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venerdì 31 maggio 2013

Convegno. Il culto dei defunti nella Sardegna preistorica: Domus De Janas e Tombe di Giganti

Convegno. Il culto dei defunti nella Sardegna preistorica: Domus De Janas e Tombe di Giganti
di Pierluigi Montalbano




L'Associazione culturale "Riprendiamoci la Sardegna", organizza un incontro dedicato alla preistoria sarda. Si svolgerà Lunedì 3 Giugno, alle ore 20.30, in Viale Poetto, nello stabilimento della Polizia, al confine fra Cagliari e Quartu, circa 1 Km dopo l'Ospedale Marino, il convegno dedicato al culto dei defunti nell'antichità. Con l'ausilio di immagini proiettate, il relatore Pierluigi Montalbano illustrerà la storia dei monumenti realizzati dagli antichi abitanti della Sardegna per onorare gli antenati. Ingresso libero, con possibilità di cenare al costo convenzionato di 15 Euro.
Per centinaia di migliaia di anni l’uomo si è evoluto lentamente: sopravviveva cacciando e accumulando provviste. Poi, al termine dell’ultima glaciazione, l’evoluzione subisce una brusca accelerata. Nel corso degli ultimi 10 millenni, l’uomo passa dall’Età della Pietra allo sbarco sulla Luna. Che cosa causò un cambiamento così radicale delle abitudini di vita? Andare sulla Luna non è stato un avvenimento che ha cambiato il nostro modo di vivere. La scintilla che determinò l’evoluzione è stata l’idea di coltivare la terra per produrre alimenti. Si è passati a un’economia produttiva. L’agricoltura ha permesso all’uomo di diventare stanziale, di sviluppare relazioni sociali, ideare le religioni e costruire templi e città. Senza dover cacciare per nutrirsi, l’uomo aveva il tempo per pensare, inventare e uscire dall’Età della Pietra. La Turchia, da sempre, è il ponte che collega l’Europa e l’Asia, e si trova nel cuore della Mezzaluna Fertile, una regione che comprende gli attuali Egitto, Israele, Siria e Iraq. Qui sorsero i primi insediamenti umani, e fiorirono le prime grandi civiltà. Gli edifici dedicati al culto contengono, generalmente, rappresentazioni simboliche di divinità. Animali e altri simboli sono presenti su pareti, pavimenti, pilastri e altri elementi architettonici, e possono essere scolpiti, incisi o, semplicemente, dipinti. La costruzione di questi edifici richiedeva un’organizzazione sofisticata: spaccare e trasportare le pietre, scavare, realizzare le fondamenta, ed erano necessari tanti uomini. A quale scopo furono costruiti?
I primi templi presentano un portale che rappresenta l’ingresso al mondo ultraterreno, come se il tempio avesse a che fare con i morti o con le divinità del cielo. La mancanza di simboli, rilievi o incisioni, aumenta le difficoltà per gli archeologi di interpretare i siti. A volte i simboli sono compresi solo presso le comunità che li realizzano, e ciò pone problemi agli studiosi di storia antica, poiché si ha a che fare con edifici costruiti nei millenni scorsi. Ogni luogo di culto ha un’iconologia che è compresa solo da chi la frequenta. Lo scopo delle immagini è di unire la congregazione in una fede comune, condivisa con i rituali a essa legati. Le immagini, i colori, le funzioni e gli elementi architettonici sono spesso incomprensibili a chi pratica altre fedi.

All’inizio i popoli vivevano di caccia e di raccolta, e condividevano il cibo all’interno di piccoli gruppi, prevalentemente familiari. In seguito divennero stanziali, nacquero più bambini e le comunità crebbero rapidamente. A quel punto ogni comunità dovette imparare a rapportarsi e a vivere in pace. Queste situazioni richiesero l’applicazione di un codice morale, e convinzioni comuni. I templi sono progetti di costruzione condivisi, che mantengono la coesione fra comunità, anche all’interno della stessa. Allo stesso tempo consentono di celebrare riti che richiamano la comunità all’unità di pensiero. Chi vuole far parte di una comunità deve comportarsi secondo i costumi di quella comunità. Dai territori vicini arrivano uomini messi a disposizione dalle comunità confinanti in relazione alle qualità lavorative di ogni singolo individuo. Sono evidenti alcune figure professionali: tagliatori di pietre, scultori, specialisti nel trasporto e manovalanza, e l'apporto di questi individui da parte di comunità vicine aiuta a consolidare i buoni rapporti di vicinato. Questi progetti spingono le persone a collaborare, ad affidarsi agli altri e a fidarsi delle competenze dei nuclei insediativi vicini. Sono sistemi di lavoro che uniscono le genti: se un uomo vede un suo simile all’interno del proprio tempio, sente di potersi fidare, anche se non lo conosce.
Nelle religioni esiste un codice morale elaborato dalle comunità più antiche, che è conservato e integrato nelle comunità successive. I semi spirituali e materiali sono piantati, e qualunque fossero i significati troviamo sempre segni simili nelle generazioni seguenti. Il culto dei morti è il modo per riportare in vita una persona cara o un eroe del passato, e mantenere legato al mondo dei vivi il suo ricordo. Era la resurrezione di un personaggio ritenuto importante all’interno della società. Si cerca di portare indietro dal mondo dei morti una persona, recuperando la presenza fisica. Nei secoli successivi, e ancora oggi, la resurrezione sarà un tema centrale della religiosità: babilonesi, egizi, indiani, greci e cristiani, parlano di resurrezione. La costruzione del tempio rappresenta il culmine di una linea di pensiero. E’ un legame sociale che porta le comunità a unirsi, ed è edificato con una monumentale architettura. Rappresenta un balzo enorme nell’evoluzione spirituale dell’uomo: invece di considerarsi parte della natura, si valuta superiore. Sotto i pilastri dei templi nascono le rappresentazioni dei primi dei.

giovedì 30 maggio 2013

Il mistero di Cholula, la piramide più grande del mondo

Il mistero di Cholula, la piramide più grande del mondo
di Yuri Leveratto


Lo studio delle piramidi, costruite nel lontano passato da molti popoli che vivevano in differenti zone della Terra, è interessante non solo dal punto di vista storico e architettonico, ma anche per comprendere le loro usanze, le loro credenze religiose e la loro visione del mondo.
Le piramidi più conosciute sono certamente le egiziane, soprattutto quelle della piana di Giza.
Nel mondo però vi furono varie le culture antiche che costruirono piramidi, per esempio le piramidi cinesi di Xian, quelle peruviane di Caral o Tucumè e quelle mesoamericane, come le Maya di Tikal, Uxmal, Palenque, o le famose piramidi del Sole e della Luna di Teotihuacan.
Stranamente la pirámide di Cholula (detta anche Tlachihualtepetl), che è la più grande del mondo, è quasi ignorata sia nei programmi televisivi dove si divulga la Storia sudamericana che nelle riviste specializzate.
La piramide, che è alta 66 metri e ha una pianta quadrata di 400 metri, è la più voluminosa del mondo: ben 4.5 milioni di metri cubi.
Per fare un paragone, la piramide di Cheope, ha un volume di soli 2.5 milioni di metri cubi.
Il nome Cholula significa “acqua che cade nel luogo della vita”. Secondo la mitología fu costruita dal gigante Xelhua, che riuscì a salvarsi dal diluvio universale.
Ecco un brano dell’opera Cholula 2000 tradizione e cultura dello scrittore Rodolfo Herrera Charolet (1995):
Nell’epoca del diluvio vivevano sulla Terra i giganti, però molti di essi morirono sommersi dalla acque, alcuni invece furono trasformati in pesci e solo sette fratelli si salvarono in alcune grotte della montagna Tlaloc. Il gigante Xelhua viaggiò fino al luogo che in seguito si chiamò Cholollan e con grandi mattoni fabbricati nel lontano Tlalmanalco, cominciò a costruire la pirámide in memoria della montagna dove si salvò. Siccome Tonacatecutli, il Padre degli Dei s’irritò vedendo quella immensa costruzione, che poteva arrivare alle nubi, lanciò delle lingue di fuoco e con un grande masso che aveva forma di rospo schiacciò molti lavoratori e scacciò i sopravvissuti, cosìcchè l’opera fu interrotta…
La piramide di Cholula è in realtà il risultato di 6 differenti costruzioni sovrapposte nel corso dei secoli. Secondo gli ultimi studi in situ s’iniziò a costruire nel periodo Preclassico (1800 a.C.-200 d.C), nell’epoca degli Olmechi.

Intorno al 100 d.C. la piramide di Cholula era utilizzata da genti di Teotihuacan, sia per motivi rituali sia cerimoniali.
Si stima che il complesso urbano che si era sviluppato nei dintorni della piramide assommava a quasi 100.000 abitanti intorno al 200 d.C. essendo così la seconda città del Mesoamerica dopo Teotihuacan.
La zona fu abbandonata intorno all’800 d.C. in seguito alla decadenza di Teotihuacan. In seguito la piramide fu utilizzata da etnie Tolteche e Cicimeche. Quindi con il dominio degli Aztechi in Messico, fu dedicata al culto di Queztalcoatl.
In seguito alla conquista spagnola del Messico, fu costruita una chiesa cattolica nella sommità della piramide (nel 1594), allo scopo di affermare la religione cristiana sui culti locali.
Il primo archeologo che studiò a fondo la piramide fu lo svizzero Adolph Bandelier nel 1881. Rinvenne molti resti umani in alcune sepolture di stile Teotihuacano, oltre a una notevole quantità di cerámica, anch’essa attribuibile a Teotihuacan.
Nel 1931 l’architetto Ignacio Marquina diresse degli scavi con lo scopo di aprire dei tunnel sotto la pirámide. Nel 1951 sono stati scavati circa 6 Km di tunnel che formano un vero e proprio labirinto.
Durante questo primo periodo di scavi furono portate alla luce notevoli quantità di ceramiche risalenti alle culture di Tula e Teotihuacan oltre a strumenti musicali come per esempio flauti.
In seguito ci fu un secondo periodo di scavi dal 1966 al 1974 condotto da Miguel Messmacher, ma non si riuscì a trovare una camera funeraria principale.
Oggi il mistero di Cholula, ossia quali furono i reali costruttori di questa imponente struttura, resta insoluto. Successive opere di scavo sono state bloccate perché potrebbero minacciare la stabilità dell’intera piramide ma anche perché la chiesa cattolica costruita dagli spagnoli sulla sua sommità, è stata dichiarata patrimonio della nazione e pertanto è proibito intervenire sulle sue fondamenta.
Sappiamo che nelle leggende c’è sempre un fondo di verità: forse Xelhua era una personaggio reale che, come Viracocha o Queztalcoatl era riuscito a fondare una nuova civiltà e aveva costruito la piramide come simbolo del suo potere?
Fonte: www.yurileveratto.com/it

mercoledì 29 maggio 2013

Sediba: scoperto l'anello mancante fra l'australopiteco e l'uomo.

Un strano ominide che forse cambierà la storia evolutiva.

L'australopiteco sediba, di due milioni di anni fa, è un mosaico di tratti umani e scimmieschi e gli scienziati non sanno dove collocarlo tra gli antenati dell’Homo sapiens
Due scheletri fossilizzati, abbastanza completi e ben conservati, di alcuni strani australopitechi che vissero in Africa quasi due milioni di anni fa sconcertano gli investigatori di 16 istituzioni di tutto il mondo che li hanno studiati a fondo. Gli Australopithecus sediba erano capaci di camminare eretti, benché non con tanta scioltezza come la specie umana, dato il loro tallone scimmiesco; ma, contemporaneamente, si arrampicavano sugli alberi e sulle rocce con destrezza. Per i loro denti, la colonna vertebrale e la mandibola sembrano uomini primitivi, ma le spalle, le braccia e la scatola toracico superiore somigliano a quelle delle grandi scimmie. La strana creatura aveva il cervello piccolo.
Dove s’incastra nell'albero di famiglia degli ominidi?
I paleontologi non riescono a chiarirlo già da due anni, da quando identificarono i fossili in Sudafrica. Da allora, gli scienziati, divisi in sei squadre di specialisti che si sono spartiti i fossili, denti alcuni, braccia altri, estremità inferiori altri ancora…hanno analizzato minuziosamente gli scheletri paragonando le ossa con resti di altre specie di australopitecos e di umani. Hanno scritto sei articoli nella rivista Science con le conclusioni.
Questo esaustivo esame dà l'idea di una specie di ominide che sembra un mosaico nella sua anatomia e che presenta un insieme di complessi funzionali differenti da ciò che si conosceva finora. Uno degli studiosi afferma: "La chiara visione dell'anatomia di questa specie di ominide primitivo avrà chiaramente implicazioni nel momento di interpretare il processo evolutivo degli ominidi e l'interpretazione dell'anatomia delle specie non tanto bene conosciute."
Berger, o piuttosto suo figlio Mathieu, di nove anni, scoprì il primo fossile di quello che si denominò dopo A.sediba, nell’agosto del 2008, nei paraggi di Johannesburg, in un posto chiamato Malapa. Berger, investigatore dell'Università di Witwateersrand, in Sudáfrica, iniziò con la sua squadra scientifica un'esplorazione intensa. In totale hanno portato alla luce i resti scheletrici di due individui, una donna e un uomo giovane, più un osso di un terzo. Misurerebbero 1,27 metri di altezza, lei peserebbe circa 33 chili e lui 27, e il suo cervello arriverebbe intorno ai 420 o 450 centimetri cubi, di fronte ai 1.200 a 1.600 del nostro.
Nell'antica visione dell'evoluzione, l'A.sediba sarebbe il perfetto anello perso, l'esemplare opportuno che ha alcuni tratti del precedente più antico e altri del seguente. Ma gli scienziati sanno che la cosa non funziona così che l'evoluzione non è una catena, bensì un'intricata ramificazione di specie con antenati comuni e parentele più o meno prossime. La questione è situare questo ominide con il suo mosaico di caratteristiche in quell'albero di famiglia. Inoltre, l'antichità è la chiave in questo caso perché due milioni di anni fa esisteva già in Africa l’Homo erectus, antenato dell’Homo sapiens e, sicuramente, il primo uscì dal continente antico e si espanse in Europa.
Gli investigatori, negli studi comparativi, si sono interessati soprattutto ai tratti dell’H.erectus e di un australopiteco anteriore all'A.sediba, l'A.africanus. Ma entra nel dibattito una specie in più di australopiteco, A.afarensis, alla quale appartiene il celebre scheletro Lucy, adottata come nonna ancestrale dell'umanità, benché ci siano già importanti paleoantropólogi che tirano fuori la famiglia di Lucy dalla linea evolutiva umana. Berger suggerisce la possibilità che A.sediba e forse A.africanus non discendano dal lignaggio di A.afarensis, e non arriva ad affermare che i fossili di Malapa si situino nella linea umana, ma Science dice che l'insieme di analisi presentato sembra mirare verso un probabile antenato del genere Homo. Il fatto che Lucy e la sua famiglia fossero bipedi sembra complicare le cose per gli A.sediba, se questi non discendono dagli A.afarensis. Ma multiple forme di bipedalismo furono praticate dai nostri primitivi ominidi, segnala lo scienziato di Johannesburg.
Le grandi domande circa l'estranea creatura di Malapa proseguono, e gli scienziati aspirano a rispondere quando avranno più fossili di questa specie. La prossima estate Berger e la sua squadra riprenderanno lo scavo nel giacimento. Forse l'A.sediba è un antenato remoto del Homo sapiens, o forse appartiene a una specie di ominide che finì in un vicolo cieco dell'evoluzione, cioè, una specie che si estinse.

martedì 28 maggio 2013

Gli Hyksos, gli antichi sovrani d'Egitto dell'età del Bronzo.

Gli Hyksos

Gli Hyksos (nome derivato dall'egizio Heqa kasut, che vuol dire "sovrani dei paesi stranieri") appartenevano a quelle popolazioni asiatiche che lentamente s’insediarono in Egitto durante la fine del Medio Regno. La loro composizione etnica comprendeva Semiti, Cananei e i futuri Ebrei. L'arrivo di queste genti fu caratterizzato da una lenta migrazione che portò in territorio egiziano un numero sempre maggiore di genti straniere senza però preoccupare i faraoni che, inizialmente, non videro in quest’ondata migratoria una minaccia. Queste popolazioni asiatiche stabilitesi nel Nord dell'Egitto crearono un gruppo di comunità che occupò la regione del Delta. Quando il potere centrale della XIII dinastia s’indebolì, gli Hyksos approfittarono del momento di fragilità del Paese per imporre la propria supremazia. Queste genti straniere seguirono la linea orientale del Delta e, partendo da Avaris, avanzarono verso Menfi, esercitando il potere fino al Medio Egitto. Non si conoscono con precisione le date che segnarono questi avvenimenti, ma la presa di Avaris da parte degli Hyksos può essere stabilita grazie a una stele risalente "all'anno 400, quarto giorno del quarto mese dell'inondazione, del re dell'Alto e del Basso Egitto Seth, grande di valore, il Figlio di Ra, il suo diletto, amato da Ra-Horakhty". Si tratta di un testo dell'epoca di Ramses II che riporta la data di fondazione del tempio del dio Seth edificato dagli Hyksos ad Avaris verso il 1720 a.C. Gli Hyksos, infatti, adottarono come dio dinastico proprio il rivale di Osiride e adorarono anche due divinità guerriere di origine siro-palestinese: Anat e Astarte. La prima dea era armata di scudo e ascia mentre la seconda era rappresentata a cavallo, completamente nuda, con la testa ornata dalla corona atef, un dono del dio Ra.
Gli Hyksos regnarono sull'Egitto per due dinastie: la XV e la XVI, di cui la seconda costituisce il ramo vassallo della prima. Poche sono le testimonianze della dominazione asiatica in quanto i faraoni che regnarono successivamente tentarono di cancellare ogni traccia dei sovrani stranieri. Le dinastie posteriori offrirono una visione distorta di questo periodo dipingendolo come un'epoca nefasta per il popolo Egizio. In realtà il dominio degli Hyksos non fu così deleterio per il Paese. Durante il loro governo essi conservarono la stessa struttura amministrativa dei faraoni Egizi, rispettarono anche i medesimi canoni artistici e diedero impulso alla diffusione della letteratura. I re asiatici portarono avanti la tradizione tipicamente egizia di incidere i propri nomi sugli scarabei, gli insetti sacri considerati divinità creatrici, che, sotto forma di amuleti, erano collocati tra le bende della mummia. Gli scarabei rappresentavano la fonte di luce e di calore che accompagnava il defunto verso la resurrezione e avevano un significato simbolico di resurrezione. Inoltre gli stessi re Hyksos si presentarono come faraoni a tutti gli effetti, pur conservando la propria cultura e i propri nomi semitici. Dall'alto della loro carica di sovrani si dedicarono alla costruzione di monumenti proprio come i faraoni che li avevano preceduti nella guida del Paese. L'invasione straniera ebbe anche un aspetto positivo poiché fornì qualche vantaggio alla popolazione sottomessa. Per quanto riguarda le innovazioni in campo militare, gli Hyksos introdussero in Egitto l'uso del cavallo come animale da traino e del carro da guerra, oltre che la spada curva, gli elmi e le corazze. La loro presenza in Egitto è testimoniata anche a Tell el Mackhuta e Tell el Yahudiya, località situate nella regione del Delta e a Sharuhen in Palestina, dove gli Hyksos possedevano una roccaforte militare. Il loro regno è segnato anche da importanti rapporti commerciali ed etnici con i levantini: ebbero contatti con Creta, l'Egeo, l'Anatolia e alcune località del Vicino Oriente, e strinsero legami di collaborazione con la Nubia, con la quale si allearono per contrastare il potere tebano. L'espansione di queste genti durò circa 50 anni prima che riuscissero a dominare l'Egitto. Il fondatore della prima dinastia degli Hyksos è Salitis che probabilmente regnò vent'anni, dalla regione del Delta fino a Gebelein. In Egitto questi Asiatici non erano gli unici ad avere potere, infatti a Tebe nacque una nuova dinastia di sovrani, la XVII, originata da un ramo della XVIII nel periodo in cui a capo degli Hyksos c'era il sovrano Yaqub-har, successore di Salitis. I re tebani regnarono da Elefantina ad Abydos per sessantacinque anni. Li seguirono Antef V, Nebiryerau I e altri, ma il re più famoso di questa parte della dinastia è Sobekemsaf II che governò da Tebe per sedici anni e fece costruire monumenti a Karnak e ad Abydos. Per quanto riguarda gli Hyksos, invece, a Yaqub-har successe Khyan, che insieme con Apophis I è il più noto dei sovrani stranieri. Questo re è famoso perchè detiene un primato: è, fra tutti i monarchi dell'epoca faraonica, quello che in assoluto ha lasciato tracce di sé in un più vasto raggio d'azione. Gli archeologi hanno rinvenuto oggetti con inciso il nome reale a Creta, Gebelein, Bubastis, Cnosso e in Palestina, scoperte che testimoniano un’intensa attività commerciale. In tutto questo fervore la Nubia continuava a essere pacifica. Il re nubiano Negeh assunse il potere, probabilmente con l'aiuto di ufficiali egizi, nel regno di Kush e stabilì la capitale nella città di Buhen estendendo il suo regnò da Elefantina fino, forse, alla quarta cateratta. Dopo il regno del re Hyksos Khyan, di cui non conosciamo il termine, in Egitto dominarono due grandi personalità: quella del re Antef VII per la città di Tebe e Apophis I per gli Hyksos, di Avaris. Antef VII fu un re che guidò in prima persona l'esercito negli scontri armati. Alla sua morte volle portare con sè nell'aldilà il corredo funebre del guerriero e nel suo sarcofago furono trovati due archi e sei frecce. Durante il suo regno la città di Tebe riuscì a mantenere buoni rapporti con i sudditi di Apophis I, tanto è vero che sono stati riscontrati anche legami di parentela fra gli Asiatici e la famiglia reale tebana. Le lotte aperte tra i due regni iniziarono alla morte di Antef VII, quando salì al trono Ta'o I e i rapporti s’incrinarono definitivamente con il re successivo, Seqenenra Ta'o II, detto "Il valoroso" Questo sovrano è uno dei protagonisti del racconto intitolato "La disputa tra Apophis e Seqenenra", pervenutaci grazie a una copia della XIX dinastia. La città di Avaris e quella di Tebe verso la fine del Secondo Periodo Intermedio giunsero allo scontro. La mummia dello sfortunato Seqenenra Ta'o II presenta ferite subite probabilmente sul campo di battaglia. Altre testimonianze di questa guerra tra Nord e Sud derivano da tre importanti documenti: una stele giuntaci incompleta, un'altra nota con il nome di stele di Karnak e la Tavoletta Carnavon, dal nome del Lord inglese che la collezionò, e che completa le altre due. Il testo delle steli e la tavoletta descrivono le ostilità tra tebani e Hyksos e la lotta di liberazione intrapresa da Kamose, figlio o fratello di Seqenenra Ta'o II contro gli Asiatici. Il re salì al trono intorno al 1550 in seguito alla morte del predecessore prendendo il posto del legittimo erede al trono, Ahmose, ancora troppo giovane per detenere il potere. La preoccupazione principale di questo nuovo re fu quella di eliminare gli Hyksos dall'Egitto. Kamose, infatti, non accettava l'idea di dividere il Paese con gli Asiatici e impegnò tutte le sue energie per liberarlo.

lunedì 27 maggio 2013

Cipro, la Sardegna e il rame




Cipro, la Sardegna e il rame
di Alfonso Stiglitz

Cipro è l’isola del rame per eccellenza, tanto da prenderne anche il nome. I suoi giacimenti sono indubbiamente i maggiori del Mediterraneo. In Sardegna è abbastanza diffuso ma non altrettanto facile da estrarre. A ciò vanno aggiunte le capacità tecniche e, ovviamente, la percezione che di una risorsa si ha. Il fatto che in Sardegna si trovi grande quantità di rame cipriota sottoforma di lingotto ox-hide (a forma di pelle di bue) ci dice che questa risorsa fosse richiesta; bisogna capire se per una minore estraibilità di quello sardo, di una minore capacità tecnica o se, e il che è possibile, quello cipriota fosse ritenuto migliore e, quindi più prestigioso (che poi lo fosse effettivamente o meno è un altro discorso, quello che conta è la percezione che allora se ne aveva).
La provenienza di questo rame da Cipro non è l’unico elemento, perché contemporaneamente troviamo in Sardegna oggetti ciprioti e, soprattutto, strumenti da metallurgo ciprioti. Allo stesso tempo vediamo comparire, nel bronzo finale, in Sardegna nuove tecniche di lavorazione, come la cera persa, che diventa uno degli elementi chiave della metallurgia nuragica. Questo fa pensare ad alcune cose, la prima è la presenza di metallurghi ciprioti, che nei rapidi cambi di situazione storico-politica ed economica nel Mediterraneo occidentale, cercano nuovi mercati per il loro lavoro e lo trovano all’interno di rotte già note da tempo; vedi la presenza di materiali micenei sino nella Spagna e di materiali nuragici sino a Creta. In secondo luogo ci fa pensare a quali fossero i beni dati in cambio dai nuragici che potessero interessare i ciprioti: personalmente, ma non sono il solo, individuo l’argento e lo stagno come beni primari di cui i ciprioti, con la nuova situazione creatasi, avevano bisogno, e forse anche il ferro. L’argento è il ferro sono risorse ampiamente presenti in Sardegna. Per lo stagno il discorso è un po’ più complesso. E’ noto che in Sardegna c’è qualche giacimento di cassiterite (il principale minerale stannifero) ma è in forte discussione l’effettivo utilizzo nell’età del Bronzo. Per il primo Ferro (intorno al IX-VIII a.C.) alcune analisi su dei lingotti di stagno provenienti da un possibile (ma non certo) relitto forse nuragico dalla marina di Arbus, hanno dato una compatibilità con la cassiterite dell’area di Villacidro (analisi di G.M. Ingo), analisi che però non convincono altri studiosi. Una attestazione simile si ha per reperti punici da Tharros. Comunque sia i giacimenti sardi sono poca cosa e non tali da richiamare grande attenzione da parte, ad es., dei ciprioti; e allora? Riteniamo sulla base del complesso quadro dei reperti di importazione trovati in Sardegna e dei reperti sardi trovati in tutto il Mediterraneo occidentale, che la Sardegna nuragica abbia svolto un’azione di mediazione tra i mercati villanoviani e iberici e quelli siciliani e del mediterraneo orientale. In altre parole ipotizziamo che i ciprioti e i levantini in generale abbiano ricevuto, in cambio del rame e degli altri oggetti di prestigio, oltre all’argento anche lo stagno proveniente dai giacimenti, decisamente ricchi, della Toscana (area di Populonia) e dell’Iberia (lingotti di stagno iberico sono stati trovato sulle coste israeliane) e che i nuragici a loro volta ricercavano per i loro prodotti in bronzo. Mentre l’argento è praticamente ignorato dai nuragici e il ferro poco usato. Questo è il quadro sul quale si sta lavorando; un quadro molto complesso, soprattutto per la quantità e la qualità di dati da analizzare.

Nell'immagine un lingotto in rame, del tipo ox-hide, conservato al Museo di Cagliari


sabato 25 maggio 2013

Parole, segni e scritti: l'alba della scrittura in Sardegna.



Parole, segni e scritti
di Pierluigi Montalbano

Dal suono al segno
Il cammino dalla parola alla scrittura è un cammino lungo millenni, nel corso dei quali l’uomo ha cercato di fissare la parola fuggevole in qualcosa di duraturo: verba volant, e, deve avere pensato all’inizio, picta manent: nascono inizialmente scritture di tipo pittografico, nelle quali viene riprodotto in disegni il contenuto delle parole: il disegno della casa “scrive” la parola casa.
L’esempio più conosciuto è l’utilizzo dei geroglifici nella scrittura egizia; nella scrittura geroglifica è documentato peraltro anche il valore consonantico dei segni; ad esempio oltre a significare la parola casa il segno grafico può assumere il valore del nesso consonantico cs.

Un simile valore hanno i segni rinvenuti a Serabit el-Khahim, una località del sinai, e perciò detti protosinaitici: derivati dai segni geroglifici, esprimono tuttavia una lingua di tipo semitico, affine al fenicio di epoca storica; si presume abbiano valore acrofonico, indichino cioè il valore della lettera iniziale dell’oggetto descritto; a titolo di esempio, una lettera a forma di “testa” esprimerebbe cioè il valore “t”, una a forma di serpente il valore “s”. L’uso di questi segni grafici risale alla metà del II millennio a.c.
L’adozione della scrittura fenicia si diffonde nell’area siriana-palestinese intorno all’XI-X a.c.: in essa si condensano tutte le sperimentazioni incontrate lungo il percorso; origine pittorica dei segni grafici, valore acrofonico dei simboli, suono esclusivamente consonantico (con l’esclusione dell’alef, prima lettera dell’alfabeto e unica vocale espressa).
Saranno i mercanti fenici a diffondere in tutto il mediterraneo la tecnica scrittoria, anche attraverso la mediazione del mondo greco: già Erodoto nel V a.c. poteva ricordare infatti l’introduzione dell’alfabeto in Grecia attraverso l’adozione delle lettere di origine fenicia.

Contesti supporti testi
L’archeologia per lungo tempo si è interessata principalmente dello studio delle espressioni artistiche delle civiltà classiche; in epoca contemporanea ha spostato e ampliato enormemente il proprio campo d’indagine, occupandosi dello studio (lògos) di tutte le testimonianze delle attività dell’uomo che ci sono pervenute dal mondo antico (archàios), principalmente attraverso lo scavo: vivere e morire, consumare e produrre, costruire, abitare, leggere e scrivere; tutto può lasciare traccia. le epigrafi costituiscono la traccia dell’attività scrittoria nel mondo antico e, alla stregua di tutti i materiali che l’archeologia studia, ricevono dall’analisi del contesto di rinvenimento un’importanza particolare.

Oggi l’epigrafia è epigrafia archeologica.
Studiare “archeologicamente” il dato epigrafico significa non fermarsi al contenuto di lingua, alfabeto e senso del messaggio scritto, ma approfondire la relazione tra il testo, oggetto qualificante dell’indagine epigrafica, e il suo supporto, l’oggetto sul quale è tracciato, il suo luogo di rinvenimento, le modalità di deposizione.
Su cosa è stato scritto quel messaggio: quale oggetto, quale materia è stata scelta?
Dove ho trovato quell’oggetto: una tomba, un sacello, la via di una città?
Come ho trovato quell’oggetto: è nella posizione originale, o è stato spostato, e perché?
Dallo studio archeologico dell’epigrafe riceve un senso più completo anche lo studio del messaggio epigrafico: non solo parole, ma un dialogo avvenuto in un luogo e tempo dato, con un preciso motivo.
Chi ha scritto? Per chi ha scritto? Per cosa ha scritto?
Questa mostra nasce per porsi alcune di queste domande, in relazione ad alcune delle più antiche testimonianze della scrittura in Sardegna; con l’auspicio di imparare, da archeologi, a porgersele ogni volta che il terreno avrà la generosità di restituirci ancora una volta un frammento di scrittura dell’antichità.

venerdì 24 maggio 2013

500.000 lettori, ringrazio tutti, uno ad uno, di cuore.

Quotidiano on line, record di visitatori
di Pierluigi Montalbano


Quando tre anni fa, era Maggio 2010, decisi di scrivere una serie di articoli a carattere divulgativo per chi si avvicinava per la prima volta alla disciplina archeologica, ebbi la sensazione di aver inaugurato un filone carente nel panorama culturale: l'anello di congiunzione fra studiosi e appassionati. Frequentavo convegni accademici, simposi, rassegne universitarie e mi accorsi che il linguaggio dei relatori non si conciliava con chi, desideroso di avvicinarsi ai temi storici, tentava di costruirsi una preparazione di base per "capire" questa bella disciplina. All'inizio improvvisai parecchio, sforzandomi di applicare un linguaggio semplice, volutamente didattico, rivolto ad un pubblico di largo respiro. L'idea era quella di aprire un caffè letterario sul web, un luogo virtuale nel quale incontrarsi, scambiare qualche idea, trascorrere qualche minuto in compagnia di autori, studiosi e appassionati di archeologia.
Erano dei racconti, come quelli che in Sicilia ascoltavo da mio padre nell'infanzia, quelli dei pupi e delle marionette, dei cavalieri e dei paladini. In seguito ho provato ad approfondire qualche tema, con l'ausilio di docenti universitari che si sono cimentati nella stesura di articoli non specialistici. Poi, progressivamente, ho inserito scritti più complessi, alternati a quelli didattici, per sondare la risposta dei lettori. Oggi siamo giunti a 1117 articoli, oltre mezzo milione di lettori complessivi, 22.000 visite mensili, numeri che confermano la bontà delle scelte compiute. Tutto è migliorabile, sempre, e continuerò ad apportare piccole modifiche per offrire un prodotto sempre appetibile.
Al momento ho sempre rifiutato offerte di sponsorizzazione, spot pubblicitari e destinazione di spazi a link commerciali, tuttavia il tempo che dedico al giornale supera ciò che era il mio proposito iniziale. Per quest'anno continuerò a resistere alle lusinghe monetarie, ma non posso garantire che per il 2014 gli spazi saranno totalmente liberi dalla pubblicità.
Ringraziandovi tutti per aver condiviso con me questa avventura vi stringo tutti in un virtuale abbraccio e vi ricordo che domani, 25 Maggio, alle ore 17.00, presso l'Associazione Marinai d'Italia a Cagliari, ingresso molo all'inizio di Viale Colombo, sarò relatore sulle navicelle bronzee nuragiche. Ingresso libero.

giovedì 23 maggio 2013

Statue giganti di Monte Prama, un mistero con spiragli di luce.

Monte e Prama: 4875 punti interrogativi
di Marco Rendeli

Nonostante il vasto successo che le statue di Monte e Prama hanno riscosso, soprattutto in Sardegna, di esse si sa ben poco. Solamente con l’avvio del restauro voluto da A. Boninu, si è intrapreso un ampio progetto che comprende la pulizia, il restauro e la ricostruzione delle stesse da parte del Centro di Conservazione Archeologica presso il Centro di Restauro Regionale di Li Punti. Tutti i pezzi sono stati portati e assemblati in un unico luogo: si tratta di oltre 4900 frammenti delle dimensioni e delle fogge più varie che restituiscono quello che a oggi è il più grandioso complesso statuario della Sardegna preromana e uno dei più importanti del Mediterraneo.

I frammenti furono recuperati in scavi effettuati in località Monte e Prama, nel Sinis settentrionale (Oristano) nel corso degli anni Settanta. La storia delle ricerche è lacunosa, frammentata e si dipana fra interventi estemporanei (scavi Atzori nel 1974, scavi Pau 1977) e indagini programmate (scavi Bedini 1975, scavi Lilliu, Atzeni, Tore gennaio 1977, scavi Ferrarese Ceruti-Tronchetti 1977-1979). Delle indagini condotte da A. Bedini in un settore limitato del sepolcreto è imminente la pubblicazione di un preliminare: di esse si sa che sono tombe a cista con pareti litiche con una forma successiva di monumentalizzazione, ovvero di copertura formata da lastroni; gli scavi Lilliu, Atzeni, Tore sono confluiti in un importante contributo di G. Lilliu; degli scavi condotti in maniera impeccabile da Tronchetti e dalla Ferrarese Ceruti fra il 1977 e il 1979 si ha un’ampia documentazione (TRONCHETTI 2005 con bibliografia precedente). Il sito si disloca quasi al centro di un distretto ricchissimo di presenze protostoriche (nuraghi, pozzi sacri, luoghi di culto) di civiltà nuragica, la cui vita si scagliona dal Bronzo recente fino alla piena età del Ferro. Dalle relazioni di scavo pubblicate da Tronchetti si rileva che i frammenti furono rinvenuti in un unico contesto coerente che obliterava una serie di tombe a pozzetto con lastre di chiusura litiche disposte a formare un unico “serpentone” recintato da altre lastre di calcare (fig. 3). Queste tombe, in numero di 33, formavano un unico contesto di personaggi maschili e femminili, appartenenti a diverse classi d’età (dai 13 ai 50 anni), rinvenuti in posizione seduta uno per singola tomba. Esse risultano apparentemente prive di corredo: pochi frustuli ceramici nelle tombe 1-2 e dalla 24 alla 34. Fanno eccezione la t. 25, dalla quale proviene uno scaraboide databile alla fine dell’VIII a.C., e alcuni vaghi di pasta vitrea pertinenti a collane dalle tombe 24, 27 e 29: questi sono al momento gli unici materiali che possono rappresentare termini utili per comprendere il momento di formazione della necropoli.

Si è discusso, soprattutto in ambito sardo, se tombe e statue potessero appartenere a un unico contesto e potessero essere parte di un unico programma di monumentalizzazione di un’area funeraria: data la contiguità stratigrafica fra lo strato di obliterazione che le conteneva e le stesse tombe, i cui lastroni di chiusura si trovavano a contatto con lo stesso strato di obliterazione, non sarebbe fantasioso poter ritenere che essere potessero essere parte di un unico complesso funerario.

Un indizio, sia pur labile, sta anche nel fatto che i lastroni delle tombe a cassa, i lastroni del recinto e le statue sono tutti della medesima pietra cavata a poche centinaia di metri dal sito. Di sicuro, dalle analisi effettuate nel corso del restauro, emerge che le statue fossero state distrutte volutamente, rotte e spezzate con la subbia in determinate parti dei corpi dei guerrieri, e che l’area fosse stata interessata da un incendio le cui tracce si riconoscono in molti dei frammenti pervenutici. La distruzione potrebbe essere avvenuta in una fase anteriore, o coincidente, con la metà del IV a.C. in base frammenti ceramici più recenti rinvenuti nello strato di obliterazione che conteneva i frammenti di statue. Ciò acuisce la difficoltà nel ricostruire la genesi del complesso, ovvero se la realizzazione delle statue fosse contestuale a quella delle tombe, oppure se fosse precedente o successiva: ma ciò crea, a mio modo di vedere, un cortocircuito dal quale è difficile uscire. Forse si può affermare che tombe e statue per una certa fase (più o meno lunga) sono state parte di un medesimo complesso; che le statue con i modelli di nuraghe rappresentavano un segno nel territorio e che questo segno forse era connesso a un sepolcreto; che la distruzione avesse comportato l’obliterazione di un complesso visibile e conosciuto in maniera veramente radicale senza peraltro intaccare la sacralità dei defunti. Mi chiedo se chi ha distrutto il complesso monumentale avesse la percezione di trovarsi di fronte alla dualità del monumento sacrario e dell’area funeraria a esso connessa.

mercoledì 22 maggio 2013

Il Nuraghe e il villaggio di Palmavera

Il Nuraghe e il villaggio di Palmavera

di Marcello Cabriolu
Il complesso di Palmavera di Alghero - F.Selis Photo Archive



Nel 1905, a seguito della volontà da parte del Soprintendente A. Taramelli di indagare un sito in prossimità del mare per cogliere elementi di importazione tra i prodotti indigeni, si decise di scavare il Nuraghe Palmavera. 
Il lato meridionale del nuraghe - F.Selis Photo Archive
Questa scelta fu motivata dal fatto che l’area, dall’enorme massa di pietre sconvolte, occupava una posizione dominante, ma allo stesso tempo si presentava riparata e facilmente raggiungibile dalla strada provinciale. Le indagini condotte, rese a segnare i limiti della costruzione e le parti che la costituivano, evidenziarono una struttura formata originariamente da un Mastio (torre A) e da alcune capanne attorno, edificate attorno al XVI a.C., tutto in calcare. 
Il supporto dell'ascia bipenne nella capanna delle riunioni - F Selis Photo Archive
La seconda fase edilizia, individuabile tra il XII e il X a.C., dovrebbe coincidere con il momento di edificazione della torre B, in calcare anch’essa, che venne compresa, tramite il rifascio in arenaria, in un unico corpo con la torre arcaica e con una sorta di cortile interposto tra le due strutture. 
Tronetto dell'autorità - F.Selis Photo Archive
Nello stesso momento il villaggio crebbe e sorsero numerose altre capanne e strutture, compresa la capanna delle riunioni. Al momento è ancora possibile notare uno stacco netto tra la struttura turrita e il resto del villaggio. La separazione è resa dall’antemurale di forma pentagonale, con torri disposte nei vari vertici liberi, a eccezione del versante sud ovest, occupato dalla capanna delle riunioni. Quest’ultima risulta l’unica struttura inglobata nel temenos, un recinto sacro. 

martedì 21 maggio 2013

Convegno a Cagliari sulle Navicelle Bronzee Nuragiche

Cagliari: Le Navicelle Bronzee nuragiche.


Sabato 25 Maggio, alle ore 17.00, nella sala convegni dei Marinai d'Italia, in Viale Colombo a Cagliari, all'ingresso del Molo, con ingresso libero, sarò relatore sulle navicelle bronzee nuragiche, frutto della mia tesi di laurea, per fornire un punto di vista differente a chi avesse voglia e tempo per approfondire, affidando al filtro dei partecipanti ogni conclusione sul tema affrontato. Proietterò immagini e filmati che contribuiranno a mettere in luce le argomentazioni.
I bronzetti delle navicelle, per la loro rarità iconografica, hanno certamente avuto carattere più votivo che pratico, e perciò è arduo interpretare il significato più profondo di queste opere artistiche. Inoltre il fattore decorativo ha, fra le sue convenzioni, il produrre immagini che superano o alterano nel mito ornamentale gli elementi della realtà e della natura. Per questi motivi propongo ai lettori una chiave interpretativa che deve funzionare secondo la visione propria di ogni singolo osservatore, secondo la propria cultura, le proprie considerazioni e le proprie convinzioni, senza lasciarsi suggestionare dalle teorie che per decenni hanno visto gli studiosi cimentarsi in un lavoro di ricostruzione storica, riguardo la Sardegna, che vedeva il popolo isolano incapace di navigare, di proporre una civiltà pari almeno a quelle dei popoli vicini e di produrre cultura. Invito tutti a riflettere su tutto ciò che i nostri avi ci hanno lasciato, dai nuraghi ai bronzetti, dalle ceramiche alle tombe dei giganti, dai manufatti in ossidiana ai lingotti ox-hide.
Tutte le navicelle pongono quesiti di difficile soluzione per la funzione svolta. Erano barche in miniatura? E' possibile creare questi oggetti se non si hanno competenze marinaresche?Le tracce archeologiche metallurgiche, ceramiche e architettoniche lasciate dai sardi sono numerose e importanti. E' possibile che ci siano così tante ipotesi ma nessuna sia convincente? Proverò a rispondere a questi questiti fornendo la mia personale interpretazione sulle vicende dell'epoca.




lunedì 20 maggio 2013

Il primo Ferro in Sardegna, di Giovanni Ugas


Il primo Ferro in Sardegna
di Giovanni Ugas
da Atti I.I.P.P.

Nell’ultimo trentennio si è assistito a scoperte straordinarie che hanno portato preziosa linfa alla conoscenza del I Ferro in Sardegna, ma la comprensione e la restituzione dei processi culturali di questo periodo risentono non poco della profonda carenza di dati sui siti funerari, dell’assenza di un mirato programma di ricerca e, infine, del fatto che le pubblicazioni degli scavi spesso risultano limitate a notizie preliminari e a informazioni decontestualizzate. A ragione di ciò, occorrono ancora tanti passi per definire l’esatta composizione del quadro d’insieme e delle singole facies archeologiche. A ciò vanno aggiunte le incertezze sull’adozione delle cronologie calibrate scaturite dalle analisi dendrocronologiche rilevate in insediamenti palafitticoli svizzeri (Sperber 1987); da queste consegue un
consistente rialzamento cronologico delle tappe del Bronzo finale e del I Ferro accolto con favore da diversi studiosi italiani (Guidi e Whitehouse 1996) e tuttavia non si può non condividere le perplessità manifestate da L. Morris (1996, p. 59, s) e da G. Bartoloni (2009, p. 28, s) per quanto attiene in specie le fasi più recenti del I Ferro, già ancorate ai dati della letteratura antica.
1.1. I Ferro: nuragico finale, o post nuragico, o sardo?
Talora gli studiosi sardi si chiedono se il primo Ferro rientri o non all’interno della civiltà nuragica, dando risposte diverse. La questione non investe solo aspetti terminologici ma anche, e soprattutto, contenutistici. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, G. Lilliu (1988, pp. 417-481) attribuisce decisamente il I Ferro alla civiltà nuragica, considerata la IV fase e definita anche «La stagione delle aristocrazie». Più tardi, l’archeologo adotta anche il termine post nuragico, intendendo che il ciclo dell’architettura dei nuraghi si chiude col Bronzo finale. Lo stesso appellativo post nuragico era impiegato da F. Lo Schiavo ma avendo in mente una diversa composizione della cultura materiale del I Ferro e del Bronzo
finale. Se infatti diversi studiosi (Lilliu 1988, 1997; Contu 1997, pp. 699-730; Ugas 1998, pp. 260; Bernardini 2007b, pp. 11-30) assegnano al I Ferro una parte consistente della bronzistica figurata indigena, la ceramica a decoro geometrico e i modelli di nuraghe, diversamente altri (Lo Schiavo 2000, pp.117-132; 2002, pp. 70, 52, 59; Santoni 2008 pp. 543-656; Manunza 2008, pp. 250, s) li attribuiscono al Bronzo finale, ritenendo che gran parte degli elementi contenuti nella fase
IV Lilliu debba essere correlata con la funzione primaria dei nuraghi e dunque inclusa nella fase II. Si tratta invero di differenze non trascurabili scaturite principalmente, ma non solo, dalle diverse letture e interpretazioni dei dati stratigrafici degli scavi. Riguardo alla questione terminologica, dal momento
che l’aggettivo nuragico deriva dal vocabolo nuraghe è implicito che la civiltà nuragica termina nel momento in cui i nuraghi non hanno significato per le popolazioni sarde e dunque nel momento in cui non vengono più costruiti e, soprattutto, perdono la funzione primaria di residenze di capi. Nonostante le differenze di idee già rimarcate, gli studiosi sono sostanzialmente d’accordo sulla data in cui i nuraghi non furono più costruiti: intorno al 900-850 a.C. secondo la cronologia tradizionale e pertanto il I Ferro sardo può essere considerato post nuragico, ma occorre tener presente che questo termine è inadatto per definire una facies o un periodo dal momento che post nuragico è qualsiasi evento successivo ai nuraghi, anche dell’età contemporanea. Inoltre, ed è la cosa fondamentale, molti nuraghi non furono abbandonati nel I Ferro ma ristrutturati e utilizzati come templi ed è palese che essi mantennero un ruolo fondamentale tra le comunità del IX-VII secolo, come ben evidenzia anche la riproduzione dei tanti modelli di nuraghe in pietra, bronzo e argilla. Anzi, proprio sotto il segno emblematico del nuraghe le aristocrazie vivono tutta la fase geometrica del I Ferro e dunque l’espressione “nuragico finale” ben si addice almeno a questo segmento temporale, benché connesso con un nuovo modo di sentire il mondo dei nuraghi da parte dei Sardi del tempo. Invero, per tutto il periodo che corre tra il IX e il secolo VI, nell’isola non si conoscono esempi di fortificazioni indigene diverse dai nuraghi ed è possibile,
anzi, che diversi nuraghi siano stati ristrutturati e rivitalizzati come fortezze nel VI secolo, per far fronte al generale cartaginese Malco (Meloni 1947, pp. 107-116), o già prima negli ultimi decenni del secolo VII, quando le lotte intestine portarono a incendi e distruzioni di vari edifici, in particolare le sale del consiglio (S. Anastasia di Sardara: Ugas e Usai 1987). Una fortissima resistività del nuraghe emerge anche in tempi successivi. In età romana numerosi nuraghi erano ancora luoghi sacri (Lilliu 1990) e nel sacello-fortezza di su Mulinu di Villanovafranca l’altare a forma di nuraghe accompagnò i culti sino al II secolo d.C. (Ugas 1992). Ancora più in là, in età vandalica e bizantina, il nuraghe (San Teodoro di Siurgus, Su Mulinu) diventa un luogo cimiteriale come gli altri edifici sacri cristiani (Ugas e Serra 1990, pp. 107-131; Ugas 1986, p. 77). Ciò considerato, si può ben impiegare l’appellativo nuragico anche per indicare il I Ferro e le sue
facies archeologiche. Non di meno può essere usato l’aggettivo “sardo”, a condizione che lo si considerigenericamente riferito alla Sardegna e non come un limes cronologico della “sardità”.

domenica 19 maggio 2013

India e musulmani: il Tāj Mahal

India e musulmani: il Tāj Mahal
di Samantha Lombardi


Il Tāj Mahal, capolavoro dell’arte musulmana in India, è uno dei monumenti più conosciuti del mondo e costituisce l’apice dell’architettura sepolcrale islamica. Fu voluto da Shāh Jahān, imperatore dal 1628 al 1658, appartenente alla stirpe islamica dei Moghul e discendente delle tribù mongole comandate da Attila e Gengis Khan.
Nel 1526, il condottiero Moghul, Bāber arrivò in India dall’Asia Centrale e dopo aver rimosso la dinastia musulmana, che da più di trecento anni vi regnava, fondò il suo impero stabilendo la sua capitale ad Agra, a sud di Delhi, non lontana dal deserto del Rajasthan. In quella città, che era appena stata sottratta al Clan guerriero indiano dei Rajputi, Bāber intraprese dei lavori per creare un parco che chiamò Rambagh, fece, inoltre, scavare un pozzo e deviare le acque del fiume Jumna per alimentare canali, terme e fontane. Con i suoi giochi d’acqua, i sentieri simmetrici e le innumerevoli distese di fiori, il Rambagh divenne il modello di tutti i giardini moghul compreso quello del Tāj Mahal . Tutti gli imperatori che succedettero a Bāber continuarono la sua opera. Non fu però unicamente il rispetto della tradizione a far nascere il Tāj Mahal , un’opera alla cui origine sta il grande amore che un uomo nutriva per la sua donna, in realtà, Shāh Jahān fece edificare questo capolavoro senza eguali come mausoleo per la moglie Arjumand Banu, più nota con l’appellativo (da cui l’edificio prende il nome) di Mumtāz Mahal, morta dopo aver dato alla luce una bambina, il suo quattordicesimo figlio, seguendo il marito in una campagna militare nel sud dell’India.
Sei mesi dopo la morte della regina, avvenuta a Burhanpur nel 1631, il suo corpo venne portato ad Agra e fu collocato temporaneamente in una cripta vicino alla località destinata per l’edificazione della tomba definitiva che, negli intenti di Shāh Jahān, doveva essere il più singolare monumento mai costruito per una donna.
Molti dubbi e poca certezza sul progettista del Tāj Mahal, ma la leggenda vuole che a realizzarlo sia stato l’architetto Ustād ‘Isā. Si narra che, al completamento dei lavori, Shāh Jahān abbia fatto tagliare le mani ai capomastri, accecare i calligrafi e decapitare l’architetto perché nessuno di loro potesse più creare un secondo edificio simile. Ugualmente prive di fondamento sono le congetture secondo cui il monumento, in perfetto stile indo-persiano, sarebbe stato disegnato da un europeo. Aldilà delle analisi stilistiche e all’infondatezza delle fonti, su cui queste ipotesi si appoggiano, è inammissibile l’idea che un architetto cristiano possa aver ricevuto l’incarico di costruire un edificio il cui ingresso (fino all’occupazione inglese) era proibito ai non musulmani, i quali, se disobbedivano al divieto, venivano condannati a morte. In aggiunta Mumtāz Mahal, come testimonia l’iscrizione che orna il suo sarcofago, era stata un’acerrima nemica del cristianesimo e aveva spinto Shāh Jahān a massacrare i portoghesi che si erano stanziati a Hooghly (oggi Calcutta).
Secondo l’ipotesi di altri studiosi l’ideatore più probabile fu, il persiano, Ustād Ahmad Lahori che, in precedenza, aveva già ricevuto da Shāh Jahān l’incarico di disegnare alcune delle sue opere più grandiose in realtà, molto prima dell’ascesa al potere di Shāh Jahān, gli scalpellini indiani erano famosi in tutto l’Oriente per la loro non comune capacità nel lavorare la pietra.
Sebbene la dimostrata capacità delle maestranze locali, l’imperatore, fece arrivare ad Agra artigiani provenienti da tutta l’Asia: dalla Turchia, Ismail Afandi, che creò la gigantesca cupola del mausoleo; da Lahore, (nel Pakistan) un esperto gioielliere che ebbe l’incarico di modellare in oro la cuspide della cupola; da Delhi, validissimi mosaicisti; ma gli artisti venuti dalla Persia, e in particolare da Bagdad e da Shiraz, furono determinanti nel dare al Tāj Mahal il suo singolare stile misto, indiano e persiano. In particolare, da Shiraz, fu chiamato Amamat Khan, famoso maestro di calligrafia, che decorò la facciata e la cripta del mausoleo con iscrizioni in caratteri arabi. Le iscrizioni che ricoprivano le nicchie, gli archi, le cupole, i portali e i minareti riproducevano, da più di un millennio, un motivo tipico dell’arte musulmana che impiegava i segni eleganti della scrittura per definire lo spazio architettonico e, soprattutto, per offrire agli occhi dei fedeli alcuni brani dei testi sacri islamici.

I lavori, iniziati nel 1631, continuarono senza interruzione per diciassette anni e richiesero il lavoro di oltre ventimila operai. Per ospitarli tutti nacque, davanti al cantiere, un piccola città che prese il nome di Mumtāzabad in onore della regina scomparsa. Questa città si sviluppò con una prosperità tale da diventare più importante della stessa Agra. Con l’inizio della realizzazione della tomba, a Mumtāzabad, cominciarono ad arrivare numerose file di carri che trasportavano i diversi materiali da costruzione, come: il tufo rosso e il marmo bianco; pietre rare quali: la giada e il cristallo; ma anche: il turchese, i lapislazzuli e il crisolito; nonché: le conchiglie, il corallo e la madreperla.
Il Tāj Mahal sorge all’interno di un grande giardino a pianta quadrata forma preferita dall’architettura islamica e simbolo della perfezione divina. Attraverso la porta si entra nel caravanserraglio, collegato al mausoleo, e si giunge al portale del giardino, un’enorme costruzione in arenaria rossa valorizzata da arabeschi e iscrizioni coraniche sapientemente realizzate con lettere di marmo bianco, con torri ottagonali e undicichattri come fastigi. I quattro viali, straordinariamente larghi, tagliati dai canali, si incontrano al centro del giardino in una vasca di loto: i due orizzontali si connettono, nella cinta muraria, ad altrettanti padiglioni d’acqua mentre, i due verticali, ornati da una serie di fontane, ingrandiscono l’asse di contatto al monumento anticipato nel riflesso dei canali. Il giardino geometrico, che circonda il mausoleo, è dominato dalla grande fontana centrale nelle cui acque si riflette la cupola del mausoleo. Il parco fu chiaramente progettato sul modello del giardino persiano che prevedeva l’inserimento degli elementi naturali in una struttura artificiale creata dall’uomo.
Due moschee, in arenaria rossa e cupole di marmo bianco, fiancheggiano il Tāj Mahal: la struttura occidentale, con tre cupole e i pennacchi incorniciati da arabeschi di pietra dura, ha il soffitto interno coperto da affreschi, mentre, quella orientale, perfettamente simmetrica all’altra, non fu mai usata per il culto e serviva probabilmente per la sola funzione estetica; sul retro di queste moschee una terrazza con un edificio secondario, si affaccia sul fiume Yamuna. Sull’alta piattaforma, rivestita di marmo bianco, con la parte frontale di 94 metri, si erge un cubo di 57 metri di lato con gli angoli tagliati che gli danno la sagoma di un ottagono.

Il mausoleo, vero e proprio, è la grande struttura centrale. Sormontato da una cupola, di 26 metri di altezza e 18 metri di diametro, poggia su un alto tamburo rettangolare, di arenaria rossa, alto 7 metri e delimitato, ai quattro angoli, da altrettanti chattri di 42 metri d’altezza creati per dare slancio verticale all’insieme e concluso da un fiore rovesciato che regge un pinnacolo dorato a doppio vaso motivo ripreso anche sulle chattri. I minareti, collocati agli angoli della piattaforma, delimitano lo splendido mausoleo.
Sulle quattro facciate principali, di 33 metri di altezza, si aprono gli imponenti ingressi con catini absidali amuqarnas . La struttura del mausoleo, realizzata in mattoni, è interamente rivestita da lastre di marmo bianco in cui raffinatissima è l’ornamentazione che comprende nicchie, stalattiti, pannelli con tralci di fiori in rilievo, scritte coraniche in marmo nero, motivi a onda policromi, arabeschi e intrecci floreali ottenuti con finissimi intarsi di pietre dure e preziose quali: topazi, zaffiri, corniole, diaspri, crisoliti ed eliotropi.
“Quando la tomba venne terminata l’imperatore adagiò sul feretro della moglie i diamanti più preziosi del suo tesoro e fece stendere sul sarcofago un mantello di perle. Il sepolcro fu poi circondato da una balaustra d’oro e i pavimenti dell’intera stanza furono ricoperti da pregiatissimi tappeti di fattura persiana e moghul. Centinaia di candelabri d’argento e altrettante lampade d’oro furono appesi alle pareti e la porta d’ingresso fu arricchita di un cancello d’argento massiccio”.
Di tutti questi tesori, depredati durante le razzie che accompagnarono la fine dell’era moghul, rimane molto poco. Oggi, nell’enorme vano ottagonale della camera funeraria, collegata da corridoi a raggiera ai quattro ingressi e alle quattro camere d’angolo, troneggia il sarcofago di Mumtaz e quello di suo marito, Shāh Jahān, qui posto alla sua morte avvenuta nel 1666. Entrambe le tombe sono vuote, dal momento che, i corpi dei sovrani sembra siano stati trasferiti nella cripta sotterranea o addirittura, si suppone, che siano stati nascosti nella fondamenta e a tale scopo furono realizzate diciassette stanze sotterranee, inaccessibili. Le tombe di superficie sono oggi circondate da transenne ottagonali di marmo scolpite in una delicatissima filigrana e che riproducono quelle in oro fatte fondere da Aurangzeb (terzogenito dei defunti, fu sovrano dell’Impero Moghul dal 1658 al 1707). I mosaici di pietre preziose che ricoprono i due sepolcri sono considerati tra i più belli del mondo e la vivacità dei colori degli stessi contrasta con la sobrietà dei disegni calligrafici delle pareti superiori.
L’attenzione alle proporzioni e alla prospettiva, l’uso del prezioso marmo iridescente a seconda della luce, la curva armoniosa del bulbo della cupola, contribuiscono a smaterializzare la massa architettonica, creando la suggestione che il mausoleo emerga dallo sfondo del cielo e quasi galleggi sul tappeto verde del giardino…….. vagamente visione da sogno.

sabato 18 maggio 2013

Teseo, Minosse, Dedalo e altri miti greci

Teseo, Minosse, Dedalo e altri miti greci

In un'epoca molto lontana della quale quasi si è persa la memoria, si racconta che mentre Europa, figlia di Fenice e di Telefassa era intenta a giocare con le sue ancelle le apparve un torello candido come la neve che altri non era che Zeus. Questo, dopo averla fatta montare sulla sua groppa, la portò a Creta dove si unì a lei e poco dopo da questa unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone.
Quando Zeus lasciò Europa, quest'ultima sposò Asterione, re di Creta e poichè le loro nozze si rivelarono sterili, Asterione adottò i tre figli di Europa e li nominò suoi eredi legittimi. Alla morte di Asterione, Minosse rivendicò per se il trono di Creta dichiarando che quello era il volere degli dei e per essere certo di riuscire nell'impresa, pregò Poseidone di fare uscire qualcosa dalle acque del mare con la promessa di offrirlo poi in sacrificio al dio a testimonianza del volere degli dei. Poseidone accolse le preghiere di Minosse e fece uscire dalle onde del mare un magnifico toro bianco che valse a Minosse il regno di Creta. Quest'ultimo però, tanta era la bellezza del toro, non ebbe coraggio ad ucciderlo ed in sua vece sacrificò un altro toro.
Il re del mare, offeso per l'affronto subito, si vendicò in modo tanto crudele da restare come monito per le generazioni future: fece nascere in Pasifae, moglie di Minosse, una passione morbosa per il toro bianco tanto che, non sapendo come fare per accoppiarsi con lui, confidò la sua insana passione a Dedalo, il più famoso architetto ateniese in esilio a Creta, che per lei costruì una vacca di legno montata su quattro ruote dove la donna poteva introdursi per poter soddisfare il suo desiderio. E così fu. Dall'unione di Pasifae ed il toro nacque il Minotauro, una creatura dal corpo di uomo e la testa di toro che si nutriva solo di carne umana.
In questo modo il dio del mare volle per sempre ricordare a Minosse quanto folle sia l'azione di un uomo che si ribella al potere degli dei.
Minosse, quando vide la creatura, diede incarico a Dedalo di costruire un labirinto talmente intricato dal quale nessuno sarebbe potuto uscire per rinchiudervi il Minotauro, in modo che non avesse alcuna possibilità di fuga. Dedalo, nella speranza di guadagnarsi la fiducia del sovrano, costruì quello che è noto alla storia come il labirinto di Cnosso.
Vuole così la leggenda che il Minotauro venisse rinchiuso nel labirinto e che ogni anno sette giovani e sette fanciulle ateniesi (che erano stati vinti dal re di Creta) venissero sacrificati al Minotauro per saziare la sua fame di carne umana.
Per due volte fu ripetuto il sacrificio fino a quando, alla terza spedizione, giunse a Creta Teseo, figlio di Etra ed Egeo, sovrano di Atene, che si finse parte del gruppo dei sacrificandi perchè voleva porre fine a quelle morti. L'impresa era molto difficile non solo perchè doveva uccidere il Minotauro, ma perchè una volta entrato nel labirinto, era impossibile uscirne. Il giovane chiese allora aiuto ad Arianna figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, alla quale dichiarò il suo amore e questa a sua volta, innamoratasi perdutamente di Teseo, si consigliò con Dedalo che gli suggerì di legare all'ingresso del labirinto un filo che sarebbe stato dipanato mano a mano che si procedeva. In questo modo sulla via del ritorno, riavvolgendolo, si sarebbe trovata l'uscita.

Sul perchè Teseo abbandonò Arianna esistono diversi racconti. Alcuni affermano che fu a causa di una nuova amante, Egle figlia di Panopeo; altri affermano che decise di abbandonarla in quanto tornare ad Atene con lei sarebbe stato uno scandalo; altri affermano che Dioniso, apparso in sogno a Teseo, gli ordinò di abbandonarla perchè la voleva per se. Quale che fosse il motivo è certo che al suo risveglio Arianna cercò disperatamente il suo amato e pianse lacrime amare quando si rese conto di essere sola. Visto il pianto straziante della fanciulla che urlava di dolore, arrivò in suo soccorso Dioniso che la sposò e gli donò una bellissima corona d'oro, tempestata di rubini, forgiata da Efesto che venne alla sua morte mutata in costellazione: la costellazione di Arianna. Dioniso ed Arianna ebbero numerosi figli tra i quali Toante, Enopione. Teseo, dopo l'abbandono di Arianna fece ritorno in patria ad Atene dove, dopo breve tempo, divenne re al posto del padre e governò con saggezza ed il suo popolo conobbe un lungo periodo di pace e prosperità.

Analisi genetiche sui resti ritrovati in alcune tombe di epoca minoica hanno permesso di dissolvere il mistero che circondava l'origine di quell'antica cultura. I fondatori della prima civiltà di Creta non provenivano dalle coste dell'Africa settentrionale, come si è a lungo pensato, ma erano un drappello di quei gruppi di agricoltori indoeuropei che, attraversando l'Anatolia, andarono a popolare l'Europa.
La civiltà minoica era autoctona e fu fondata dai discendenti dei primi coloni europei dell'isola di Creta, che vi approdarono durante il Neolitico, circa 9000 anni fa. A questa conclusione, che contraddice la lunga convinzione che quella cultura avesse origine da una più recente immigrazione dalle coste del Nord Africa, probabilmente dall'Egitto, è giunto un approfondito studio genetico condotto da un gruppo di ricercatori dell'Università di Crera a Heraklion e dell'Università di Washington a Seattle, che firmano un articolo pubblicato su “Nature Communications”.

La convinzione che la prima grande civiltà sorta sul suolo europeo avesse origine africane risale agli inizi del secolo scorso, quando sir Arthur Evans scoprì le rovine del tempio di Cnosso. Evans aveva osservato diverse somiglianze l'arte tra minoica e quella egizia, rilevando che le tombe circolari dei primi abitanti della parte meridionale di Creta erano simili alle tombe costruite dagli abitanti delle coste libiche.

Particolare del tempio di Cnosso. (© Funkystock/ /age fotostock Spain S.L./Corbis)Successivi ritrovamenti archeologici avevano indotto altri studiosi ad avanzare varie altre ipotesi, come una provenienza dalle Cicladi, dall'Anatolia, dalla Siria, dalla Palestina, o anche uno sviluppo autoctono della civiltà minoica.

Tentativi più recenti di stabilire l'antica ascendenza dei Cretesi dell'età del bronzo usando DNA mitocondriale (mtDNA) e il cromosoma Y delle popolazioni moderne non erano finora riusciti a chiarire la questione, dando risultati contrastanti.

George Stamatoyannopoulos e colleghi hanno ora confrontato il DNA mitocondriale di 135 popolazioni moderne e antiche, analizzando in particolare i resti di scheletri ottimamente conservati ritrovati in due insediamenti di epoca minoica: uno (con 39 scheletri) di epoca “prepalaziale”, situato in prossimità del monastero di Odigitria, vicino a Festo, l'altro (con 37 scheletri) sull'altopiano di Lassithi, abitato ininterrottamente dal Neolitico e che raggiunse la sua massima espansione circa 3800 anni fa.

L'analisi dei polimorfismi del mt DNA condotta ricorrendo a due metodi diversi, applicati inoltre in due distinti laboratori, e il conseguente calcolo delle distanze genetiche, hanno permesso di concludere che gli attuali abitanti dell'isola sono discendenti diretti degli antichi Minoici e di escludere che questi avessero un'origine nordafricana.

Data la loro elevata affinità genetica con le popolazioni europee neolitiche e moderne, specialmente con i greci delle isole di Chio ed Eubea e del Peloponneso (e in particolare delle regioni storiche dell'Argolide e della Laconia), i fondatori della civiltà minoica sarebbero dunque stati i discendenti dei primi agricoltori neolitici indoeuropei, approdati a Creta durante la migrazione che, attraverso l'Anatolia, li portò a diffondersi in Europa.

venerdì 17 maggio 2013

Papa Francesco, Buenos Aires, la Sardegna e la Madonna di Bonaria

La Madonna di Bonaria di Cagliari
e Buenos Aires capitale dell’Argentina
di Massimo Pittau


In riferimento all'inquadramento storico fornito da Papa Francesco negli scorsi giorni, ho pensato di regalare ai lettori la replica di quest'articolo di Pittau pubblicato in questo quotidiano on line il 9 Dicembre dello scorso anno. Buona lettura.

Il santuario della Madonna di Bonaria è molto conosciuto e venerato a Cagliari, ma anche in tutta la Sardegna.
Tutti i Cagliaritani e tutti i Sardi, escluso qualcuno che sia fornito di una certa cultura storica, sono convinti che il relativo toponimo significhi «Buona Aria»; si tratta però di una convinzione del tutto errata, la quale è effetto di una vecchia paretimologia od etimologia popolare e di una conseguente errata traduzione nel catalano Bon Aire.
In realtà l’antica denominazione del luogo era Bagnaria, che era un adattamento pisano dell'originario appellativo latino balnearia «bagni, bagni pubblici» (vedi Bangiárgia, Donori). E infatti nel relativo sito di Cagliari sono stati trovati i resti di terme romane, fra cui un bel mosaico, raffigurante divinità marine e adesso conservato nel locale Museo Archeologico.
D'altra parte è molto significativo il fatto che nel secolo scorso il pur dotto Alberto La Marmora, constatando l'impaludamento del mare in quel sito, affermava che si sarebbe dovuto mutare il suo nome di Bonaria in quello di Malaria!
Comunque, nonostante quel macroscopico errore di interpretazione e di traduzione, è un fatto che il toponimo sardo abbia avuto una storia del tutto imprevedibile e addirittura straordinaria: il culto della cagliaritana Madonna di Bonaria, una volta diventata la catalana Madonna di Bon Aire, si è diffuso nella Spagna e in particolare a Siviglia con la nuova denominazione castigliana di Nuestra Señora de los Buenos Aires.
Non solo, ma proprio sotto la protezione e col nome di questa Madonna fu nel 1536 fondato dallo spagnolo Pedro de Mendoza quello stanziamento nell'America meridionale, che finirà col diventare la odierna capitale dell'Argentina Buenos Aires e in seguito anche una omonima città della Colombia e un’altra di Costa Rica...
Detto in altre parole, il nome di Buenos Aires capitale dell’Argentina è derivato dal nome della Madonna di Bonaria venerata dai Cagliaritani e dai Sardi!
Con le quali traversie linguistiche e storiche non deve sfuggire a nessuno di considerare quanto siano importanti le parole, anche quando vengono interpretate male!

Estratto da M. Pittau, I toponimi della Sardegna – Significato e origine, Sassari, 2011, EDES (Editrice Democratica Sarda).


Immagine di www.nikonclub.it (by ziobono).

giovedì 16 maggio 2013

La lingua dei protosardi e quella dei Baschi

La lingua dei protosardi e quella dei Baschi
di Massimo Pittau


Connessioni fra alcuni relitti della lingua dei Protosardi, che io ho cominciato a chiamare Sardiani per distinguerli dagli storici e odierni Sardi, erano state già proposte dal linguista tedesco Max Leopold Wagner, soprattutto nelle sue opere La Lingua Sarda - storia spirito e forma (Berna 1951, sigla LS) e Dizionario Etimologico Sardo, I-III (Heidelberg 1960-1964, sigla DES), e pure da quello svizzero Johannes Hubschmid, Sardische Studien (Bern 1953, sigla SSt). Non erano molte quelle connessioni e il Wagner, nella Appendice del suo Dizionario (vol. II), alcune le aveva lasciate cadere del tutto.
In seguito ho ripreso quelle connessioni nelle mie opere Dizionario della Lingua Sarda – significato e origine, I-II (Cagliari 2000, 2002; sigla DILS), La Lingua Sardiana o dei Protosardi (Cagliari 2001, sigla LISPR) e infine nel mio Nuovo Vocabolario della Lingua Sarda, 2013, inserito in Internet; sigla NVLS), alcune respingendole, altre aggiungendole.
In virtù di questi miei studi, successivi a quelli del Wagner e dello Hubschmid, io mi sono convinto che le connessioni tra i relitti della lingua dei Protosardi e appellativi della odierna lingua basca siano solamente i seguenti:

carba, carva «ramo d'albero», che è da confrontare con gli asturiani carba «sterpeto», garbu, gárabu «legna minuta», basco karbasta «palo provvisto di rami», provenzale garbo «tronco d'albero cavo» (SSt; LISPR). Si deve però considerare che questa connessione dell’appellativo protosardo con quello basco non è affatto esclusiva o univoca.
costi, cóstiche, cóstighe «acero trilobo» (Acer Monspessulanum L.) e «bòssolo» (Buxus sempervirens L.), che è da confrontare col greco ákastos «acero» (di origine ignota; DELL s. v. acer) e inoltre col basco gastigarh, astigarh «acero». Si deve ancora considerare che anche questa connessione dell’appellativo protosardo con quello basco e con quello greco non è esclusiva od univoca. Questa connessione inoltre induce a pensare a un fitonimo risalente al cosiddetto sostrato linguistico preindoeuropeo o “mediterraneo”, cioè a quelle lingue che si parlavano attorno al bacino del Mediterraneo prima che vi arrivassero i popoli indoeuropei, cioè i Greci, i Latini, gli Italici, i Celti, gli Slavi, ecc. Questo fitonimo “mediterraneo” pertanto risulta conservato in Grecia, in Sardegna e in Iberia.
cúccuru, cúccaru, cúguru «sommità della testa, cranio, cocuzzolo, cima di collina o di monte, colmo», che è da confrontare col còrso cúcculu «vetta», coi toscano cocoruzzo «cima di monte a forma di pera, cocuzzolo», manfredonino e tarantino cóccoro «cranio, sommità del capo», siciliano cúrucu «estremità o culatta di un pane bislungo», e inoltre con gli spagnolo salm. cocorina «sommità del capo», catalano cocoronell «sommità del capo; estremità di una cosa», basco kukurh «cresta», asturiano cucuruta «cima», antico provenzale cuguro(n) «sommità della testa». Si consideri però che la connessione dell’appellativo protosardo con numerosi altri dell’area mediterranea centro-occidentale induce a pensare ancora a un appellativo del sostrato “mediterraneo”.

mercoledì 15 maggio 2013

Stonehenge, cronaca di una escursione iniziata a Oxford.

Escursione a Stonehenge
di Pierluigi Montalbano


Sono le 7 del mattino, ma il sole è già alto a queste latitudini. Si parte presto per assaporare le bellezze culturali del Regno Unito, e un freddo pungente, al quale noi mediterranei non siamo abituati, ci accompagna lungo la High Street, la via che attraversa la piccola città universitaria inglese giungendo fino alla Beaumont Street, dove ci attende il bus per Stonehenge. Sam, la nostra guida, fortunatamente parla lentamente e ci spiega l’itinerario di viaggio, consegnandoci una mappa fotocopiata nella quale sono ben evidenti alcuni luoghi e orari, segnati in un rosso inquietante. Con un sorriso britannico ci fa capire che se dovessimo perderci quelle saranno le ancore di salvezza, ossia i punti di ritrovo nei quali troveremo il bus per rientrare a Oxford. Siamo una quindicina fra tedeschi, italiani, britannici e una giovane giapponese che sfoggia un inglese pulito, senza quelle caratteristiche tonalità che danno un forte tocco british ai locali. Saliamo sul piccolo bus, in realtà uno spartano furgone bianco con 16 posti, e ci accomodiamo nella fila dietro il conducente, una giovane ragazza che con fare sicuro avvia il motore e compie una manovra di inversione a U da brivido, tagliando la strada a tutte le auto in transito. Iniziamo bene…incrociamo le dita e, come di consueto, un bacino beneaugurante scambiato con mia moglie mi aiuta ad affrontare il viaggio. Lungo la strada per raggiungere il sito il panorama offre verdi colline affollate da cavalli, pecore e mucche che pascolano con tranquillità negli ordinati appezzamenti che si susseguono a perdita d’occhio. La giornata è tipicamente inglese, con un cielo grigio attraversato da qualche raggio di luce. Dopo quasi due ore giungiamo nel sito neolitico che si trova vicino ad Amesbury nello Wiltshire. Non distinguo alcuna monumentalizzazione, solo prati verdi e pecore che passeggiano sui lievi pendii, silenziosamente, senza che il forte vento agiti i loro animi sereni. Scendiamo dal bus e Sam ci mostra un cartello con una scritta perentoria: alle 10.20 il bus riparte. Mia moglie indica una collinetta alle nostre spalle, e in un istante mi accorgo di essere giunto nella mitica Stonehenge, la magica località megalitica che da tanto tempo desideravo visitare. Attraversiamo un sottopassaggio, saliamo su una breve rampa e accendiamo l’audioguida, inizia il racconto.

Stonehenge, il più famoso fra tutti i siti megalitici, è situato in posizione isolata nella piana gessosa e ondulata di Salisbury, tra le trafficate A303 e A344. Al primo sguardo, questo enigmatico sito appare più piccolo di quanto immaginato, sebbene la sua più grande pietra misuri quasi 7 metri fuori dal terreno e oltre 2 sottoterra.

martedì 14 maggio 2013

Fenici e Punici in Sardegna


Paolo Bernardini
Fenici e Punici in Sardegna - Atti I.I.P.P.


Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).

Fenici e Punici in Sardegna


La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X sec. a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, ancora legata nella tradizione degli studi alla problematica e per molti versi insoddisfacente nomenclatura della “precolonizzazione”, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume forme importanti nella cultura locale soprattutto con l’avvio del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo nelle botteghe
indigene della bronzistica figurata e della circolazione di un articolato bagaglio di imagerie vicino-orientale che trovano peculiari forme di adozione nell’artigianato autoctono, influenzando e condizionando, a livello più profondo, comportamenti sociali, modi di aggregazione, ideologie di potere. Nella rete dei commerci mediterranei e atlantici rivitalizzata dai Fenici sulla scia di tradizionali e accreditate rotte interne e internazionali gestite dalle popolazioni rivierasche dell’Occidente, la Sardegna appare profondamente coinvolta sin dalle fasi alte della seconda metà del IX sec. a.C. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia nel golfo di Alghero e organizzano con la comunità locale lo sfruttamento e la commercializzazione del vino del fertile territorio della Nurra. Il vino di Sant’Imbenia, trasportato in anfore di tipo levantino prima eseguite in impasto e poi tornite, talora decorate con motivi a cerchielli tipici del gusto indigeno, circola, a partire da tale data, nelle nuove frontiere degli insediamenti fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva, in parallelo con l’ampia attestazione in questi luoghi di brocche askoidi, anch’esse legate al consumo e all’uso del vino, e di altre forme significative di “contenitori” di merci come i vasi a collo. Anfore vinarie, prodotte nell’Algherese e in altre località dell’isola, brocche askoidi e vasi a collo sono presenti, oltre lo stretto di Gibilterra, in contesti databili appunto tra l’840 e il 775 a.C.; ma il fenomeno prosegue nel tempo, come attestano le brocche indigene provenienti da Cartagine, da Mozia e dall’isola di Creta. Esiste peraltro una prospettiva di studi che tenta di riportare la circolazione di questi materiali a orizzonti della fine dell’età del Bronzo o di primissima età del Ferro (Lo Schiavo 2005) anche coinvolgendo in questa prospettiva cronologica “alta” l’abbondante materiale sardo attestato in Etruria: Etruria e Sardegna. Non meno significativa è la presenza negli avamposti fenici dell’estremo Occidente di teglie, semplici o a base forata, la cui attribuzione a fabbriche della Sardegna, è sempre più verosimile e che introducono, accanto al tema della partecipazione sarda ai traffici fenici, prospettive di possibile stanzialità di gruppi di etnia sarda nelle nuove frontiere atlantiche. La prima metà dell’VII a.C. registra, nelle regioni costiere della Sardegna centro-meridionale, la presenza di nuclei insediativi fenici saldamente organizzati; i “fuochi” principali di irradiazione si individuano, sulla base dei dati conoscitivi attualmente disponibili, nel golfo di Palmas e in quello di Oristano; ma vi sono altre aree strategicamente sensibili, come la costa olbiese, dove sorge un importante santuario di Melqart che le ricerche iniziano a farci intravedere, e naturalmente l’ampia e appetibile insenatura del golfo di Cagliari, porta delle piane iolee dei Campidani e sede delle opulente comunità indigene del retroterra, che assumono
precocemente modelli culturali orientali. La formazione nell’isola di gruppi emergenti, che è forse ancora improprio, per lo stato delle conoscenze, definire come “aristocrazie”, ma che certamente partecipano a pieno titolo del mutamento epocale che nel Mediterraneo antico determina l’affermazione del potere gentilizio e di classe, trova nuovi motori di sviluppo e di accelerazione nel graduale inserimento nella nuova rete dei traffici occidentali e, soprattutto, attraverso la costante e profonda interazione con i centri fenici costieri. Sulky, nell’isola di Sant’Antioco, è quello meglio noto per l’imponenza e la omogeneità della documentazione restituita dagli scavi dell’abitato e del santuario tofet; ma non meno importante è la testimonianza della precocità del fenomeno di irradiazione nella regione interna sulcitana: da Monte Sirai al Nuraghe Sirai, dal nuraghe di Tratalias a quello di Tzirimagus per volgersi di nuovo alla costa con San Giorgio di Portoscuso e all’installazione insulare con San Vittorio di Carloforte. Nel golfo oristanese, i siti di Othoca, Tharros e Neapolis governano gli approdi costieri e organizzano una penetrazione capillare verso quei Campidani centrali, che studi recenti individuano come uno specifico e vitale distretto della Sardegna dell’età del Ferro; i territori oggi di Cabras, di San Vero Milis, di Narbolia, di Nuraxi Nieddu restituiscono infatti per questa età insediamenti abitativi, installazioni di santuario, arredi liturgici scolpiti quali i modelli di nuraghe e seriazioni ceramiche di rilievo, come nel caso delle brocche askoidi, delle pintadere, dei calici su lungo stelo fittamente decorati, nonché di una produzione bronzistica figurata di altissimo rilievo. Nei grandi santuari dell’etnia indigena, soprattutto quelli in collegamento con la grande via d’acqua del Tirso che facilita i percorsi verso l’interno, circolano prestigiosi manufatti prodotti o veicolati dai Fenici: che siano i vasi laminati in argento del Nuraghe Nurdole di Orani, le imagines orientali di Santa Cristina di Paulilatino o di Olmedo o i supporti di torciere di S’Uraki. In questi luoghi vi sono opere di bottega locale in cui fortemente radicati appaiono modelli e iconografie orientali: dalla trasposizione indigena dello schema del faraone trionfante al nuraghe Nurdole ai fieri arcieri corazzati di Sant’Anastasia di Sardara che pure ha restituito una importante serie di bacili.