lago di Como. Un preciso richiamo a queste strutture, la cui funzione era quella di offrire, ricoperta con pelli o tessuti, un estemporaneo riparo dalle intemperie, uno spazio per il pernottamento. Una protezione alle merci più delicate si può leggere anche nella costruzione centinata a graticcio (cabina?) che è presente nella n° 53 (proveniente dalla Sardegna).
In luogo della più diffusa sospensione a ponte, sette navicelle presentano un vero e proprio albero saldato al fondo e terminante con una sorta di capitello, in cima al quale è impostato l'anello, che in questo tipo di barche è sempre sormontato da una colombella che guarda verso poppa.
Altre dodici barchette adottano invece un sistema misto, in virtù del quale un albero più piccolo è fuso in un sol pezzo sulla sommità di un manico del tipo a doppio ponte. Tanto la sospensione ad albero che quella a semialbero sono caratteristiche esclusive delle barchette a scafo ellittico di tipo E ed EV, e mancano del tutto negli scafi cuoriformi C e in quelli del tipo V.
L'albero delle barchette nuragiche, basso e tozzo, pare inadatto ad accogliere un gioco velico. È tuttavia possibile che alberi di tal fatta non fossero destinati ad accogliere vele, ma avessero in realtà il compito di sostenere, come nella hippos fenicia, una coffa di avvistamento da leggersi nel disegno a capitello della parte terminale della struttura.
Questi capitelli sono sorprendentemente simili ai ballatoi delle torri nuragiche così come raffigurate nei modellini classificati da Lilliu con Sc. 268 e 269 (da Ittireddu e Olmedo), tanto da far ritenere non improponibile l'ipotesi che alcuni alberi volessero in qualche modo significare, quasi come una sorta di “insegna nazionale”, la struttura a torre dell'edificio più rappresentativo della civiltà nuragica.

Nelle immagini, alcune navicelle conservate al Museo Archeologico di Cagliari: Cuoriforme con antropoide e trilicne da Mandas.


Considerazioni sugli aspetti formali e simbolici
È evidente che gli artigiani tendevano a creare un oggetto che riproducesse la forma di un'imbarcazione ed è opportuno tenere presente l'esistenza di tre categorie fondamentali di modelli:
- vere e proprie riproduzioni di navi;
- oggetti d’uso nei quali l’aspetto naviforme ha un semplice scopo decorativo;
- prodotti simbolici di uso cultuale, specie in contesti funerari, legati al concetto del viaggio nell'oltretomba.
L'identificazione delle navicelle come doni votivi è strettamente dipendente dal contesto di rinvenimento, anche se a volte si è abusato nell’attribuire alla sfera votiva gli oggetti di cui non si riusciva ad individuare la funzione. Il dono votivo può essere un atto di gratitudine alla divinità da parte di un uomo di mare per lo scampato pericolo.
Il rinvenimento di questi modellini in contesti domestici, fa pensare a un loro uso nel quotidiano: oggetti votivi, lampade, simboli di prestigio. Votivo significa “offerto alla divinità”, e come tale può ben indicare un oggetto che ha una funzione pratica: una lucerna a navicella può avere anche un uso pratico. Il ritrovamento in diversi contesti dimostra che il bene era prezioso sia nella vita che nella morte.
Il valore religioso, oltre che dalla collocazione nei luoghi sacri, era messo in rilievo dalla valenza di ex-voto di particolare prestigio e importanza, ed all'utilizzazione della navicella come lucerna votiva adoperata nell'illuminazione degli ambienti bui, all'interno di santuari e sacelli, poggiata su un piano o sospesa per mezzo dell’appiccagnolo. La funzione di lucerna votiva è ipotizzabile sulla base del confronto con un'analoga classe di manufatti realizzati in ceramica. Gli elementi più significativi di confronto giungono dai risultati di un'importante scavo effettuato nel nuraghe Su Mulinu di Villanovafranca.
Durante lo scavo del vano “e” in strati databili al Bronzo finale, alla prima età del Ferro e all'età orientalizzante e arcaica, si rinvennero oltre 500 modellini fittili di navicelle. I dati dello scavo, condotto da Giovanni Ugas nel luglio 1989, e parzialmente editi dallo stesso autore nel 1990, mostrano la maggior parte delle navicelle con una protome generalmente bovina all'estremità della prua. Il ritrovamento di questi oggetti in un ambiente del nuraghe chiaramente adibito a sacello ribadisce il valore cultuale di queste classi di oggetti che richiamano negli aspetti tipologici le più preziose navicelle di metallo.

Al di là di un loro utilizzo in termini funzionali si leggono significati legati a convenzioni simbolico-religiose che rispecchiavano valori sociali in relazione con la figura dello status dell'offerente. La presenza di rappresentazioni animali sul margine di alcuni modellini può essere interpretata come espressione della volontà di accentuare con la ricchezza di elementi figurati il valore e l'importanza dell'oggetto.
Il ritrovamento di numerose navicelle in aree non cultuali, ripostigli ed ambiti insediativi, evidenzia comunque la circolazione e la tesaurizzazione del bene tra membri di rango della comunità, prospettando una possibilità della realizzazione dell'oggetto di pregio e della sua conservazione, non solo in vista del dono alla divinità, ma anche con l'intento di custodire in ambito domestico, privato o comunitario, un manufatto prezioso da riservare eventualmente per pratiche di scambio e dono ma questa ipotesi attualmente non si può dimostrare.
Le navicelle sono nate dall'osservazione delle imbarcazioni del tempo, lo attestano legature, alte mura, alberi, coffa. Negli esemplari più ricchi si aggiungono piccole sculture riproducenti animali. Le imbarcazioni attestano quindi un interesse per la navigazione che non poteva mancare in un popolo coinvolto nelle relazioni con l'esterno e stanziato in una terra insulare che, anche per posizione geografica, si pone al centro di un'area di intensi traffici transmarini.
Le rimarcate divergenze tipologico-formali che distinguono gli scafi delle navicelle bronzee di età nuragica possono costituire il punto di partenza per un tentativo di classificazione: da un lato abbiamo le navicelle a scafo ellittico-convesso tipo E ed EV, dall'altro le barchette con scafo del tipo V, che a loro volta mostrano qualche affinità con le navi del tipo C.
Le barchette ellittiche presentano spesso protomi prodiere di maggiori dimensioni, le colombelle, le sospensioni ad albero e a semialbero, il gavone prodiero. Gli scafi del tipo V si distinguono, oltre che per la foggia, per la presenza di costolature a rilievo sulle mura, protomi prodiere solitamente piccole, manici a ponte spesso con decorazioni e talora in forma di giogo bovino, peducci di sostegno, l'assenza di colombella sull'anello di sospensione e, talvolta, presenza dell'anellino sul bordo sinistro.
Lo scafo cuoriforme del tipo C, presenta anch’esso l'anellino sinistro e una piccola protome con lungo collo orizzontale. Le differenti forme degli scafi, ma anche il differente gusto decorativo per la foggia delle protomi, per l'alberatura e per la presenza di importanti dettagli nautici, deve farci ritenere che proprio gli scafi angolosi del tipo V, più di quelli ellittici, possono rappresentare vere e proprie riproduzioni di imbarcazioni d'uso locale, per brevi spostamenti, di piccolo cabotaggio.
Notiamo quindi delle tipologie parallele fra gli scafi, non un unico percorso evolutivo, da semplici scafi cuoriformi alle navicelle più elaborate, forse una tradizione di barche forestiere, dapprima soltanto osservate, in seguito forse anche imitate dalla cantieristica isolana. Cantieristica che doveva peraltro essere limitata dalla qualità e quantità dei materiali.
Mancavano in Sardegna alberi alti fino a 40 metri, come i grandi cedri del Libano, indispensabili per costruire lunghe e solide chiglie, remi, alberature. Si sarebbero potuti utilizzare i pini mediterranei, le querce o i cipressi, anche se il risultato non sarebbe stato paragonabile. Mancava il bitume, che consentiva di calafatare e rendere impermeabili gli scafi, il fasciame, i legni e le pelli; anche per questo materiale si potrebbe pensare ad una sostituzione con delle resine naturali, tuttavia il risultato non avrebbe avuto la stessa qualità. Mancavano terre e isole vicine, a vista, con le quali intessere quella fitta rete di traffici e collegamenti marittimi, non limitati a contatti occasionali o stagionali, che avrebbe potuto trasformare gli antichi uomini di Sardegna da naviganti in navigatori.
E navigatori si diventa, attrezzando porti, cantieri di costruzione, rimessaggio e manutenzione, elaborando un'astronomia e una cartografia, lasciando tracce del proprio passaggio nelle testimonianze dei popoli vicini. Ciò che lascia perplessi, di fronte a tanta profusione di reperti, è la quasi assoluta mancanza, nei bronzi, dei mezzi di governo: vele, timoni, remi, scalmi, mostrati invece con tanto rilievo nelle raffigurazioni marinare di altre civiltà; e poi l'assenza, nei dipinti ma non nelle sculture, di strumenti di offesa e difesa: rostri, rinforzi, scudi, imprescindibili per la navigazione d'altura.
Armare una nave significa dotarla degli armamenti necessari per affrontare coscientemente i pericoli, non sempre e solo naturali, del mare. Tutte le antiche civiltà mediterranee conoscevano la nave rostrata, che invece pare assente nei modelli sardi. Occorrerà forse allora riconsiderare, fra i due estremi che vogliono le antiche genti sarde ora un popolo di montanari legato alla terra, ora un popolo di temuti dominatori dei mari, il ricco ventaglio delle possibilità intermedie, tra le quali certamente trova luogo anche l'ipotesi di una cantieristica locale in grado di costruire imbarcazioni adatte per gli spostamenti in acque interne, per il piccolo cabotaggio, per il trasbordo e traghettamento delle merci e, forse, attrezzate per la difesa delle coste.
Senza peraltro escludere l'eventualità di avventurosi viaggi che abbiano visto gli uomini dei nuraghi allontanarsi su navi di tal fatta dal continente Sardegna, con quella frequenza e quella regolarità che sole possono stimolare lo sviluppo delle arti e delle tecniche marinaresche. Arti e tecniche che, nelle testimonianze archeologiche fino ad oggi esaminate, risultano solo in piccola misura attestate e significate. Resta aperta l’ipotesi che le navi più grandi fossero costruite in vari cantieri del Mediterraneo, con maestranze provenienti da tutto il Mediterraneo e, soprattutto, con gli alti fusti del Libano e i vari materiali occorrenti, opportunamente scambiati con altre merci. Un anticipo, dunque, di quella globalizzazione di merci e uomini alla quale assistiamo nei nostri giorni.
Da tempo ipotizzo che il committente volesse racchiudere nella navicella un simbolismo fortissimo. Desiderava evidenziare la sua conoscenza, e il relativo dominio, sui 4 elementi del cosmo: terra, aria, acqua e fuoco. La terra con la riproduzione di nuraghi e animali; l’aria con gli uccelli e la colombella; l’acqua con lo scafo e il fuoco con il processo di fusione del bronzo. Se ipotizziamo l’uso come lucerne si aggiunge un altro fattore: lo stoppino acceso si troverebbe a poppa, costituendo il quarto punto cardinale a formare nord (colombella), sud (scafo), ovest (protome), est (fiamma). Una vera e propria cosmografia racchiusa in un unico oggetto prezioso.

Nelle immagini: colombelle e protomi di navicelle conservati al museo di Cagliari

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