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mercoledì 31 luglio 2013

La birra dei Sumeri


La birra dei Sumeri


Grazie ai testi riportati nelle tavolette cuneiformi e nel vasellame, sappiamo che già nel III Millennio a.C., le bevande a base di cereali fermentati erano apprezzate dagli abitanti della Mesopotamia.
Tuttavia, al di là dei due ingredienti di base, orzo e farro, la birra prodotta dai Sumeri è avvolta nel mistero. Nonostante l’abbondanza di reperti e testi che ne parlano, ricostruire l’antico metodo di produzione della birra è molto difficile, secondo lo storico Peter Damerow, del Max Planck Institute di Berlino.
Una sua nuova ricerca mette in dubbio che la bevanda così popolare tra gli antichi fosse persino birra.

Anche se i testi cuneiformi registrano consegne di farro, orzo e malto, non vi è quasi alcuna informazione sui dettagli dei processi produttivi, né vi sono ricette da seguire. Secondo Damerow, i testi amministrativi venivano probabilmente scritti per un pubblico che già conosceva come produrre birra; non erano destinati a informare il moderno lettore.
Inoltre, i metodi utilizzati per registrare queste informazioni differiscono tra luoghi e tempi, e in più i calcoli non erano basati su un sistema di numerazione regolare: variavano a seconda della natura degli oggetti da contare o misurare.
Questo ha messo in dubbio la popolare teoria secondo cui i birrai mesopotamici usavano sbriciolare la focaccia di orzo o farro nell’infuso di malto. Questo cosiddetto pane da birra (bappir) non è mai conteggiato come pane nei testi amministrativi, bensì in unità di misura, come l’orzo macinato grossolanamente.
Damerow sottolinea poi che l’alto grado di standardizzazione, ossia che i quantitativi di materie prime destinati ai produttori di birra da parte dell’amministrazione centrale rimanevano esattamente gli stessi per lunghi periodi, rende difficile basare eventuali ricette su di loro.
Secondo Damerow, anche l’Inno a Ninkasi, una delle fonti più importanti sull’antica arte della fabbricazione della birra, non fornisce alcuna informazione attendibile circa le componenti e le fasi del processo. Questo testo lirico babilonese dell'inizio del II Millennio a.C. è un poema o una canzone mitologica che celebra la produzione della birra. Nonostante la complessa versificazione, Damerow afferma che il metodo di fermentazione non è descritto per intero. Riporta solo singole fasi in modo incompleto. Per esempio, non vi è alcun indizio su quando interrompere la germinazione del grano. Si può solo ipotizzare che l’orzo venisse disposto a strati e che la germinazione fosse fermata riscaldandolo ed essiccandolo non appena raggiunta la misura giusta.
Il contenuto del canto non si adatta peraltro ai risultati dell’esperimento di Tall Bazi, effettuato dagli archeologi dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco con l’intento di ricostruire l’antico procedimento di fabbricazione della birra. Tuttavia, secondo Damerow, questo risultato deve essere trattato con scetticismo.
Queste incertezze portano ad una domanda, che l’autore considera fondamentale: fino a che punto è possibile paragonare i prodotti antichi con quelli moderni?
“Data la nostra limitata conoscenza sui processi di produzione di birra dei Sumeri, non possiamo neanche dire con certezza se il loro prodotto finale contenesse l’alcol”, scrive Damerow. Non c’è modo di sapere se la bevanda non fosse più simile al kvass (una bevanda a base di pane tipica nell’Est Europa) rispetto una tedesca Altbier".

martedì 30 luglio 2013

CNR, il rosso pompeiano era giallo fu modificato dall'eruzione del Vesuvio.

CNR, il rosso pompeiano era giallo fu modificato dall'eruzione del Vesuvio.

Secondo una ricerca le ville di Pompei ed Ercolano erano all'origine color ocra modificato dai gas ad alta temperatura emessi dal vulcano
Il famoso'rosso pompeiano in realtà era un giallo, modificato dai gas dell'eruzione vesuviana. Gran parte del colore che caratterizza le pareti delle ville di Ercolano e di Pompei in origine era un giallo ocra. A dirlo è una ricerca condotta da Sergio Omarini dell'Istituto nazionale di Ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr) di Firenze.

"Grazie ad alcune indagini abbiamo potuto accertare che il colore simbolo dei siti archeologici campani, in realtà, è frutto dell'azione del gas ad alta temperatura la cui fuoriuscita precedette l'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo Cristo" spiega Omarini. "Il fenomeno di questa mutazione cromatica era già noto agli esperti, ma lo studio realizzato dall'Ino-Cnr e promosso dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei ha finalmente permesso di quantificarne la portata, almeno ad Ercolano".
L'immaginario delle due antiche città, almeno dal punto di vista cromatico, va insomma ribaltato. "Le pareti attualmente percepite come rosse sono 246 e le gialle 57, ma stando ai risultati in origine dovevano essere rispettivamente 165 e 138, per un'area di sicura trasformazione di oltre 150 metri quadrati di parete" prosegue il ricercatore. "Questa scoperta permette di reimpostare gli aspetti originari della città in modo completamente diverso da quello conosciuto, dove prevale il rosso chiamato appunto 'pompeiano'".
Il risultato verrà presentato in occasione della VII Conferenza nazionale del colore che si tiene oggi e domani a Roma nell'Università 'La Sapienza' (Facoltà di ingegneria).
"Il rosso anticamente si otteneva con il cinabro, composto di mercurio, e dal minio, composto di piombo, pigmenti più rari e costosi, utilizzati soprattutto nei dipinti, oppure scaldando l'ocra gialla, una terra di facile reperibilità", conclude il ricercatore. "Quest'ultimo effetto, descritto anticamente da Plinio e Vitruvio, si può percepire anche ad occhio nudo nelle fenditure che solcano le pareti rosse di Ercolano e Pompei".
Le indagini, sono state condotte con strumenti non invasivi: lo spettrofotocolorimetro per misurare il colore e la fluorescenza X che ha consentito di rivelare la presenza di elementi chimici per escludere il minio e cinabro.

La città di Pompei ha origini antiche quanto quelle di Roma, la migrazione di abitanti della Valle del Sarno discendenti dai mitici Pelasgi formarono un primitivo insediamento la futura Pompei, ai piedi del Vesuvio: forse non un abitato vero e proprio, ma più probabilmente un piccolo agglomerato intorno al nodo commerciale che vedeva l'incrocio di tre importanti strade, ricalcate in piena epoca storica dalle vie provenienti da Cuma, Nola, Stabia e da Nuvkrinum.

Data la sua importanza come nodo viario e portuale, Pompei divenne una preda per i potenti stati confinanti. Fu conquistata da Cuma negli anni a cavallo del 500 a.C. Strabone riporta che Pompei fu conquistata dagli Etruschi e unita alla dodecapoli (l'insieme delle dodici città più importanti)sotto il controllo di Nuvkrinum. Nell'area del tempio d'Apollo e presso le Terme Stabiane sono stati rinvenuti numerosi frammenti di bucchero, alcuni con iscrizioni in graffite, e una necropoli del VI a.C.
Le prime tracce di abitato risalgono al VI a.C., apparentemente risultato di un aggregarsi d'edifici disordinato.
La battaglia persa dagli Etruschi nelle acque di fronte a Cuma contro Cumani e Siracusani (metà del V a.C.), portò Pompei sotto l'egemonia dei sanniti. La città fu partecipe della Lega nucerina, confederazione che comprendeva Nuceria Alfaterna, Ercolano, Stabia e Sorrento, utilizzò inoltre un particolare alfabeto alfabeto nucerino, basato sull'alfabeto greco e su quello etrusco. Probabilmente a questo periodo risale la fortificazione dell'intero altopiano con mura di tufo che racchiudevano oltre sessanta ettari, anche se la città vera e propria non raggiungeva nemmeno i dieci ettari d'estensione.
Fu ostile ai Romani durante le guerre sannitiche. Sconfitta, divenne alleata di Roma con la condizione di socia dell'Urbe, conservando comunque autonomia linguistica e istituzionale. Al IV secolo risale il primo regolare impianto urbanistico della città. Durante la seconda guerra punica, sotto il controllo di Nuceria Alfaterna rimase fedele a Roma, al contrario di Capua e molte altre città campane, e conservò la sua indipendenza.
Nel II secolo a.C. l'esportazione di vino e olio portarono nella città agiatezza e un alto tenore di vita. La Casa del Fauno, ad esempio, può rivaleggiare in ampiezza (quasi 3000 m²) con le più famose dimore reali ellenistiche.
Allo scoppio della guerra sociale (91 a.C.) Pompei fu ostile a Roma ma non resistette: nell'89 a.C. Silla, dopo aver fatto capitolare Stabia, partì alla volta di Pompei, che rinforzò le mura cittadine e, si difese con l'aiuto di celti capitanati da Lucio Cluenzio. La città cadde ma ottenne la cittadinanza romana. Nell'80 a.C. entrò definitivamente nell'orbita di Roma e Silla vi trasferì una colonia di veterani che prese il nome di Colonia Venerea Pompeianorum Sillana. Per la salubrità del clima e l'amenità del paesaggio, la città ed i suoi dintorni costituirono un piacevole luogo di villeggiatura per i ricchi Romani, compreso Cicerone.
Le fonti sono piuttosto avare di notizie riguardo alla vita di Pompei nella prima età imperiale. Solo Tacito ricorda come un fatto clamoroso la rissa avvenuta tra Nucerini e Pompeiani nel 59 d.C. nell'anfiteatro di Pompei, che spinse Nerone a proibirvi, per dieci anni, ogni spettacolo gladiatorio.
Nel 62 la città viene scossa da un forte terremoto, e nell'estate del 79 d.C., nel 1° anno di regno di Tito, fu vittima di una forte eruzione del Vesuvio. La città fu sommersa da una pioggia di cenere e lapilli che formò uno strato di oltre tre metri. Al momento dell'eruzione del 79, molti edifici erano in ricostruzione a causa di un sisma verificatosi pochi giorni prima.




lunedì 29 luglio 2013

Fenici e Punici in Sardegna


Paolo Bernardini1
Fenici e Punici in Sardegna - Atti I.I.P.P.

Introduzione:
Tra l’840 e il 775 a.C., quando iniziano le navigazioni fenicie verso l’Occidente, la Sardegna assume il ruolo di cerniera dei traffici che uniscono Atlantico, Mediterraneo e Vicino Oriente lungo quelle rotte che, già a partire dalla tarda età del Bronzo, vedevano nell’isola un protagonista di spicco nell’incontro tra Oriente e Occidente. L’impatto culturale con il Levante è particolarmente evidente con gli inizi dell’età del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo della bronzistica figurata locale, imbevuta di stimoli e suggestioni vicino-orientali, e che indica processi più complessi di mutamento in atto sui comportamenti sociali, sui modi di aggregazione, sulle ideologie di potere. Mercanti e artigiani fenici si stabiliscono nell’emporio indigeno di Sant’Imbenia, nel golfo di Alghero, dove organizzano con le comunità locali la commercializzazione del vino della Nurra che circolerà in abbondanza sulle nuove frontiere mediterranee e atlantiche dei Fenici, da Cartagine a Cadice e a Huelva; ma, entro la prima metà dell’VII sec. a.C., le regioni costiere della Sardegna centro-meridionale sono già caratterizzate dalla presenza di centri fenici organizzati: dal golfo di Palmas (Sulky, Monte Sirai, San Giorgio di Portoscuso, San Vittorio di Carloforte) a quello di Oristano (Othoca, Tharros, Neapolis); dall’approdo di Olbia al golfo di Cagliari. Precocissimi e intensi sono
i fenomeni di interrelazione culturale con le comunità locali, testimoniati dai prestigiosi oggetti veicolati dai Fenici circolanti nei grandi santuari dell’etnia nuragica, da Nurdole di Orani a Santa Cristina di Paulilatino, da S’Uraki di San Vero Milis a Sant’Anastasia di Sardara; tra il IX e il VII a.C., nascono le comunità sardo-fenicie, quella società composita, meticcia, il cui sviluppo sarà spezzato nel VI a.C., con l’espansionismo cartaginese nel Mediterraneo. La battaglia del Mare Sardo (540 a.C. ca.) segna un mutamento di orizzonte caratterizzato dal forte protagonismo cartaginese che ha le sue premesse nella prima metà del secolo nella formazione di uno stato forte e ben organizzato nell’Africa settentrionale. Tra il 540 e il 510 a.C. Cartagine riesce a controllare le coste della Sardegna; nei centri fenici di antica fondazione il mutamento radicale del rituale funerario, con il passaggio dall’incinerazione all’inumazione, le nuove tipologie funerarie (tombe a cassone, tombe a camera costruita), il mutamento della produzione ceramica e artigianale in genere documentano la portata del mutamento. Gli obiettivi che Cartagine persegue in Sardegna sono il diretto controllo delle aree di maggiore potenzialità agricola e mineraria attraverso una penetrazione capillare negli spazi fertili dell’isola. Al concludersi del primo cinquantennio del IV a.C. la Sardegna punica rappresenta una realtà completamente consolidata che emerge con chiarezza negli accordi del secondo trattato con Roma (348 a.C.).

Fenici e Punici in Sardegna


La rete delle navigazioni fenicie nell’Occidente mediterraneo e atlantico produce tra l’ultimo quarantennio del IX e il primo venticinquennio dell’VII a.C. (840-775 a.C. circa) numerosi insediamenti nei quali il carattere e la funzione empirici si intrecciano con una più spiccata attitudine di popolamento; nonostante una crescente tendenza al rialzamento delle cronologie, propugnato soprattutto dagli studiosi di area spagnola, anche sulla scorta dei recenti, problematici e purtroppo decontestualizzati ritrovamenti di Huelva, le seriazioni in stratigrafia delle ceramiche greche ma anche il quadro complessivo di evoluzione delle forme vascolari fenicie ad oggi noto impedisce di raggiungere i proclamati versanti di X sec. a.C. per l’avvio della presenza fenicia in Occidente. Nel processo di graduale espansione fenicia nei mari e nelle terre dell’Ovest un ruolo importante è svolto dalla Sardegna dell’età del Ferro, sia per la sua posizione strategica di cerniera dei traffici che si snodano tra l’Atlantico, il Mediterraneo e il Vicino Oriente, sia per la sua consolidata frequentazione con i naviganti e gli esploratori levantini di etnia siriana, palestinese, egea e cipriota che hanno stretto profondi rapporti di interrelazione con le comunità nuragiche a partire almeno dalle fasi mature dell’età del Bronzo, tra il XII e il X a.C. Al concludersi di questo periodo e in quella fase, ancora legata nella tradizione degli studi alla problematica e per molti versi insoddisfacente nomenclatura della “precolonizzazione”, una specificità fenicia inizierebbe a cogliersi, secondo la tradizionale visione degli studi, nella circolazione presso le comunità indigene della Sardegna di bronzi figurati di origine e tradizione vicino-orientale, la cui attribuzione cronologica e culturale resta peraltro ancora assai problematica; piuttosto l’impatto ideologico e iconografico del Levante assume forme importanti nella cultura locale soprattutto con l’avvio del Ferro, in corrispondenza con lo sviluppo nelle botteghe indigene della bronzistica figurata e della circolazione di un articolato bagaglio di imagerie vicino-orientale che trovano peculiari forme di adozione nell’artigianato autoctono, influenzando e condizionando, a livello più profondo, comportamenti sociali, modi di aggregazione, ideologie di potere.

domenica 28 luglio 2013

Archeologia: Attività delle organizzazioni sociali dell'età del Bronzo.

Archeologia: Attività delle organizzazioni sociali dell'età del Bronzo.
di Pierluigi Montalbano


Fenomeni di ordine tecnologico, economico e sociale, provocati dallo sviluppo della metallurgia, creano società complesse, nelle quali avvengono differenziazioni sociali stabili. Si sviluppano città indipendenti caratterizzate da società articolate in classi di cui abbiamo testimonianza attraverso i resti materiali rinvenuti negli abitati, nei sepolcreti, nei ripostigli e nelle deposizioni cultuali.
Gli oggetti fabbricati durante questo periodo erano in prevalenza beni di prestigio rivolti a nuovi ceti emergenti, ad esempio avori o gioielli. La creazione di una lega resistente e di facile lavorazione (il bronzo) determinò la produzione su larga scala di armi e utensili che consentirono una serie di miglioramenti economico-sociali quali il potenziamento dell'agricoltura, con conseguente incremento demografico, e la creazione di riserve di ricchezza da distribuire attraverso il commercio. L'importanza delle élites guerriere durante questi secoli è testimoniata dallo sviluppo delle tecnologie militari, e nella tendenza a costruire imponenti fortificazioni. Nel corso del XIII a.C. crollano le civiltà degli Ittiti in Asia Minore, i Mitanni in Siria, i Micenei in Grecia, Troia viene distrutta e il decadimento coinvolge anche l'impero egiziano. Si assiste all'inizio di una grave recessione economica e culturale, dovuta all’incapacità di gestione dei traffici a lungo raggio, a causa dei continui assalti alle carovaniere e agli atti di pirateria marittima.
Nell’area costiera libanese, l’elemento che evidenzia la nuova situazione è dato dai lavori in metallo: giare piene di oggetti in bronzo fra cui un grande numero di bronzetti raffiguranti degli uomini con gonnellino e copricapo, e animali provvisti di corna. Inoltre, le esperienze costruttive viaggiano nel Mediterraneo fino alla penisola iberica, alla Sardegna e alle Baleari, in particolare a Minorca (l’antico nome di questa isoletta era Nura).
La produzione di oggetti in lega di rame e stagno costituiva già al principio del Bronzo un importante settore delle attività artigianali. Da forme di fusione in pietra, le cosiddette matrici, si ricavavano asce, pugnali, falcetti e oggetti di ornamento.

sabato 27 luglio 2013

Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica maschile.


Göbekli Tepe. Scoperta la più antica raffigurazione erotica maschile.
di Saverio G. Malatesta


Desta curiosità la notizia del rinvenimento di quella che sembrerebbe essere la raffigurazione di un uomo nudo, colto nel momento della piena erezione: se così fosse, si tratterebbe della più arcaica rappresentazione erotica maschile. La scoperta è avvenuta nel famoso sito turco di Göbekli Tepe, nei pressi del confine con la Siria, all’interno di quello che viene ritenuta la struttura templare in pietra più antica al mondo, databile intorno all’11.500 a.C., ben settemila anni prima dell’erezione delle Grandi Piramidi in Egitto.
Prescindendo dalle interpretazioni di carattere fanta-archeologico, che vedrebbero la località, frequentata per circa cinque secoli prima di essere misteriosamente interrata, all’origine – o controprova – del mito del giardino dell’Eden, si tratta comunque si un’area archeologica straordinaria: il complesso, infatti, si compone di una collina artificiale delimitata da grezzi muri a secco e di quattro grandiosi recinti circolari, delimitati da imponenti monoliti dal peso di circa dieci tonnellate l’uno, riccamente decorati con svariate specie animali in bassorilievo, oltre che con motivi geometrici; sono state rinvenute inoltre alcune statue in argilla, molto rovinate, raffiguranti forse una volpe o un cinghiale. Grazie alle analisi paleobiologiche, si è potuto ricostruire l’ambiente che permise a gruppi di uomini di abbandonare il nomadismo e di insediarsi stabilmente in un luogo: solo un’organizzazione stabile, o in via di stabilizzazione, poteva concepire un progetto tanto monumentale e protrarlo per diverse generazioni, sebbene non siano stati rinvenuti (per il momento) resti di abitazioni o animali domestici.
Al posto dell’attuale deserto, querce, ginepri e mandorle, oltre ad animali selvatici, di cui si sono rinvenuti i resti negli strati più antichi dello scavo, accanto agli strumenti utilizzati per cacciarli ed utilizzarne al meglio carne, ossa, pelli; semi di piante selvatiche e tracce di legno carbonizzato indicano che, già prima della costruzione del santuario, il luogo doveva essere frequentato con una certa regolarità. Forse la sedentarizzazione, e di conseguenza l’agricoltura, ebbe il suo primo, fondamentale impulso proprio qui. In attesa di nuove scoperte, intanto, qual era lo scopo di tanti immani sforzi? Propiziarsi le divinità della caccia (ma i bassorilievi delle formiche e gli scorpioni, allora)? Una celebrazione cosmica delle ricchezze che la natura offriva? Riti sciamanici? Cerimonie legate alla fertilità? Culti apotropaici? La scoperta della raffigurazione maschile potrebbe servire a rispondere ad alcune domande.
Jens Notroff, portavoce del Deutsches Archäologisches Institut, l’ente che sta curando gli scavi nella zona, ha affermato che l’immagine è “senza dubbio di un uomo con un pene in erezione”. Figure di nudi femminili così antiche erano già conosciute, questa sarebbe quindi la prima riguardante un maschio: la caratterizzazione fallica indicherebbe fertilità, dunque prosperità ed abbondanza, come si riscontra esplicitamente nella cultura greca e romana, ma con una piccola differenza. L’uomo del bassorilievo, infatti, è privo del capo. “La testa dell’uomo risulta mancante – continua Notroff – Essa era vista come sede dell’anima, dunque un’immagine che ne è priva vuol rappresentare che egli è morto e trapassato nell’aldilà”. A questo vanno ad aggiungersi le figure di contorno – più grandi di quella maschile – un volatile ed uno scorpione, in linea con un inusuale disco, forse il sole. Comprenderne il senso, dunque, diviene ancora più difficoltoso.
Klaus Schmidt, direttore della missione tedesca, illustra epigraficamente quale sia l’insormontabile problema che deve affrontare chi cerca di gettare luce su un apparato iconografico così remoto: “Questa era un’epoca in cui la scrittura non esisteva, quindi i nomi non potevano essere trascritti”, e dunque tramandati attraverso i millenni. Basti pensare all’Egitto: senza geroglifici, non sapremmo che quello che le fonti classiche ci dicono di loro, ed è ben poco. Ma, senza Stele di Rosetta, anche la scrittura geroglifica risulterebbe del tutto inutile. Non basta, infatti, il segno: bisogna anche interpretarlo. “Ad essere onesti – spiega Notroff – stiamo ancora cercando di capire il senso delle immagini: vediamo le figure, ma non ne comprendiamo il significato. È come se si scavasse una chiesa cristiana ritrovando la croce e tutti gli altri simboli, senza alcun indizio su cosa essi significhino. Sappiamo che queste immagini hanno valenza religiosa, ma di tutto il resto non abbiamo alcuna idea”. Dunque il dubbio rimane, e forte, a meno che non intervengano altre insospettabili scoperte a gettare nuova luce, qui a Göbekli Tepe, santuario di oltre tredicimila anni fa.
Foto di apertura: particolare della stele raffigurante un uomo nudo, nell’angolo in basso a destra.
Fonti:
- http://www.archnews.co.uk/index.php?news=5373 (in inglese)
- http://www.archaeologydaily.com/news/201102266176/Worlds-Oldest-Erotic-Picture.html (in inglese)
- http://www.dainst.org/goebeklitepe (in tedesco)

venerdì 26 luglio 2013

Eventi del fine settimana: Trunfa a Sinnai e Giganti di Monte Prama a Costa degli Angeli.

Musica a Sinnai

Si svolgerà lunedì 29 luglio a Sinnai la prima Rassegna interamente dedicata allo strumento musicale Trunfa.
Lo strumento, diffuso in molte nazioni e di origini molto antiche, è stato di recente riscoperto e valorizzato da strumentisti e gruppi musicali di tutta l’area mediterranea.
In Sardegna fino agli anni cinquanta era un elemento importante per l’accompagnamento ai balli e al canto, spesso associata alle launeddas o ad altri strumenti a fiato e a corda. Successivamente l’arrivo massivo di nuovi strumenti e l’utilizzo sempre maggiore dell’organetto, hanno relegato la trunfa (chiamata anche col nomignolo “scacciapensieri”) a un ruolo secondario; non mancano però i musicisti che la suonano e gli artigiani che continuano a costruirla.
La Rassegna culturale-musicale di Sinnai, organizzata dall’Associazione Archistoria e patrocinata dal Comune, avrà inizio alle ore 20:00 in piazza Sant’Isidoro e vedrà la partecipazione dei migliori suonatori provenienti da tutta la Sardegna: Bruno Camedda da Musei, Giamichele Lai da Irgoli, Nicola Loi da Ortueri, Eliseo e Orlando Mascia da Maracalagonis, Patrizio Mura da Orosei, Ignazio e Pierpaolo Piredda da Dorgali.
La serata sarà arrichhita dagli interventi dell’etnomusicologo Roberto Corona.
I musicisti si esibiranno eseguendo brani solisti e in accompagnamento. Oltre alla trunfa suoneranno anche le launeddas e la chitarra sarda, con la regia del polistrumentista Orlando Mascia.
Si potrà inoltre assistere alle fasi della realizzazione degli strumenti grazie al laboratorio che i fratelli Piredda installeranno in piazza.
A inizio manifestazione confluiranno in piazza, dopo una sfilata per le vie del paese, i gruppi impegnati nel Festival Internazionale del Folklore di Sinnai, provenienti da Russia, Turchia e Costa Rica.
La serata si concluderà con l’esecuzione di alcuni brani che vedrà impegnati assieme tutti i musicisti.

Giganti di Monte Prama e bronzetti a Costa degli Angeli.


Si conclude il ciclo degli incontri con lo scrittore Pierluigi Montalbano dedicati alla storia antica della Sardegna, organizzato dall'ACSRD Costa degli Angeli in collaborazione con IUS 3 UTES. La serata sarà dedicata ai Bronzetti nuragici e ai Giganti di Monte Prama: argomenti affascinanti e molto seguiti dagli appassionati di storia sarda. Il relatore, studioso di storia della Sardegna, illustrerà, grazie anche al supporto di videoproiezioni su maxischermo, le vicende in cui furono implicati gli antichi abitanti dell’isola. I bronzetti verranno accostati e comparati con le maschere della tradizione carnevalesca quali mamuthones, issohadores, ecc... Saranno inoltre chiarite origini, tipologie, ideologia e cronologia delle sculture nuragiche chiamate “Giganti di Monte Prama”. L'incontro si terrà presso la sede dell'associazione del litorale quartese in via Liri, a Costa degli Angeli, con inizio alle ore 20,30. Ingresso libero.


giovedì 25 luglio 2013

Archeologia in Sardegna. Giganti di Mont'e Prama, nuovi scavi a Settembre 2013

Archeologia in Sardegna. Giganti di Mont'e Prama, nuovi scavi a Settembre 2013
di Pierluigi Montalbano


Partirà a settembre la nuova campagna di scavi archeologici nel sito delle campagne di Cabras dove nel 1974 furono scoperte le straordinarie statue di arenaria oristanese dei giganti di Mont'e Prama.
Lo ha annunciato oggi il soprintendente Marco Minoia, nel corso di una conferenza stampa a Oristano con l'arcivescovo Ignazio Sanna. L'obiettivo è quello di "trovare i pezzi che mancano per aiutarci a capire che cosa sono queste statue, come e perché si trovavano lì in un contesto ancora quasi sconosciuto". Con i 200 mila euro a disposizione, un investimento dieci volte superiore a quello medio delle campagne di scavo promosse dalla Soprintendenza, e sotto la direzione dell'archeologo Alessandro Usai, gli scavi saranno concentrati su alcune strutture già individuate nel 1974 ma rimaste finora inesplorate. Minoia ha parlato di una capanna nuragica, di una nuova sezione della necropoli ma anche di una struttura di natura incerta ancora tutta da scoprire. Secondo qualche archeologo potrebbe trattarsi di un luogo di culto, sorretto proprio dai giganti di arenaria, di cui in qualche modo si è favoleggiato senza però poter contare su alcuna certezza. Se la nuova campagna di scavi dovesse offrire qualche elemento a sostegno di questa ipotesi, si chiuderebbe in qualche modo un cerchio. L'area di Monte Prama, a distanza di tanti secoli, appartiene ancora oggi alla Chiesa, per la precisione, alla Confraternita del Rosario della parrocchia di Cabras, e la nuova campagna di scavi sarà possibile proprio grazie a una convenzione sottoscritta dall'Arcidiocesi di Oristano e dalla Soprintendenza. In cambio della disponibilità dimostrata, l'Arcidiocesi di Oristano avrà diritto a condividere i risultati scientifici della ricerca e in sostanza, a fine intervento, riceverà una copia dei quaderni di scavo. Oltre allo scavo archeologico l'area del sito e quella circostante saranno oggetto anche di un’indagine con l'impiego del georadar in collaborazione con l'Università di Sassari e il Consorzio Uno che gestisce la sede universitaria di Oristano.
I giganti di pietra ritrovati nei pressi di Cabras e recentemente restaurati al centro di Li Punti sono una testimonianza archeologica che cambia la storia della Sardegna antica e del Mediterraneo, dimostrazione evidente del ruolo svolto dai nuragici nel panorama sociale, politico ed economico del Primo Ferro. I giganti sono facilmente distinguibili in alcune categorie tipologiche, già segnalate dagli studiosi: guerrieri e piccoli nuraghe. I primi, a loro volta, si classificano in arcieri, spadaccini con scudo rotondo ed elmo provvisto di corna, e soldati armati di maglio nella mano destra, mentre nella mano sinistra, tenuta sopra la testa, stringono uno scudo flessibile, forse realizzato con strati di lino sovrapposti e incollati con resina, rinforzato con stecche longitudinali. Gli altri manufatti, i piccoli nuraghe si possono suddividere in edifici a una o più torri. Il ritrovamento, dopo 40 anni di oblio, attende ancora una adeguata e definitiva collocazione museale.
Il rinvenimento risale a marzo del 1974, nella località di Mont’e Prama, quando un contadino durante l’aratura del suo terreno, toccò con la lama dell’aratro la testa a grandezza reale di una statua. Chiese aiuto alle autorità che fecero intervenire due illustri archeologi sardi dell’epoca, Giovanni Lilliu e Enrico Atzeni, che diedero il via alla più grande ed enigmatica scoperta archeologica sarda. Le statue furono ritrovate all’interno di un’area sacra sopra delle basi che delimitavano alcune tombe. Erano presenti anche alcuni nuraghi miniaturizzati e diversi betili. Anni dopo, lo stesso Lilliu, raccontò che al momento della scoperta il sole limpido e caldo che caratterizzava la giornata, fu improvvisamente oscurato da una tempesta tremenda che si era abbattuta mentre si portavano alla luce le statue, quasi che gli antichi eroi si fossero risvegliati insieme alle statue, una sensazione impossibile da descrivere ricordava con paura l’archeologo.
Gli scavi, hanno portato alla luce oltre 5200 frammenti di varie dimensioni, anche piccolissimi, e al termine del restauro sono oltre trenta i giganteschi guerrieri di pietra, alti oltre due metri, che 2800 anni fa magnificavano l’area funeraria e rendevano suggestivo il viale funerario lungo la strada che da S’Urachi, a San Vero Milis, conduceva fino a Tharros, la città più grande dell’isola, nonché porto nuragico più importante di tutto il Mediterraneo Occidentale. Riportano fattezze anomale, con occhi composti da due cerchi concentrici e con la bocca formata da una semplice fessura. Hanno una pettinatura a trecce e abiti orientalizzanti, ma ciò che li rende unici, sono le grandi dimensioni, un unicum in tutto l’Occidente. Sono realizzate in pietra arenaria e sono in posizione eretta, con braccia piegate a tenere scudi o armi.

Immagine: Disegno di Panaiotis Kruklidis per "I Giganti di Pietra", Fabula Editore, 2012

Il Diluvio Universale e l'Arca di Noè

Il Diluvio Universale e l'Arca di Noè
di Alessandro Giovanni Paolo Rugolo


Quando si parla di “arca” viene spontaneo pensare all’arca di Noè, ma esistono altre tradizioni, forse anche più antiche dei racconti della Genesi biblica, che annoverano l’arca tra le cose strane…
Ma andiamo con ordine.
Con il termine arca s’intende comunemente una grande imbarcazione utilizzata per salvare le specie viventi dall’estinzione dovuta al diluvio inviato da Dio. Autore del salvataggio, il mitico Noè. Dio, resosi conto della malvagità dell’Uomo, decide di sterminare la specie umana e con essa tutti gli esseri viventi. Qui entra in gioco Noè che, considerato uomo giusto, viene invitato a salvarsi unitamente alla propria famiglia e agli esseri viventi, costruendo un’arca. Vediamo cosa ci dice la Bibbia:
[Genesi, 6,14]
“Fatti un’arca di legno di Cipresso; dividerai l’arca in scompartimenti e la spalmerai di bitume dentro e fuori. Ecco come devi farla: l’arca avrà trecento cubiti di lunghezza, cinquanta di larghezza e trenta di altezza. Farai nell’arca un tetto e a un cubito più sopra la terminerai; da un lato metterai la porta dell’arca. La farai a piani: inferiore, medio e superiore.”
Il resto, al momento, non ci interessa.
Ciò che sappiamo sull’arca di Noè, si può riassumere in poche informazioni: é costruita in legno di Cipresso, è compartimentata, è impermeabilizzata per mezzo del bitume, ha un tetto e una porta. In merito alle dimensioni, in linea di massima possiamo considerare un cubito circa cinquanta centimetri, per cui siamo di fronte ad una nave di 150x25x15 metri! Un vero mostro per quei tempi!
In apertura ho parlato di altre tradizioni che ci riportano di un’arca, vediamone una, il racconto del diluvio della saga di Gilgamesh. Il testo ci dice che in quei giorni il mondo pullulava di persone e il loro rumore era tale che il grande Dio, fu destato e unitamente agli altri dei fu deciso di distruggere l’umanità. Ma Ea, altra dea, volle salvare l’umanità così avvisò Utnapistim, il Noè di Suruppak, città sulle rive dell’Eufrate. Sentiamo cosa dice Ea:
“Uomo di Suruppak, figlio di Ubara-Tutu, abbatti la tua casa e costruisci una nave, [..] Ecco le misure del battello, così come lo costruirai: che la sua larghezza sia pari alla sua lunghezza, che il suo ponte abbia un tetto come la volta che copre l’abisso; [..] Alla prima luce dell’alba la mia famiglia si riunì intorno a me, i bambini portarono pece e gli uomini tutto il necessario. Il quinto giorno misi in posa la chiglia e le coste, poi fissai il fasciame. Di un acro era la sua area di terreno, ogni lato del ponte misurava cento e venti cubiti e costituiva un quadrato. Sotto coperta costruii sei ponti, sette in tutto; li divisi in nove sezioni con paratie fra di loro. Dove era necessario infissi dei cunei, provvidi alle pertiche di spinta e caricai provviste. I portatori recarono olio in canestri, versai pece nella fornace e asfalto e olio; altro olio fu consumato per calafatare, altro ancora lo mise tra le sue provviste il nocchiero.[..] Al settimo giorno la nave era pronta. Venne poi il varo pieno di difficoltà, lo spostamento della zavorra di sopra e di sotto finché due terzi rimasero sommersi. [..] Guardai fuori e il tempo era terribile, così anche io salii a bordo della nave e chiusi i boccaporti. Era tutto finito, la chiusura e la calafatura, diedi dunque il timone al timoniere Puzur-Amurri, assieme alla navigazione e alla cura di tutta la nave.”
L’arca di Utnapistim, come possiamo vedere, è leggermente diversa da quella di Noè, forma quadrata, sette ponti in tutto divisi in nove sezioni tramite paratie. E così via. Interessante e particolare la parte relativa alle “pertiche di spinta”, i remi forse? Ancora più interessante la parte dei “portatori” che recarono l’olio in canestri, versato insieme a pece e asfalto “nella fornace”, per far che? Non per calafatare, quello lo dice subito dopo, e poi a cosa serve altro altro olio tra le provviste del nocchiero?
Al di là delle domande che io mi pongo e che sicuramente troverebbero una spiegazione logica se avessimo più elementi, resta il fatto che due testi antichissimi di due popoli diversi riportano il medesimo racconto…

mercoledì 24 luglio 2013

Buttati via miliardi di fondi europei per la cultura

Buttati via miliardi di fondi europei per la cultura
di Francesca Sironi


I fondi europei destinati a chiese, parchi archeologici e monumenti non sono mai stati spesi. Ecco come l'Italia spreca le occasioni per valorizzare il nostro patrimonio che va in rovina.
Il fango ha invaso Sibari sei mesi fa. E' bastata la pioggia a far saltare gli argini del fiume Crati. In poche ore la prima colonia fondata dagli achei in Calabria 2700 anni fa è diventata una palude: templi, teatri e palazzi che furono lo splendore della Magna Grecia si sono trasformati in un lago scuro. A Bruxelles un'eurodeputata italiana ha chiesto piccata cosa intendesse fare l'Europa per soccorrere la nostra meraviglia. La risposta è stata secca: potete domandare gli aiuti per le catastrofi, ha suggerito il commissario agli Affari regionali Johannes Hahn, oppure cominciare a usare le centinaia di milioni di euro che da sei anni la Ue ha messo a disposizione del patrimonio culturale calabrese. Un tesoro dimenticato, che poteva salvare Sibari e mettere al sicuro tanti altri monumenti. Ma del quale è stato usato, secondo l'ultimo rapporto regionale, soltanto il 16%.
Quello che è accaduto a Sibari è lo specchio di una débâcle nazionale, dove Sud e Nord sono unite dalla stessa inefficienza. In un Paese divorato dalla crisi, nessuno riesce a sfruttare l'opportunità offerta da Bruxelles e a spendere i fondi destinati allo sviluppo regionale, soldi che l'Europa garantisce a fronte di un impegno economico italiano.
Dal 2007 a oggi sono stati così messi sul piatto oltre due miliardi di euro per cultura e turismo: una miniera d'oro con cui si potrebbero restaurare migliaia di monumenti, chiese, musei, e renderli visitabili da carovane di turisti di tutto il mondo. Invece lasciamo che gioielli come Pompei si sbriciolino o capolavori come i bronzi di Riace restino praticamente inaccessibili. In sette anni infatti l'Italia è riuscita a spendere solo il 50% di queste risorse.
E il tempo concesso dall'Europa ormai è agli sgoccioli: se entro il dicembre 2015 non avremo completato tutti i progetti e terminato i lavori perderemo l'ultimo miliardo che resta. Saranno soldi buttati via. Non solo. I fondi utilizzati finora sono stati bruciati troppo spesso in una fiera delle vanità. Un proliferare di sagre portate in giro per il mondo, allestimenti faraonici rimasti sulla carta, minuscoli interventi riproposti da vent'anni senza nessun risultato. Senza dimenticare le frodi vere e proprie, come l'imprenditore siciliano che ha intascato un milione e mezzo dalla Ue per un fantomatico museo del gioiello che non è stato mai realizzato.
I finanziamenti garantiti all'Italia per rilanciare lo sviluppo, dal 2007 ad oggi, sono un pacchetto di oltre 60 miliardi di euro. "Fondi strutturali" destinati a progetti strategici per il territorio e pagati con risorse nostrane insieme a quelle della Ue. E alla cultura le nostre istituzioni hanno destinato solo le briciole. Nel Lazio, ad esempio, la giunta di Renata Polverini ha azzerato l'unico piano per i beni artistici del territorio.

martedì 23 luglio 2013

L’origine dei Giudicati della Sardegna

L’origine dei Giudicati della Sardegna
di Alberto Massazza


Con il dilagare degli arabi nel Mediterraneo, che, a partire dal 705, a più riprese tentarono la conquista dell’isola, per altro senza ottenere che effimere occupazioni litoranee, la Sardegna, strappata ai Vandali dai Bizantini guidati dal generale Bellisario nel 535 ed inclusa nell’Esarcato d’Africa, iniziò ad avere rapporti sempre più precari con la Terra Madre, fino al definitivo black-out, all’indomani dell’invasione della Sicilia da parte dei Musulmani, iniziata con lo sbarco a Mazara nell’827. L’isola iniziò così un percorso di autogestione che, nel giro di pochi decenni, portò alla formazione di entità statali autonome, denominate Giudicati, destinate a caratterizzare la storia della Sardegna fino alle soglie dell’Evo Moderno.
Le notizie certe in grado di fare un po’ di luce su come si siano originati i quattro Giudicati sono quanto mai scarne. Nell’815, una delegazione di sardi si recava dall’imperatore Ludovico il Pio per chiedere aiuto militare contro gli arabi. Il termine Iudex compare per la prima volta in una lettera di Papa Leone IV dell’851, in cui il Pontefice chiedeva allo Iudex Sardiniae la fornitura di bisso, prezioso tessuto ottenuto da un mollusco usato per la confezione degli indumenti papali, e l’invio di un contingente militare per difendere Roma dalla minaccia araba. Appena tredici anni dopo, Papa Niccolò II, stigmatizzando la pratica dei matrimoni fra consanguinei nella famiglia reggente, si rivolgeva ai Iudices, al plurale; così come, otto anni più tardi, Papa Giovanni VIII scriveva ai Principes Sardiniae.
Altra notizia data per certa dalla storiografia vuole un’unica dinastia, i Lacon-Gunale, sul trono di tutti i Giudicati, dal periodo iniziale fino all’undicesimo secolo. Inoltre, Arborea e Torres rimasero probabilmente uniti fino alla metà del medesimo secolo, mentre il Giudicato di Gallura potrebbe essersi formato da una costola di Cagliari e il nome del primo Giudice, Manfredi detto Pisanus (1050 circa), farebbe pensare che si sia generato da una concessione del Giudice cagliaritano a Pisa. Di certo, quando, dalla seconda metà dello stesso undicesimo secolo, le cronache iniziarono a essere frequenti e dettagliate, i Quattro Giudicati erano già delle entità politico-amministrative ben definite ed efficienti, con interessantissime specificità e una spiccata originalità di soluzioni, confrontata al generale coevo panorama europeo.
A fronte di una tale carenza di dati, le ipotesi sull’origine della casata dei Lacon-Gunale sono tre. La più accreditata, vorrebbe i primi Giudici come diretta emanazione dell’amministrazione Bizantina. Secondo tale ipotesi, a un rafforzamento in senso autonomistico del potere bizantino in Sardegna, per far fronte alle incursioni degli arabi, comandato da Bisanzio o scelto autonomamente dai poteri locali, fece seguito una ripartizione territoriale del potere, sempre con l’obiettivo di essere più preparati di fronte alle incursioni arabe. La nobile famiglia bizantina dei Lacon-Gunale avrebbe dapprima assunto prerogative più simili a quelle di un viceré che di un prefetto o console, per poi suddividere il potere localmente tra i membri della famiglia.
La seconda ipotesi, avvalorata da studi recenti, vedrebbe i Lacon-Gunale originari delle Barbagie, le zone interne rimaste pressoché indipendenti da Bisanzio che, approfittando della debolezza dei bizantini, sarebbero riusciti a prendere in mano il potere. Questa ipotesi si basa principalmente sulla presunta origine prelatina dei nomi di molti Giudici (Orzocco, Ithocor, Torchitorio, ecc.) e sulle risultanze toponomastiche del doppio nome dinastico. In particolare, Laconi (etimo greco: confine) e Goni, ancor oggi, sono due paesi posti ai limiti occidentale e meridionale delle Barbagie. Particolare molto curioso, nei territori comunali di entrambi, sono numerosissime le testimonianze megalitiche prenuragiche che, come insegna la lettera del VI secolo di Gregorio Magno a Ospitone, duce barbaricino, esercitavano una notevole suggestione sulla spiritualità della popolazione di quei tempi.
L’ultima ipotesi vedrebbe l’infeudazione dell’isola da parte dell’Imperatore Carolingio. Oltre all’ambasciata dei sardi presso Ludovico il Pio nell’815, ci sono delle similitudini tra la prassi burocratica e diplomatica del Giudicato di Logudoro e quella della corte Carolingia. Potrebbe anche essere stata possibile un’origine mista, con il potere bizantino che avrebbe stretto legami matrimoniali con famiglie di possidenti autoctoni, mentre il Logudoro, per meglio legittimare la propria autonomia da Cagliari, si sarebbe rivolto alla corte Carolingia.
A ogni buon conto, dopo la vittoriosa resistenza dei sardi, coalizzati con i genovesi e i pisani, al tentativo di invasione del Governatore di Denia e delle Baleari Mujahid nel 1015, l’isola fu interessata dalla colonizzazione di ordini monastici italiani e francesi che, oltre a far fiorire l’architettura romanica con esiti originalissimi e ad apportare notevoli migliorie in campo agricolo, iniziarono a redigere delle cronache (condaghes), dalle quali viene fuori un’organizzazione politica e amministrativa giudicale ben consolidata e strutturata. Da allora e fino alla dissoluzione dei Giudicati, la Sardegna fu teatro dei tentativi di ingerenza nelle successioni dinastiche, oltre che delle maggiori famiglie pisane e genovesi (Visconti, Massa, Gherardesca, Doria), del Papato e dell’Impero, fino all’effimero matrimonio tra la giudicessa Adelasia di Torres con Enzo, figlio di Federico II di Svevia, e alla licentia invadendi concessa da Bonifacio VIII ai Catalano-Aragonesi nel 1297.

lunedì 22 luglio 2013

Archeologia futuristica a Villa Verde: Su Brunk'e s'Omu, l’esplorazione innovativa

Archeologia futuristica a Villa Verde: Su Brunk'e s'Omu, l’esplorazione innovativa
di Vitale Scanu


Le scienze moderne sono oggi in grado di dare corpo, fisicamente, alle tante
ipotesi sul villaggio nuragico di Villa Verde, illuminandone la centralità e
l'importanza. L’archeologia, più delle altre, in questi ultimi anni ha fatto un
vero e proprio salto di qualità perché coinvolgendo le altre scienze (antropologia,
paleoantropologia, mineralogia, geologia, fisica. . . ), con le loro tecnologie
di punta, ha raggiunto risultati spettacolari. “I progressi scientifici
ci permettono ora di analizzare i manufatti, i siti e tutte le tracce minime
del passato con maggiore profondità”, dice lo scienziato Marc-Antoine Kaeser,
direttore del museo archeologico Laténium presso Neuchâtel.
La tecnologia di ultimo grido si chiama LiDAR (Light Detection
and Ranging, rilevamento ed esplorazione con la luce). I rilevamenti aerei
fatti con questo strumento, che usa impulsi di raggi laser, producono un’immagine
tridimensionale della superficie, completa di tutte le strutture celate
sottoterra. Il LiDAR può superare ogni ostacolo, perfino eliminando il
manto vegetativo superficiale e fornendo immagini 3D più precise. E in più,
si possono ottenere immagini di distese enormi in un colpo solo, ad esempio le
recenti scoperte del sito di Bisarcio ottenute proprio con questo metodo.
Nello Schwarzwald tedesco, una zona di 2.000 chilometri quadrati, erano già noti circa
3.000 siti archeologici. Dopo la scansione LiDAR, ne sono stati rilevati più
di 36.000. Quelle che nelle precedenti immagini aeree sembravano semplicemente
dense foreste, hanno rivelato migliaia di sconosciuti insediamenti
preistorici. Si giunge quasi alla magia: all’istituto Paul Scherrer, nel canton
Argovia (Svizzera), si possono analizzare anche singoli reperti archeologici
e scoprirne la struttura interna senza danneggiarli.

“Per capire una società occorre conoscere il suo ambiente”, spiega il dott. Kaeser.
Questo lavoro sinergico ha permesso di estendere le analisi non solo ai manufatti
trovati, ma, per merito dei geologi, anche al contesto ambientale in cui sono stati
rinvenuti, per esempio alle condizioni del suolo. I mineralogisti sono ora in grado di
stabilire l’origine di ceramiche antiche e possono dire con maggiore precisione
dove sono state prodotte, fornendo tracce preziose per ricostruire vie
commerciali o migratorie. Possiamo immaginare quanto si avvantaggerebbe
di queste potenzialità scientifiche la zona nuragica di su Brunk’e s’Omu:
con il LiDAR si potrebbe mappare a fondo tutta la zona, vedere l’estensione
dei manufatti sotterranei con le loro caratteristiche, risparmiare fortemente
negli scavi, perché i rilevamenti sarebbero mirati e non più tentativi a vuoto.
Grazie allo sviluppo tecnologico e all’integrazione delle scienze naturali, gli
archeologi stanno ora andando oltre l’indagine del singolo sito archeologico,
adottando una visione d’orizzonte più ampia. “I paesaggi, infatti, sono il
risultato della storia e dell’attività dei nostri antenati”, spiega Marc-Antoine
Kaeser. La scelta di un insediamento, come può essere su Brunk’e s’Omu,
dipendeva in ampia misura dalle risorse circostanti: acque buone, aria più
salubre, cacciagione abbondante, sito ben difendibile da pericoli, potenzialità
economiche (l’ossidiana)…
Le ricerche degli scienziati hanno dimostrato che fin dai tempi preistorici, le
persone pianificavano lo sviluppo della loro comunità attraverso la gestione
delle risorse ambientali disponibili. Sono queste le motivazioni che possono
illuminare maggiormente il perché del sito di su Brunk’e s’Omu e dar ragione del
cambiamento epocale che ha orientato quei lontani progenitori a migrare verso
valle per un miglioramento della loro vita sociale, passando da una cultura stanziale
della caccia e della raccolta dei frutti spontanei all’agricoltura. Forse fu in
coincidenza di questo mutamento, o con la caduta di interesse per l’ossidiana
o con l’arrivo dei romani che nasceva la Bannari moderna.

domenica 21 luglio 2013

Religione e panteon dei fenici

Religione e panteon dei fenici
di Pierluigi Montalbano


In assenza di scritti mitologici e liturgici, le fonti sono le iscrizioni dalle città stato orientali. Gli autori principali sono: Sancuniatone, sacerdote di Beirut (XII a.C.), riportato da Filone di Biblos, giuntoci attraverso Eusebio; Damascio, neoplatonico (V a.C.), che cita una cosmogonia di Mecio; Plutarco e Luciano, che forniscono dati sulle credenze; l’Antico Testamento, sui Cananei; i testi di Ugarit; le fonti puniche. La religione fenicia appare come un prolungamento di quella cananea del II millennio a.C. Ogni città fenicia aveva una divinità poliade generalmente associata a un partner, con determinate funzioni. A Tiro imperavano Melqart e Astarte, dove era comune il rito del risveglio annuale. Melqart è una divinità che garantisce ordine e benessere, Astarte è la dispensatrice di potere e vitalità, legata al trono e alla fertilità. A Sidone erano venerati Astarte ed Eshmun, dio guaritore assimilato ad Asclepio. A Biblos invece si credeva nella Baalat Gubal (signora di Biblos), insieme al Baal di Biblos, che è all’origine dell’Adonis greco. Per loro erano celebrate feste annuali di morte e resurrezione. Altre divinità erano: Reshef, dio della folgore e del fuoco, originariamente nefasto poi benefico; Dagon, dio del grano; Shadrapa, conosciuto dal VI-V a.C., un genio guaritore rappresentato con serpenti e scorpioni; diversi culti astrali, di età ellenistica; Chusor, inventore e lavoratore del ferro. Sydyk e Misor, divinità della giustizia e della rettitudine. Filone di Biblos riporta una mitologia: all’origine del cosmo, della cultura e degli dei sono il vento e il caos, da cui nasce un uovo cosmico, detto Mot. La cultura sarebbe stata creata da Usoos, inventore delle pelli d’animali, mentre al vertice della genealogia divina sarebbero stati Eliun e Berut. Gli dei vivevano nei templi, o bet (casa o palazzo). Non ci sono pervenute statue a causa del diffuso aniconismo. Apprezzavano il culto di stele o betili, nonché di montagne, acque, alberi, e pietre ritenute sacre. Asherah è una piccola colonna votiva in legno, analoga al betilo, la dimora degli dei. Il tempio era un recinto sacro a cielo aperto con una piccola cappella o un betilo. Davanti si trova un altare per i sacrifici, vicino a una fonte o a un bacino e un bosco. Le offerte potevano essere cruente (eccezione per il maiale, che era considerato tabù), in cambio speravano di ottenere una grazia, seguita da un ex-voto. Si credeva anche nei refaim, esseri dell’aldilà o antenati. La magia era una pratica diffusa: lo scopo era allontanare il malocchio o colpire i nemici, con formule talvolta incise nelle tombe. L’aldilà era localizzato sottoterra, come un deserto arido e buio. Era importante per i defunti ricevere una sepoltura ed essere ricordati tra i vivi.

Agreus: Dio della caccia, fratello di Halieus
Agros: Dio di campi, coltivazioni, viticolture, e del vino, fratello di Agrotes
Agrotes: Dio della terra, dei cavalli, della caccia e degli indovini. Appare come un auriga, a volte accompagnato da un gruppo di cani, fratello di Agros.
Aion & Protogonos: I primi mortali. Scoprirono il cibo.
Aleyin: Dio della primavera e della vegetazione nella stagione delle pioggie. Figlio di Baal, fratello di Anat. "Colui che cavalca le nuvole", spesso appare con 7 compagni e 8 maiali selvaggi.
Amat-Asherat: Dea dell'alchimia. Bandita da El nel deserto, riunì creature simili a sfingi, con corpo di leone e testa umana, per combattere Baal. Consorte di Terah, madre di Siba'ni.
Amunos: Dio della vita dei villaggi, fratello di Magus
Anat: Dea della battaglia, dello spargimento di sangue, di temperamento bollente. Perpetua la vita degli dei assicurando loro continui sacrifici. Uccise il dio Mot. Figlia di Baal, sorella di Aleyin. Appare come una vergine che cavalca un leone e porta uno scudo, lancia e ascia.
Aqhat: Figlio di Danel, fratello di Pughat. Eroe mortale, bello e favorito dagli dei, che gli diedero un arco divino. Anat lo volle e ordinò al suo servo Yatpan di ucciderlo per averlo, ma l'arco andò distrutto durante la lotta tra i due.
Arsay: Dea della terra umida e delle paludi. Figlia di Baal.
Asherat del mare: Grande dea della saggezza e del mare. Madre degli dei. Moglie di El e sua consigliera, ebbe 70 figli, incluso Baal
Asherat: Dea del matrimonio, della fedeltà e della vita casalinga. Moglie di Baal. Madre di Aleyin, Anat, Pidray, Tallay, e Arsay.
Astart (Astoreth): Dea della fertilità, dell'amore e del piacere. Patrona delle prostitute e degli edonisti. Le prostitute del suo tempio erano famose su tutto il Mare Librum. Appariva come una donna sensuale in una tunica trasparente multicolore.
Ba'al: Signore. Ba'alat: Signora, la versione femminile. Dio delle nuvole e delle tempeste. Figlio di El e Asherat-del-mare. Marito di Ashrat, padre di Aleyin e Anat, e Pidray, Tallay, e Arsay. La sua voce era il tuono e dispensava la pioggia. Appariva come un giovane guerriero che vestiva con tunica, elmo a punta con corna stilizzate, e brandiva una lancia.
Baal Hammon: Grande dio del cielo, del sole e della continuità. Appariva come un nobile vecchio con corna ramificate, spesso accompagnato da sfingi alate. Consorte di Tanit.
Baltis: Dea del cielo, della gioia e della danza. Protettrice delle donne. Sorella spirituale della dea egizia Hathor. Appariva come una donna che indossava un elmo con corna di vacca e un disco al loro centro.
Bauu: Dea della notte, moglie di Kolpia.
Daggay: Dea della nascita. Aiutante di Asherat-del-mare.
Danel: Semidio della verità, della divinazione e della comunità. Nato come eroe mortale, conoscitore di ogni cosa dalla nascita. Domandò giustizia per le vedove, protezione per gli orfani e assistenza contro i saccheggi, figlio di Keret, padre di Aqhat e Pughat.
El: Dio supremo. Signore del pantheon e padre degli uomini. Fece scorrere i fiumi fino agli oceani e assicurò la fertilità alla Terra. Marito di Asherat-del-mare, padre di Baal. Appariva come un uomo ingrigito con sei ali. Il suo simbolo era il toro rosso.
Eshmun: Dio della guarigione e della salute. Figlio di El e di Asherat-del-mare. Rappresentato come un uomo di mezza età con una toga bianca e un bastone intorno al quale sono arrotolati due serpenti.
Geinos: Dio dell'agricoltura. Fratello di Technites.
Genos & Genea: il maschio e la femmina che fondarono la Fenicia e scoprirono la preghiera.
Giganti: Cassius, Lebanon, Antilebanon, Brathy. Comandavano dalle montagne che portano i loro nomi e inventarono la bruciatura degli incensi.
Gurzil: Dio del combattimento e della sete di sangue. Faceva i suoi nemici a pezzi. Patrono dei gladiatori.
Halieus: Dio della pesca. Appariva come un tritone cornuto, accompagnato da nereidi. Fratello di Agreus.
Hasisu: Dio del fuoco e della lavorazione dei metalli. Fratello di Kusor. Inventò con suo fratello il ferro e la maniera di lavorarlo.
Hay-Tau: Dio della vegetazione e della foresta. Ha forma di un albero. Le lacrime di Hay-Tau sono resina (tesori per i fenici che esportavano in Egitto).
Hiyon: Dio della lavorazione delle gemme, del vetro, e del lavoro lapidario. Artigiano divino, lavoratore dell'oro e dell'argento. I suoi simboli sono le pinze e il martello.
Iolaus: Semidio dell'agilità (della mente e del corpo). Eroe mortale, aiutante del dio Melkart. Patrono dei corridori, di coloro che vivono delle loro arguzie e di coloro che aiutano gli altri.
Ist (Phos, Pyr, Phlox): triplice dea del fuoco e della scienza domestica, portò il fuoco agli uomini.
Keret: Eroe mortale. Re di Sidon, un figlio di El e soldato della dea Sapas, non molto coraggioso. Combatté contro il dio della Luna Terah ma perdette. Comprò una moglie costosa. Suo figlio, Danel, fu un genio.
Kolpia: Dio del vento. Consorte di Bauu.
Kusor: Grande dio dei marinai e degli inventori. Fratello di Hasisu, artigiano degli dei. Inventò i mezzi meccanici, la pesca sulla barca, l'architettura e la navigazione.
Latpon: Dio della magia e della saggezza. Patrono dei praticanti. Figlio di El e di Asherat-del-mare.
Magos: Dio dell'allevamento degli animali. Patrono dei pastori e degli allevatori. Fratello di Amunos.
Mastiman: Dio dei morti, servo di Mot. Strangola i prescelti dal suo signore.
Melkart: Dio della forza, dell'impegno e dell'espansione fenicia. Patrono degli esploratori e dei viaggiatori. Il suo simbolo è l'orizzonte, dove il sole incontra il mare. Indossa una pelle di leone, è il greco Eracle.
Misor: Dio della giustizia. Fratello di Sydyk. Scoprì il sale. Padre di Tauutos.
Moloch: Grande dio dei disastri, delle piaghe, dei vulcani, delle regioni infernali. Era propiziato con sacrifici. Appariva come un nero minotauro con ali da pipistrello e tre occhi gialli, mentre sputava fuoco.
Mot: Dio della morte e della siccità. Favorì il figlio di El, finché fu ucciso dalla dea Anat. Il suo simbolo è una vite appassita intrecciata a teschio.
Ousoos: Dio delle vesti, delle tinte, e del commercio. Fratello e rivale di Samemroumos.
Pataecians (Pataiko): Aiutava gli spiriti potenti del bene mandati a proteggere i fenici che navigavano. Patechus: Grande dio delle navi, della navigazione e dei viaggi oceanici. Patrono dei viaggiatori, dei naviganti e degli esploratori. I suoi servi, i Pateciani, proteggevano le navi fenicie.
Pidray: Dea della nebbia e della foschia. Figlia di Baal.
Pughat: Eroina mortale. Conosceva i segreti dell'astrologia. Figlia di Danel, sorella di Aqhat.
Quadesh: Dea della luce stellare, della selva, dell'astrologia. Assistente di Anat nei sacrifici; Consorte di Resheph. Appariva come una donna giovane vestita di verde e argento.
Resheph (Amurru): Dio dei tuoni, della selva e della musica. Assistente di Anat nei sacrifici. Consorte di Quadesh. Appariva come un giovane guerriero che portava un tridente saettante.
Ruti: Dio dell'arte della guerra e della milizia. Figlio di El e di Asherat-del-mare. Appariva come un uomo con testa leonina.
Sahar: Dea dell'alba. Figlia di El e di Asherat-del-mare. Gemella di Salem.
Salem: Dea della sera. Figlia di El e di Asherat-del-mare. Gemella di Sahar.
Samemroumos (Hypsouranious): Dio del rifugio, delle costruzione e dei costruttori. Fratello e rivale di Ousoos.
Sapas: Dea della luce e dell'esplorazione sotterranea. Figlia di El e di Asherat-del-mare.
Siba'ni: Semidio del furto, della fortuna, e delle relazioni pericolose. Figlio di Terah e di Amat-Asherat. Sua madre restò nel deserto 7 anni per purificarsi prima della sua nascita.
Sydyk: Dio della giustizia. Fratello di Misor. I suoi discendenti, i Kabiri (forse i Cabeiri greci) perfezionò la navigazione, e divennero i Pateciani al servizio del dio Patechus. Appariva come un uomo con un elmo piumato, che portava una lancia.
Tallay: Dea della pioggia e della rugiada. Figlia di Baal.
Tammuz (chiamato Adone dai greci): Dio del raccolto, avendo imparato da Mot e Aleyin. Nato da un albero myrrh nel quale sua madre (Myrrha) l'ha trasformato. In veste mortale era un giovane bellissimo, adorato dalla dea greca Afrodite. Fu ucciso da un maiale che stava cacciando: il ruscello dove cadde fluisce rosso come il sangue ogni anno; si dice che gli anemoni sboccino per lui.
Tanit: Grande dea della luna, della maternità, della magia. Appare come una donna velata e avvolta da piume di colomba. Le colombe le erano gradite e sacre. Consorte di Baal Hammon. I suoi simboli sono una staffa sormontata da un disco e un triangolo con un cerchio al suo apice.
Tauutos: Dio della scrittura e dell'insegnamento. Messaggero degli dei. Inventò i primi caratteri scritti. Patrono dei saggi, degli scribi, e dei bibliotecari. Figlio di Misor.
Technites: Dio dell'arte muraria, della costruzione dei mattoni e dei tetti. Patrono degli artigiani. Fratello di Geinos.
Terah: Dio della luna calante e dei segreti. Consorte di Amat-Asherat, padre di Siba'ni.
Yam: Grande dio del mare, delle creature che lo abitano e dei terremoti. Avversario di Baal.
Yatpan, eroe mortale: seguace di Anat, ha ucciso Aqhat per lei. Venne assassinato da Pughat, sorella di Aqhat.

Nell'immagine: Bes, fotografato al Museo Archeologico di Cagliari.

sabato 20 luglio 2013

Archeologia. Scoperta in Sardegna l'antica città di Othoca

Scoperta l'antica città di Othoca.
Gli scavi rivelano le mura di età fenicia


“Abbiamo ritrovato Othoca”, dicono gli studiosi. La ripresa delle antiche ricerche avviate negli anni Ottanta ha fatto emergere una struttura, in blocchi di basalto e arenaria, per una lunghezza di cinque metri, e uno spessore di 60 centimetri. E’ il primo elemento murario, appartenente probabilmente a un edificio pubblico dell’antica città fenicia.
Lo scavo testimonia in sostanza il processo di formazione urbana di Othoca, con fenici e sardi che danno luogo alla costruzione di una città che commercia con l’Etruria, con Cartagine, con la Grecia. Rapporti testimoniati dai ritrovamenti effettuati dagli studenti provenienti da cinque diverse regioni italiane e anche dalla Spagna, precisamente dalla Scuola di specializzazione in beni archeologici Nesiotikà attivata dall'Ateneo di Sassari presso la sede universitaria del Consorzio Uno di Oristano.
Il futuro degli scavi non si presenta facile. L’area dei ritrovamenti è in pieno centro urbano. Verranno fatte indagini mirate, con georadar e carotaggi. Con l’obiettivo di far convivere l’attuale Santa Giusta con le sue importanti emergenze archeologiche.
Tuttavia, i bambini del paese rischiano di perdere il parco giochi, perché i resti dell'antica città, Othoca stanno proprio due metri sotto il parco giochi di Is Olionis, un quartiere residenziale nato negli anni Ottanta.
La piccola area scavata dietro lo scivolo del parco, ha rivelato una struttura di blocchi di basalto e arenaria che, secondo gli archeologi, apparteneva a un edificio pubblico monumentale di grandi dimensioni databile più o meno all'VIII a.C. e a un insediamento punico che in qualche modo si sovrappose a una preesistente comunità sarda.
L'attenzione degli archeologi, guidati da Paolo Bernardini e da Raimondo Zucca, non si è concentrata a caso su quella zona. Le antiche carte e anche rilievi più recenti consentiti dalle nuove tecnologie posizionano infatti proprio da quelle parti l'antico porto di Othoca e già nel 1985, durante i lavori di urbanizzazione dell'area, era venuta alla luce una struttura simile poi ricoperta senza tanti complimenti. E saranno proprio le nuove tecnologie a consentire di rilevare il resto dell'antica struttura ancora nascosta sotto il prato, sono infatti in corso di definizione gli accordi per una indagine col Georadar che permetterà di ricostruire in tre dimensioni la pianta dell'antico monumento di Othoca.

venerdì 19 luglio 2013

L’archeologia della Sardegna bene comune, un popolo che non conosce la sua storia è un popolo che non ha futuro.


L’archeologia della Sardegna bene comune.
Un popolo che non conosce la sua storia è un popolo che non ha futuro.
di Giuseppe Argiolas



(Ricordo ai lettori che domani, sabato 20 Luglio, alle ore 19.00, inizierà l'ultimo incontro con la rassegna "Archeologia sotto le stelle", organizzata dall'Associazione del Parteolla in collaborazione con il museo della tradizione olearia "Locci". La serata, a ingresso libero, sarà dedicata alla Civiltà Nuragica. Al termine sarà possibile cenare al museo al costo di 10 Euro).

Talvolta l'invito di un amico per partecipare a una manifestazione può nascondere qualcosa di bello e misterioso che non ti fa pentire di aver accettato e, francamente, è quello che mi è successo cogliendo l'invito rivoltomi tramite Facebook da Doriana Onida, neo Presidente della Associazione culturale Parteolla di Dolianova. Questo social network ha ormai acquisito il pregio di diffondere “low cost" tante notizie e, allo stesso tempo, entrando nella casa di tutti,di informare tantissime persone in tempi rapidi.
A Dolianova, come in tanti Comuni della Sardegna, non è facile proporre attività culturali con la garanzia di successo, soprattutto in un periodo di crisi economica come quello che stiamo vivendo, ma in questo caso bisogna riconoscere che la presidente Doriana Onida è riuscita nell'intento. Questo anche grazie alla collaborazione con la famiglia Locci, titolare del Museo dell'olio "Sa Mola de su Notariu" e allo splendido supporto scientifico del dr. Pierluigi Montalbano, scrittore oltre che amante dell’archeologia e della storia dei sardi.
È proprio grazie a questo eccellente divulgatore culturale che l'associazione parteollese ha organizzato una serie di seminari sulla storia dei sardi e della Sardegna che, da un punto di vista culturale, non hanno nulla da invidiare ai paludati convegni sviluppati in terra sarda da affermati archeologi. E, per la fortuna dei presenti, le serate si concludevano con una cena "frugale" anch'essa a basso costo (10 €), preparata dai soci dell'associazione sia a fini di auto-finaziamento delle attività sia per favorire la socializzazione tra i partecipanti.

A pensarci bene, in un mondo che corre veloce e in cui la cronaca ingiallisce dopo 24-48 ore, è bello istruirsi, conoscere tante cose nuove e, allo stesso tempo, passare una bella serata in un sabato d'estate, in compagnia di persone conosciute nel luogo dell'evento. Una cosa, questa, abbastanza difficile oggi, se si pensa ai ritmi della città e alla distanza tra le persone, colmata solo in parte proprio dai social network.
Certo è difficile sintetizzare e raccontare in poche righe le cose che Pierluigi Montalbano ci ha descritto in maniera mirabile e semplice, con l'aiuto di un p.c. che proiettava su uno schermo delle immagini che accompagnavano ogni suo dire e che rendevano il messaggio molto espressivo e di facile comprensione. Una scelta frutto sicuramente di una tecnica collaudata di comunicazione con il pubblico, che in questo caso era variegato e di diversissima estrazione culturale, ma attentissimo a ogni lezione e sempre più numeroso di appuntamento in appuntamento.

Vorrei solo ricordare le cose che più mi hanno colpito dei tantissimi argomenti affrontati, che hanno spaziato dall’architettura funeraria degli antichi sardi alle tecniche di costruzione dei nuraghi e all’opera collaborativa delle comunità nuragiche (ad esempio la pianificazione degli interventi), dalle ceramiche alle navi, alle rotte e ai commerci, dai rapporti con popolazioni di varia provenienza alla religione, ai suoi simboli e ai bronzetti.
E’ stato un lungo viaggio nelle nostre radici, che è partito dalle spiegazioni sulle tombe più semplici a fossa, risalenti a oltre 6.000 anni fa, a quelle sulle gigantesche (per allora, s'intende) costruzioni dei poderosi nuraghi (Arrubiu, Barumini, Losa, Santu Antine) o di importanti agglomerati urbani del 2000 a.C., di grandi tombe a camera dipinte, di menhir, fino ai commerci e ai rapporti con i micenei, i fenici e perfino con gli egizi. In particolare, grazie al dr Montalbano, noi “studenti” siamo andati alla scoperta di una civiltà, quella sarda, che pur divisa in tanti insediamenti anche lontanissimi tra di loro (Anghelu Ruju di Alghero, genti di Ozieri, Monte Claro, Carbonia, Barumini…) creò una società pacifica aperta e collaborativa, probabilmente priva di guerrafondai. Gente che commerciava ossidiana, rame e argento, e che, come risulta dagli incantevoli bronzetti esposti nei musei, con il palmo della mano destra aperta salutava i propri dirimpettai in segno di pace. Un popolo unito dal culto della Dea Madre, ritrovata in tutti gli insediamenti nuragici in diverse forme e realizzata con diversi materiali.

giovedì 18 luglio 2013

Archeologia dei trasporti. I solchi della treggia: una storia di antiche guidovie

Archeologia dei trasporti. I solchi della treggia: una storia di antiche guidovie
di Franco Sarbia


Io non conosco la datazione dei solchi paralleli nella roccia dei diversi siti trovati in rete: in Spagna, Malta, Sardegna e Turchia. La loro configurazione non pare quella di canalette per l'acqua. Non s'è mai visto un acquedotto con due condotte parallele di piccola portata anziché una sola di grande portata. Per il rapporto quadratico tra superficie e volume un canale appena più ampio può raddoppiare la portata senza dover spendere il doppio di tempo e fatica a realizzare due condotte parallele incise nella roccia.



Un acquedotto "a pelo d'acqua", infine, richiede una sorgente o una presa d'acqua all'origine e un buffer, cisterna, vasca o invaso al termine. Non sembra questo il caso delle nostre vie canalizzate. Su una strada di pietra quando fosse necessario canalizzare l'acqua, lo si farebbe al centro, come sulle vie lastricate sempre s'è praticato fino al tardo medioevo, non sulle tracce di passaggio erose irregolarmente.

Su materiale lapideo compatto è escluso che solchi così profondi siano generati da carri. L’attrito volvente delle ruote non può scavare tanto profondamente la pietra, come dimostrano le tracce appena accennate generate dal passaggio dei carri sul selciato romano durante secoli d’intenso traffico. Uno studio sul campo di J. D. Evans nel 1955 stabilisce definitivamente che non possono essere stati carri a produrre i solchi di Malta. L'esperimento è stato realizzato con un carro ed una treggia di uguale scartamento, costruiti ad hoc. Dice Evans: “Le ruote s'inceppavano continuamente; i pali dello slittone, invece, scivolavano con facilità adattandosi perfettamente ai solchi”. Non si dimentichi, inoltre, che è molto difficile costruire un carro capace di trasportare pesi superiori alla tonnellata senza elementi di ferro. La treggia è il mezzo più efficiente per trasportare carichi pesanti su tracciati irregolari.

La superiorità assoluta della slitta rispetto al carro si esprime su terreni fangosi, sui quali scivola via come sulla neve, mentre la piccola superficie di appoggio delle ruote fa impantanare il carro. Oppure su fondi irregolari. Sulle asperità di un terreno lapideo compatto, come quello di un piano di cava o di miniera a cielo aperto era, comunque, necessario rimuovere gli ostacoli e uniformare la pendenza del tracciato; il percorso doveva essere reso scorrevole con fango riversato davanti ai pattini. Seppure l’attrito radente dei pattini associato al potere abrasivo del fango sia più efficace delle ruote nell’incidere la pietra, questo semplice procedimento non era tuttavia congruo per scavare tracce di tale profondità, regolarità e sviluppo. Occorreva una valida ragione ed un sistema adatto per realizzare tracciati a solchi paralleli così lunghi, regolari e diffusi in varie regioni del mondo.
Erodoto ha testimoniato che la capacità di carico delle imbarcazioni Babilonesi giungeva a 5000 talenti.

Naturalmente gli storici nostrani non gli credono, ma quello era l'unico mezzo per trasportare sull'Eufrate da lunghe distanze gli elementi lapidei delle città mesopotamiche costruite sul fango, o se preferite sull'argilla. 5000 talenti corrispondono a 150 tonnellate. Per giungere all'imbarcazione un monolite di tale peso non poteva che essere trasportato con tregge e rulli (o entrambi, ancor oggi le navi si varano su una treggia che scorre su rulli), come dimostra il documento egizio dell'immagine. Non è escluso che lungo percorsi regolari e pianeggianti venisse usato come lubrificante del grasso sui pattini e un impasto di polvere fine e olio minerale o petrolio lungo i solchi. Questi accorgimenti non sono, però, adatti a far scendere dal luogo di estrazione carichi così enormi lungo pendii irregolari a tratti declinanti in modo trasversale al percorso.

Per far comprendere il senso di questa premessa e al fine di spiegare il senso dei nostri "binari a solco", bisogna sapere che, a favore di gravità, né uomini né animali sono in grado di impedire che un simile carico s'intraversi e rotoli a valle se non scorre su guide che lo impediscano. I buoi, soprattutto se aggiogati a coppie multiple sanno camminare nei solchi. Lo posso testimoniare perché da bambino ero pastore di bovini e scendevo dalla montagna trasportato dalla treggia trainata da una coppia di buoi con carichi di fieno o di legna. Nella mia esperienza i pattini della slitta (chiamata “Lesa” nell’alta val Trebbia) sono tronchi ricurvi, la loro forma è prima tondeggiante, compatibile con molti dei "cammini" a solchi paralleli illustrati dalle immagini, poi con l'usura si appiattisce. Le strade di montagna, spesso molto ripide, erano invariabilmente segnate da simili solchi paralleli, che impedivano alla treggia di derapare fuori strada, lungo la scarpata.
Stabilita l’indispensabilità dei solchi per controllare la discesa di carichi imponenti si può ora figurare un procedimento, adatto allo scopo, compatibile con la tecnologia del neolitico.

Preparato il percorso, doveva essere predisposta una slitta con pattini parzialmente rivestiti da blocchi di pietra resistente all’abrasione, arrotondati frontalmente ma scabri e taglienti a contatto con il terreno. La slitta doveva essere caricata con residui di lavorazione della cava, di peso controllabile da due paia di buoi e da una squadra di uomini. Davanti ai pattini era cosparso un impasto fangoso composto da urina, dal blando potere erosivo, sterco, polveri di pietra, smeriglio di Naxos o pomice delle Eolie: residuati dalle prime lavorazioni di taglio e levigatura. In salita lo smeriglio stesso poteva costituire il carico. Dopo alcuni giorni di andirivieni continuo i solchi divenivano abbastanza profondi da consentire la discesa di carichi via via più pesanti. Scavati che fossero, i solchi avevano anche la funzione di minimizzare il fabbisogno di lubrificante e fornire l'apporto d'acqua necessario a mantenere fluido il fango. Terminata la fase di “inizializzazione” poteva essere ripreso l’uso di slitte ordinarie, con lo stesso scartamento, continuando nel tempo l’incisione graduale dei solchi. Dopo l'avvio, il carico poteva scivolare lungo i tratti lubrificati di pendenza sensibile e costante come lungo una guidovia antelitteram.

I percorsi oggi visibili sono talora arricchiti da scambi e incroci secondo la logistica dell’attività estrattiva o di trasporto: quale che fosse. Interruzioni e salti dovevano essere associati alle diverse fasi del processo di lavorazione e delle conseguenti operazioni di carico e scarico. Oppure potevano essere tagli di tratti resi obsoleti dalla mutata configurazione della cava. Non è difficile, infine, immaginare l’utilità di far giungere i solchi fino al mare.

Immagini tratte dal web.


mercoledì 17 luglio 2013

Scoperto un Tempio di 5000 anni fa vicino Lima

Scoperto un Tempio del Pre Ceramico vicino Lima

Ci giunge da oltre oceano una notizia che ribattiamo immediatamente: archeologi peruviani hanno scoperto vicino Lima il tempio più antico delle Americhe.
L’edificio di pietra rettangolare è ubicato nel sito archeologico di El Paraiso a nord della capitale e risale al 3.000 a.C. secondo Raffaello Varon, portavoce del Ministero di Cultura peruviano. Il tempio è parte di un complesso di 10 edifici, ritrovati nel 1965.
L’edificio copre un’area di 48 metri quadrati, era intonacato con uno strato di fango e decorato con vernice rossa. “Dovrebbe essere contemporaneo a Caral, un sito scoperto nel 2001 e datato proprio a 5000 anni fa, ha detto l’archeologo Jose Hudtwalcker dell’istituto Riva y Aguero di Lima. Sarebbe dunque più antico di Stonehenge e delle Piramidi di Giza.
Hudtwalcker, autore di pubblicazioni sulle civiltà peruviane e litoranee, ha precisato che “Questo tempio è databile al periodo pre-ceramico, quando le civiltà vivevano di pesca e agricoltura di base. La datazione al Carbonio ci darà maggiori risposte ma non sorprenderebbe se risalisse almeno al 3000 a.C.” Gli operatori hanno scoperto un focolare nel centro della costruzione, probabilmente usato per offerte sacrificali di molluschi e prodotti agricoli. La squadra di archeologi, diretta da Marco Guillèn, ha denominato la struttura “Tempio del Fuoco”, perché il fuoco era la parte principale dei loro rituali e usavano fumo per comunicare coi loro dei.
El Paraíso è un sito archeologico situato nella Valle Chillon, sulla costa centrale del Perù, a nord di Lima. E’ circondato da oltre 90 ettari di terreno seminativo e 150 ettari di pianura irrigata per l’agricoltura. Lo studioso Stanish riferisce che questo era un periodo in cui gli insediamenti furono distribuiti a varie distanze dalla costa per consentire l'accesso a una varietà di risorse marine e agricole. Lo scopo del centro è chiaro: aree di sepoltura e la costruzione della maestosa parete in pietra estratta nelle colline locali, suggerisce che non si trattava di un complesso residenziale ma era un centro economico o religioso, e forse entrambi. Stanish suggerisce che l'organizzazione sociale necessaria per costruire El Paraíso rappresenta ciò che è noto come un chiefdom, ossia una società di buon livello, priva di sistemi politici centrali, ma ricca di una serie di insediamenti autonomi e regioni che collaboravano. Come suggerisce il nome, il periodo preceramico nelle Ande è segnato dall'assenza di materiale ceramico. Fu un periodo di crescente complessità sociale generale lungo la costa peruviana, e vide l'introduzione di centri con architettura monumentale. El Paraíso non sembra aver subito alcun evento finale catastrofico, ma mostra segni di un rapido abbandono graduale e non vi è alcuna prova di una fase di rioccupazione.
Alla fine di giugno 2013, una delle piramidi del complesso di El Paraíso è stato completamente distrutta. Promotori immobiliari hanno usato bulldozer per distruggere l'edificio, poi hanno bruciato i resti. La polizia ha impedito la distruzione di altre 11 piramidi nel sito. Prima della sua distruzione, la piramide aveva un ingombro di circa 2.500 mq ed era alta 6 metri.

martedì 16 luglio 2013

Tesori subacquei di 1500 anni fa Riapre il sito archeologico dell'Asinara

Tesori subacquei di 1500 anni fa
Riapre il sito archeologico dell'Asinara


Dal 13 luglio e fino al 15 settembre, si potranno visitare i tesori di 1500 anni fa depositati sui fondali dell’Asinara. Sulla base della sperimentazione effettuata nel 2012, l’amministrazione comunale di Porto Torres, la Soprintendenza per i beni archeologici di Sassari e Nuoro, l’Ente Parco Nazionale dell’Asinara e il Cala d’Oliva Diving Center hanno deciso di rinnovare la collaborazione, prolungando di un mese, rispetto alla stagione passata, il periodo dedicato alle visite del giacimento di anfore romane a Cala Reale.
Si tratta di un sito unico nel Mediterraneo: circa 39 mila reperti sono adagiati sul fondale, a soli sette metri di profondità. Sono ben visibili anche utilizzando solamente maschera e boccaglio, grazie alle trasparenze del mare dell’Asinara. Una autentica meraviglia che lo scorso anno ha lasciato senza fiato, in un solo mese, più di seicento visitatori. «L’iniziativa – sottolinea il sindaco Beniamino Scarpa – ha riscosso un bel successo. Dopo l’apertura speciale dell’anno scorso e durante le recenti giornate di Monumenti Aperti, grazie alla collaborazione di tutti gli enti coinvolti, stiamo riproponendo l’apertura praticamente per l’intera stagione estiva. Il giacimento delle anfore romane rappresenta un perfetto connubio tra il patrimonio archeologico e quello ambientale dell’Asinara, che potrebbe consentirci di intercettare una bella fetta di turisti interessati non solo al paesaggio, ma anche alle risorse storiche della nostra isola-parco». L’iniziativa è stata presentata ieri mattiba, nella sala conferenze del Palazzo del Marchese, dall’assessore al Turismo e alla valorizzazione dell’Asinara, Alessandra Peloso, dalla responsabile del distaccamento della Soprintendenza ai Beni archeologici, Gabriella Gasperetti, dal rappresentante dell’Ente Parco Nazionale dell’Asinara, Gianluca Idini, e dal responsabile del Cala d’Oliva Diving Center, Alessandro Masala.
«La sperimentazione è stata utile per capire come potenziare un progetto che può contare sul supporto della Soprintendenza, del Parco, del Cala d’Oliva Diving Center e della Delcomar, che sta garantendo il trasporto dei mezzi e del personale tecnico», ha affermato l’assessore Peloso. «Il prolungamento dell’apertura del sito si inserisce nel progetto di promozione dell’attività subacquea, avviato in seguito alla nostra partecipazione alla Bit qualche mese fa. Durante la fiera abbiamo potuto far conoscere le bellezze dei nostri fondali a tantissimi operatori del settore, i quali hanno preso contatto per la prima volta con il mondo sommerso dell’isola-parco. Questo sito è unico e straordinario e può davvero trasformarsi in una vetrina per l’Asinara e per il nostro territorio», ha aggiunto l’assessore Peloso. «Quattro anni fa – ha affermato Gianluca Idini, rappresentante del Parco Nazionale dell’Asinara – abbiamo finanziato l’Operazione Reale, attraverso cui è stato preservato il materiale archeologico presente sul fondale, spostandolo di circa 300 metri rispetto alla banchina in cui attracca il traghetto della continuità territoriale. Il giacimento è un tassello importante nel sistema di fruizione dell’isola, un fiore all’occhiello che contribuisce a incrementare il fascino dell’Asinara». Il sito è formato dal carico di una nave romana proveniente dalla penisola iberica, naufragata all’ingresso di Cala Reale in età tardo imperiale, ed è ricco di anfore che contenevano salsa di pesce, il garum dei romani, e pesce sotto sale. La responsabile del distaccamento turritano della Soprintendenza, Gabriella Gasperetti, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla valorizzazione: «Abbiamo trasferito circa 39mila reperti, preservandoli e valorizzandoli, oltre ad aver recuperato anfore, piatti, bicchieri e altri reperti ritrovati integri, che sono stati restaurati. Il sito ha 30 metri di lato ed è scavato per circa 50 centimetri». Il tappeto di tesori è raggiungibile esclusivamente a bordo dei mezzi degli operatori diving autorizzati, tra cui il Cala d’Oliva Diving Center, che fornirà un servizio quotidiano partendo dal molo di Cala Reale. «Il progetto è stato reso possibile grazie alla collaborazione di tutti gli enti coinvolti. L’esperienza dello scorso anno – ha detto Alessandro Masala, operatore diving – ci ha consentito di apporre miglioramenti al servizio. La visita è effettuabile sia con le bombole che in apnea. Forniremo ai visitatori alcune nozioni sul giacimento e poi ci trasferiremo a bordo di un mezzo nautico nell’area del sito, dove si svolgerà l’escursione vera e propria. Abbiamo contemplato anche la possibilità per i turisti di abbinare ulteriori pacchetti per prolungare la visita dei bellissimi fondali che si possono ammirare in tante altre zone dell’isola».

lunedì 15 luglio 2013

Archeologia: scavi nel territorio alle falde del Monte Arci

Archeologia: scavi nel territorio alle falde del Monte Arci
di Vitale Scanu


Nei primi giorni di luglio a Bannari (Villa Verde), sotto la guida di Riccardo Cicilloni, sono ripresi gli scavi nel villaggio nuragico di Brunk'e s'Omu, finora mai citato negli elenchi dei manufatti nuragici. Eppure è indiscutibile la sua importanza per diverse cause: è sito, come Pau, alle falde del Monte Arci, noto per i giacimenti di ossidiana, i più ricchi dell'intero bacino del Mediterraneo. La sua grandezza è significativa, considerando che molto di quello che si trova sotto terra, è ancora da scoprire e studiare. Di caratteristiche molto remote, che lo riportano alle descrizioni che Diodoro Siculo, è attribuibile alla prima fase dell'epoca nuragica.

E' l'unico villaggio del Bronzo esistente in un largo raggio territoriale, i più vicini sono quello di Barumini e il Puistéris di Mogoro, e ciò induce a ipotizzare una sua funzione di centralità e di riferimento per tutta la zona dell'Arci. I reperti in bronzo e in terracotta finora trovati suggeriscono una rete importante di relazioni e di scambi commerciali indotti dalla preziosa ossidiana, la cui diffusione è testimoniata anche fuori dall'isola, già a partire dal VI millennio a.C., secondo il parere del prof. Lilliu. Gli scavi di Brunk'e s'Omu significano soprattutto la volontà e l'intelligenza dei bannaresi nel cercare le radici della loro identità e nel valorizzare anche le piccole risorse che la nostra terra ci offre.

Il tesoro ritrovato: recuperati 548 reperti archeologici, denunciati 21 tombaroli.

Il tesoro ritrovato: recuperati 548 reperti archeologici, denunciati 21 tombaroli
di Maria Grazia Frisaldi.


L'attività è stata condotta dai carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Bari, Napoli e Foggia.

Un tesoro dall’inestimabile valore storico-archeologico, espressione concreta e tangibile dell’eredità culturale della terra di Puglia in generale, e dell’area foggiana in particolare. Si tratta dei numerosi reperti archeologici recuperati e sequestrati dai carabinieri che hanno disarticolato una ben radicata organizzazione che si occupava degli scavi clandestini in provincia di Foggia e che poi piazzava quanto recuperato sul mercato illegale nazionale, grazie ad intermediari napoletani.
Per il fatto sono stati denunciati 21 tombaroli ritenuti a vario titolo responsabili di ricettazione, ricerche archeologiche non autorizzate ed impossessamento illecito di beni culturale di proprietà dello Stato. Sono 548 in tutto, invece, i reperti recuperati. Si tratta di reperti archeologici integri e frammenti, reperti fossili, monete e oggetti in metallo risalenti al V-IV- e IV-III secolo a.C. recuperati in zone ancora inesplorate ed afferenti i numerosi siti archeologici che insistono nel Foggiano.
L’attività - condotta dal nucleo dell’Arma specializzato nel contrasto dei reati ai danni del patrimonio culturale nazionale - è nata dalle continue segnalazioni di scavi clandestini pervenute nell’ultimo anno sia dalla Soprintendenza dei beni archeologici che da semplici cittadini e dalla conseguente esigenza di contrastare il fenomeno del trafugamento di importanti reperti archeologici, testimonianze degli antichi insediamenti del V – IV sec. a .C in Puglia e soprattutto nell’area foggiana, culla della cultura dauna.
Ventuno i soggetti denunciati, la metà dei quali già con precedenti specifici. Si tratta di 17 soggetti di Orta Nova, Ordona, Stornarella e Ascoli Satriano con un ruolo attivo nella ricerca dei reperti e nell’attività di scavo, e quattro campani che, secondo gli inquirenti, tenevano i contatti con i ricettatori su scala nazionale.
La mole di reperti e il terriccio ancora fresco che li ricopriva lascia prefigurare una preoccupante frequenza di scavi non autorizzati, effettuati senza le necessarie autorizzazioni ed eseguito con metodi approssimativi e mezzi meccanici (dai classici “spilloni” a più moderni metal detector e georadar) che potevano danneggiare irrimediabilmente quanto recuperato.
Al termine del blitz, i militari hanno repertato 91 pezzi integri in ceramica tra olle acrome, brocche a vernice rossa, kylix, lekythos a vernice nera e coppette del IV–III sec. a.C, 38 frammenti di reperti archeologici e 37 fossili, 42 oggetti in metallo come fibule, anelli, pesi da telaio e statuette votive oltre 340 monete di natura archeologica, in argento e bronzo, risalenti varie epoche e materiali ed attrezzature da scavo. Impossibile quantificare il valore effettivo di quanto sequestrato nei 21, tra appartamenti privati, depositi e garage perquisiti nel corso dell’attività; il “prezzo” – assolutamente sottostimato – fatto dai ricettatori, invece, sarebbe stato di 100mila euro. Il cospicuo patrimonio culturale trafugato dai “tombaroli” e recuperato dai carabinieri sarà restituito già nelle prossime ore alla Soprintendenza per i Beni Archeologici.

sabato 13 luglio 2013

Trovata una tazza d'oro del 1700 a.C.

Trovata una tazza d'oro del 1700 a.C.

La tazza d’oro dell’antica età del Bronzo (XVIII-XVII a.C.) rinvenuta a Montecchio Emilia, nel Reggiano.
Pesa circa mezzo chilo, è alta poco più di 12 cm, è spessa un millimetro e mezzo ed è in oro quasi purissimo. La tazza rinvenuta in marzo a Montecchio Emilia (RE) è un reperto straordinario che risale all’antica età del Bronzo (cioè a un periodo compreso tra i 3800 e i 3700 anni fa) e non ha confronti in Italia (e pochissimi nel mondo).
Esposta nell’ampia sezione del Museo Archeologico Nazionale di Parma dedicata alla Preistoria e Protostoria del territorio emiliano, è subito diventata la beniamina del pubblico.
Al di là della straordinaria preziosità del reperto, la tazza d’oro di Montecchio Emilia è un oggetto destinato a cambiare radicalmente alcune idee consolidate sui commerci e sugli scambi nell’Europa di quasi quattro millenni fa. Parzialmente rotta da arature o lavori agricoli recenti (era a soli 60 cm di profondità), era già schiacciata in antico: un danno forse intenzionale, probabilmente legato a uno specifico rituale. Nessuna tomba, struttura o cassetta di lastre conteneva il reperto, sepolto isolato in una semplice buca di nuda terra. La straordinaria scoperta è avvenuta a marzo dell'anno scorso durante i lavori nelle cave di inerti “Spalletti” del Gruppo C.C.P.L., ai limiti settentrionali del comune di Montecchio Emilia. Un’area che da tempo sta restituendo testimonianze archeologiche di ampia datazione, dai resti sporadici del Neolitico Finale e dell’età del Rame (IV-III millennio a.C.) alle urne cinerarie dell’età del Bronzo media-recente (XIV-XIII a.C.), forse collegate a una terramara individuata poco più a sud, fino ai più cospicui materiali di epoca etrusca (sepolture) e romana (resti insediativi e funerari).

È in questo quadro che gli archeologi hanno trovato, completamente isolata, questa strepitosa tazza d’oro databile (in virtù della specifica tipologia) all’antica età del Bronzo cioè a un periodo compreso tra il XVIII e il XVII secolo a.C. La tazza, che rappresenta certamente una deposizione votiva, è deformata e lacunosa ma interamente leggibile. Il suo ritrovamento lega idealmente il territorio di Montecchio Emilia agli henges del Regno Unito e ai recinti del Nord Reno-Westfalia, le zone da cui provengono i pochi confronti esistenti. Esemplari simili sono stati infatti trovati solo a Fritzdorf e Gölenkamp (Germania), a Rillaton e a Ringlemere (Gran Bretagna), quest’ultimo al centro di un henge, con due vasi d’argento provenienti da tumuli bretoni, a Eschenz (Svizzera) e nel tumulo di Saint Adrien, in Bretagna (quest'ultimo però è in argento).

Un motivo in più per visitare il Museo Archeologico che ospita anche, fino al 29 dicembre prossimo, la mostra "Storie della prima Parma. Etruschi, Galli, Romani: le origini della città alla luce delle nuove scoperte archeologiche" che ripercorre il processo di formazione della città, dall'età del Ferro alla
piena romanizzazione, esponendo i reperti inediti e spesso strepitosi rinvenuti negli scavi degli ultimi anni.