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domenica 12 maggio 2013

Le bambole nell’antichità

Le bambole nell’antichità
di Samantha Lombardi


Il gioco è stato da sempre considerato il prodotto più puro e spirituale dell’uomo nel periodo dell’infanzia e che fa parte della sua vita in ogni sua età. Principalmente giocavano i piccoli per i quali il gioco si praticava spesso imitando le attività degli adulti. Giocattoli uguali un po’ dappertutto: giochi per maschi e giochi per femmine.
Non vi è dubbio che per le femminucce i giocattoli più desiderati furono sempre le bambole; l’unica compagna indivisibile delle bambine di allora, l’amica del cuore, dalla quale si separavano solo al momento del matrimonio; la sorella amorevole che, se morivano giovani o almeno nubili, le accompagnava nella tomba nel loro ultimo infelice viaggio.
E’ proprio nelle tombe, infatti, che si trova la maggior parte di queste bambole, a partire dalle grezze pupazze che, in Grecia, facevano i coroplasti, semplici artigiani che modellavano la creta, che proprio dal nome di bambola prendevano il nome. Ed è probabilmente una di queste pupattole, quella che tiene in mano la bambina raffigurata su una stele funeraria, proveniente dal Kerameikos, oggi nel Museo Nazionale di Atene, e che era distesa con lei dentro la sottostante tomba. Non è soltanto nelle sepolture a Taranto che si trovano quasi sempre le bambole, ma anche nel mondo romano e nel resto del suo impero e, quasi esclusivamente in quelle di giovanissime fanciulle rapite all’affetto della famiglia prima del matrimonio. Era infatti soltanto se si era ancora nubili che si aveva il diritto di tenerle accanto a se. Quando invece le giovani ragazze romane, andavano spose si svolgeva una cerimonia con la quale, alla vigilia delle nozze, la fanciulla si staccava da tutti i propri giochi e, iniziava la sua nuova vita, offrendoli agli dei Lari, protettori della famiglia, davanti ai quali ardeva perennemente il fuoco sacro. Poi, però, le giovani romane presero l’abitudine, come avevano da sempre fatto le loro coetanee greche, di portarli al tempio e donarli alla loro dea preferita.
Ovviamente vi erano molti tipi di bambole a cui veniva dato, immancabilmente, un aspetto adulto, sia che erano di pezza o riempite di stoppa, il cui unico vantaggio era quello di essere morbide. C’erano poi le bambole di creta, alcune ben fatte altre grossolanamente abbozzate, con braccia e gambe snodabili unite al corpo da lunghi perni. Naturalmente era la testa a cui gli artigiani dedicavano più tempo: dopo averla modellata nella creta la arricchivano con elaborate pettinature o copricapi, tutti molti riconducibili all’epoca a cui le bambole in questione appartenevano. Il corredo di queste bambole non si limitava, in ogni caso, unicamente al vestiario, ma erano munite anche di tutto il necessario per l’arredamento della propria casetta, una serie di oggetti in miniatura perfettamente consoni alle loro misure.
In Sicilia e precisamente nell’isola di Lipari, è stata rinvenuta, custodita nella tomba di una bambina vissuta nel V secolo a.C., una piccola bambola di creta, oggi nel Museo Eoliano di Lipari: la stessa, con il busto ben modellato, mostra una piccola testa molto curata con sui capelli, sempre di creta, un copricapo cilindrico ampliato superiormente, le gambe e le braccia, praticamente informi, sono attaccate al corpo mediante perni. I suoi vestiti, oggi ovviamente scomparsi, presumibilmente, dovevano coprire gambe e braccia per copiare l’abbigliamento di una giovane ragazza da marito. La pupae, un tempo vivacemente dipinta, conserva ancora l’azzurro del copricapo, il nero dei capelli e il rosso delle labbra. La bambola, anche se non era perfetta, era corredata da vasellame in miniatura i cui recipienti erano similari a quelli che venivano usati nelle abitazioni dell’epoca.



Indubbiamente oltre le pupae di creta c’erano le bambole di lusso e, a Roma in periodo imperiale, ce ne furono di bellissime. Una fra queste fu quella appartenuta a Crepereia, una fanciulla vissuta nella metà del II secolo d.C. e morta alla vigilia delle nozze, e che era stata posata nella tomba accanto alla sua proprietaria. Nel lontano maggio del 1889 durante i lavori per la costruzione del Palazzo di Giustizia di Roma, affiorò dal terreno un sarcofago sul quale era inciso: Crepereia Tryphaena; dalla forma semplice ed elegante, lo stesso, presentava la superficie ornata di strigilature ondulate che sottintendevano le acque del fiume infernale che le anime dovevano oltrepassare per giungere nel regno dell’oltretomba.
Quando si sollevò il coperchio, lo stupore fu grande, all’interno del sarcofago apparve un corpo intorno al quale fluttuavano le alghe che, in un primo momento, furono scambiate per una folta capigliatura corvina. Si trattava di Crepereia Tryphaena (figlia di Crepereio) morta quando aveva 18-20 anni, la fanciulla, divenne una romantica figura dell’archeologia e con lei divenne famosa anche la sua bella bambola (oggi ai Musei Capitolini di Roma). Per dimostrare che la defunta apparteneva ad una famiglia aristocratica fu sepolta ornata dei suoi gioielli, tra cui: orecchini, spille e alcuni anelli su uno dei quali vi era inciso il nome Filetus, forse lo sposo; sul capo vi erano tracce di una coroncina di mirto trattenuta da un fermaglio composto da piccoli fiori d’argento, mentre, una preziosa spilla d’oro con un ametista, tratteneva probabilmente la tunica con cui era abbigliata e che, nei secoli, si era dissolta insieme agli abiti.
La bambola, alta intorno ai 20 cm., coperta interamente, nei secoli, da uno strato melmoso, dopo un primo esame sommario, fece ipotizzare che era stata scolpita nel legno di quercia o di ebano, ma gli esami di laboratorio, a cui la bambolina fu sottoposta, rivelarono invece che il materiale utilizzato per la sua realizzazione fu l’avorio e che a causa della lunga permanenza in acqua si presentava indurito e scuro. Perfetta nell’esecuzione, testimonia una abilità artigianale che non trova confronto in altre bambole romane realizzate in quel periodo.
I capelli, probabilmente erano biondi, un colore che le Romane tanto amavano, erano acconciati con una pettinatura in voga ai tempi di Faustina Minore (II secolo d.C.). Il corpo della bambola di Crepereia, perfettamente liscio e ben modellato, era ben articolato, con gambe e braccia unite al busto tramite perni di avorio che lasciavano liberi i movimenti , il suo viso e la sua figura ricopiavano l’aspetto di una giovane ragazza molto elegante e contornata dal lusso, naturalmente, non vi era più traccia dei vestiti che dovettero essere belli e numerosi. La bambola era corredata da veri piccoli gioielli in miniatura, realizzati in d’oro: anellini, piccoli bracciali e i minuscoli orecchini, forse andati perduti, ma testimoniati dai lobi forati delle orecchie della pupae. Al pollice della mano destra aveva un anellino con una piccola chiave (oggi ai Musei Capitolini di Roma) che forse apriva il cofanetto di legno, ricoperto da piccole lastre di avorio, dove la sua padroncina riponeva i piccoli gioielli. Il cofanetto minuscolo ma raffinato conteneva al suo interno anche due pettinini in avorio e due piccolissimi specchi di argento.
Come abbiamo già accennato, era tradizione che una sposa alla vigilia delle nozze donasse a una dea i giocattoli della sua infanzia, ma la bambola e anche la presenza della coroncina di mirto ci fanno dedurre che Crepereia morì all’alba della sua vita di sposa e fu proprio a causa di questa morte precoce che è giunta fino a noi la sua pupae favorita, sua compagna per l’eternità.
Nel 1929, lungo la sponda destra dell’Aniene, a Tivoli, dove correva la Via Faleria, venne rinvenuta un’altra bambola, di avorio, somigliante a quella di Crepereia. Fu trovata dentro la tomba di Cossinia, o almeno si ritenne essere il suo corpo. Fanciulla di nobile famiglia tiburtina, quella dei Cossinii e vissuta tra la fine del II e gli inizi del III secolo, fu destinata, quasi bambina, al sacerdozio presso il tempio di Vesta a Tivoli. Dalle fonti sappiamo che quando morì aveva circa settantacinque anni e il popolo tiburtino le rese i massimi onori accompagnandola nel suo ultimo viaggio fino al sepolcro, che le fu assegnato con decreto del Senato.
Il sepolcro di Cossinia è composto da due basamenti posti uno accanto all’altro, su quello di cinque gradini in travertino poggia il cippo funerario, databile intorno al I secolo, mentre sotto l’altro, di tre, si riteneva doveva essere stato inumato il corpo della vestale, anche se, gli scavi effettuati sotto il sepolcro non hanno rinvenuto nulla, mentre sotto il vicino basamento venne trovata una sepoltura: si trattava del corpo di una giovane ragazza, di cui non si conosce l’identità ma probabilmente di famiglia aristocratica, deposto in una tomba scavata nella terra e rivestita da lastre di marmo, accanto le era stata posta una bellissima bambolina di avorio con tutto il suo corredo. Il ritrovamento della tomba di una vestale è stato smentito dai nuovi esami antropometrici condotti sullo scheletro rinvenuto e che hanno rivelato appartenere ad un soggetto giovane e non ad una persona adulta di oltre settant’anni. A smentire che fosse il corpo di Cossinia c’è anche l’incongruenza tra la datazione del cippo e il periodo in cui visse Settimio Severo.
La bambola, oggi al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, in Roma, è modellata come una fanciulla della sua epoca con i capelli pettinati e divisi in due pesanti bande che ricadevano sulle sue guance; fu scelta per lei la stessa acconciatura dettata da Giulia Domna, moglie di Settimio Severo, durante i primi anni del suo impero (193-211 d.C.). Abbigliata alla moda e con un vestiario molto considerevole, era provvista di tutto quel corredo necessario a rappresentare una bambola “ricca”: braccialetti d’oro per polsi e caviglie e pesante collana d’oro con maglia a catena. Anche questa pupaepossedeva un piccolo scrigno di pasta vitrea rosa con cerniere di rame.
In ogni caso, oggi possiamo ammirare questa bella pupae “di altri tempi” perché venne sepolta insieme alla sua giovane padrona spentasi prematuramente e che qualcuno amava molto, tanto da metterle accanto la sua bambola preferita perchè le tenesse compagnia durante il suo infinito viaggio nell’aldilà. Ci piace immaginare che anche Cossinia, che non morì in età adolescenziale, aveva una sua bambola e per la sua carica di vestale non aveva dovuto consacrarla agli dei.
Nel 1964, a nord di Roma, in località Grottarossa, sulla Via Cassia, durante alcuni lavori, in un cantiere edile, fu rinvenuto un sarcofago in marmo di accurata fattura decorato con scene di caccia, ispirate all’episodio di Enea e Didone descritto nel IV libro dell’Eneide, e con scene dall’inequivocabile significato funerario. Danneggiato durante i lavori di scavo, al suo interno fu trovato il corpo mummificato di una bambina vissuta intorno alla metà del II secolo d.C., presumibilmente morta di tubercolosi e dall’apparente età di 8 anni.
Appartenente ad una famiglia romana benestante e agiata, di cui non si conosce il nome, il corpo della “Mummia di Grottarossa”, così soprannominata, era stata mummificato senza asportarle nessuna delle parti interne, avvolte intorno al suo corpo sono state rinvenute solo bende di lino impregnate di sostanze odorose e resinose, utilizzate seguendo una pratica molto diffusa nel periodo imperiale sia in Egitto che in Medio Oriente; questa pratica, raramente attestata a Roma, ha fatto ipotizzare che la famiglia si poteva essere convertita al culto della dea egizia Iside. La giovane mummia, fasciata in una pregiata tunica di seta cinese, era ornata di gioielli, tra cui una collana in oro e zaffiri, orecchini d’oro e smeraldi e un anello sempre in oro sul quale era incisa la figura di una vittoria alata. Accanto al corpo era adagiata una bambola in avorio con braccia e gambe articolate insieme ad alcuni vasetti di ambra rossa e piccoli amuleti.
Attualmente, la “Mummia di Grottarossa,” è conservata, insieme al suo corredo, in un’apposita sala del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, dove è protetta da un’urna in cui temperatura ed umidità sono costantemente controllate, inoltre, per salvaguardarne la conservazione le luci sono attenuate e filtrate.
Nel 1993 a Vallerano, lungo la Via Laurentina, a breve distanza del G.R.A. di Roma, è stata rinvenuta, all’interno di un sarcofago, un’altra ricca bambola, simile alle precedenti, sistemata accanto alla sua giovane proprietaria dell’età approssimativa di 16 anni che, a causa della mancanza d’iscrizioni, è impossibile collocarla storicamente. Sicuramente la giovane fanciulla, considerato il ricco corredo funebre, doveva appartenere ad una classe sociale elevata, non sappiamo però chi fosse né il perché della sua precoce morte.
I preziosi reperti, rinvenuti nel sarcofago, hanno contribuito a collocare cronologicamente il periodo in cui visse la giovane, soprattutto, in base ai costumi e la moda dell’epoca e che lo pongono al II secolo d.C. Si è risaliti a questa datazione grazie: ad una reticella di seta per capelli ricamata con fili d’oro che ci riporta alle stesse reticelle raffigurate negli affreschi di Pompei, ad un cammeo in ametista di raffinata fattura che richiama Palmira, la città della Siria, con cui Roma avviò rapporti di scambio sotto il periodo di Marco Aurelio, nulla sappiamo del misterioso specchio contenuto nel sarcofago.
Ma qual è il segreto che unisce, oltre la vita, le bambole e le giovani defunte, non è possibile dare una risposta certa, potremo però forse supporre che verosimilmente la bambola aveva il solo scopo di non lasciare sole, nell’oltretomba, queste sventurate fanciulle nel loro lungo viaggio senza ritorno. Forse anche Giovanni Pascoli si afflisse per il destino toccato a Crepereia ed alla quale egli dedica un sonetto in lingua latina, dove in una strofa si legge: …..Venerique pupa nota negata est….. (riconosco la bambola promessa invano a Venere).

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