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mercoledì 14 agosto 2013

I primi passi di un archeoastronomo

I primi passi di un archeoastronomo
di Mario Codebò, Membro IISL, SAIt


Ogni volta che a qualcuno racconto che m’interesso di archeoastronomia, invariabilmente mi sento porre una domanda: come sono pervenuto a occuparmi di archeoastronomia?
Galeotto fu il libro I misteri dell'antica Britannia: brutta versione italiana del più serio originale inglese Circles and Standing Stones, pubblicato nel 1975 da Evan Hadingam, un giornalista scientifico che ha divulgato i severi studi in materia condotti dai ricercatori anglosassoni, principalmente Alexander e Archibald Thom (padre e figlio) e Gerald Hawkins.
Non è neppure il caso di menzionare qui la ricca messe di risultati conseguita da tutti costoro: i curiosi e gli interessati potranno attingere a una bibliografia ormai vasta. All’epoca della lettura di questo libro, nel 1986, mi occupavo ormai da circa quattro anni di paletnologia, soddisfacendo così una mia antica passione germogliata fin dalla fanciullezza. Avevo già visitato tutti i principali siti archeologici del Finalese, percorso tutti i suoi sentieri segnati e mi accingevo a iscrivermi (come in effetti feci l’anno successivo) all'Istituto Internazionale di Studi Liguri, IISL.
La frequentazione della sezione Finalese dell’IISL, presso il Civico Museo Archeologico di Finale Ligure, mi aveva permesso di scoprire, tra le varie pubblicazioni, notizie riguardanti presunte strutture di tipo megalitico (non più di cinque) sparse su tutta la Liguria.
E così, stimolato dalla lettura del testo di Hadingam, più per interesse verso il megalitismo che verso l’archeoastronomia, andai a visitare i cosiddetti menhir di Torre Bastìa, nel territorio comunale di Borgio Verezzi (SV). Confesso, senza falsa modestia, che a prima vista mi resi conto del possibile allineamento di questa struttura sull’equinoziale. Così, tornato sul posto con bussola e altri strumenti, eseguii le misurazioni necessarie, trovando piena conferma della mia ipotesi.
Negli anni successivi, tornai due volte sul posto agli equinozi per fotografare il tramonto del Sole sull’allineamento tra la pietra eretta ed un palo (o una persona) posto ai piedi di quello coricato, dal lato corrispondente all'allineamento di poco meno i 270° (l’orizzonte visibile, infatti, è alto circa 60): ne risultarono due complete sequenze fotografiche che confermano visibilmente l'evento.
Assai meno fortunati furono i tentativi di fotografare, nella direzione opposta, l’alba equinoziale, perché entrambe le volte in cui dormii sul posto con la tenda, al mattino la spessa coltre di nubi occultò il Sole fino a tarda ora. I risultati di questo mio primo studio archeoastronomico sono stati pubblicati.

Dopo la fruttuosa esperienza con i menhir di Torre Bastia, estesi le ricerche agli altri "megaliti" segnalati e, successivamente, a quelli che, via via, con l'intensificarsi delle ricerche di superficie e la collaborazione tra alcuni ricercatori, venivano alla luce. Fu la volta della pietrafitta di Tríora (IM), del menhir di Cian da Munega (SV), del bellissimo dolmen di Verezzi (SV), vicinissimo a Torre Bastía; della pietra di Marcello Dalbuono, della pietra-altare sopra la grotta Strapatente e del circolo a tecnica megalìtìca di Camporotondo, tutti nel Finalese (SV); del complesso di Roccavignale in Val Bormida (SV) e del menhir di Tramonti (SP), oltreché di un certo numero di incisioni cruciformi, sempre nel Finalese, che si sono rivelate orientate verso i quattro punti cardinali, quasi fossero rudimentali rose dei venti.





Recentemente ho misurato anche due strutture cristiane: la chiesa benedettina dell’isolotto di Bergeggi e quella basso-medievale di S. Antonino di Perti: primi tentativi in un settore - quello appunto di età storica - che, benché forse meno affascinante, pure ha rivelato in altre regioni italiane impressionanti implicazioni archeoastronomiche.


Nel 1990 l’amico Guido Cossard organizzò la campagna di misurazioni sulla necropoli eneolitica (III millennio a.C.) di S. Martin de Corleans, che la Soprintendenza Archeologica della Valle d'Aosta scavava dal 1961 sotto la direzione del dott. Franco Mezzena. I risultati ottenuti dal prof. Giuliano Romano furono resi noti in una conferenza tenuta la sera del 29 novembre di quell'anno e pubblicati alcuni mesi dopo [3]. Tuttora essi costituiscono, per la loro eccezionalità, una pietra miliare nello studio dell’archeoastronomia europea.




Con il passare degli anni e l’intensificarsi degli studi venni in contatto con altri studiosi della materia. Ciò ha consentito, oltre agli scambi di notizie e materiali, anche una "maturazione" del problema in ambito ligure. Infatti, come ho già accennato, agli inizi le ricerche archeoastronomiche suscitarono molta perplessità e talora, in qualcuno, perfino una sorta di ilarità. Ma il moltiplicarsi delle pubblicazioni specifiche, lo svolgimento di ben tre congressi italiani di archeoastronomia, l’eccezionale scoperta del sito di S. Martin de Corleans, hanno costretto anche i più scettici ad alcuni ripensamenti.



Purtroppo sull’archeoastronomia grava sempre la pesante eredità di precedenti autori che, sovvertendo la metodologia della ricerca scientifica, affascinati forse dalle loro stesse teorie, hanno lavorato più di fantasia che di ragione. E' il costante problema di ogni ricercatore del campo: trovarsi tra l'incudine delle teorie fantascientifiche e il martello della diffidenza, talora un po' preconcetta, dei ricercatori più ortodossi.
Perciò uno dei compiti dello studioso di archeoastronomia diventa, allo stato attuale delle cose, non solo convincere su una materia ancora sostanzialmente ignota e del tutto nuova (le cui ricerche sono, di fatto, ancora a un vero e proprio stadio “pionieristico”), ma anche creare rigorose tecniche di misurazione e metodologie capaci di fugare le diffidenze giustamente generatesi nel passato.
Un secondo problema è costituito dalla dibattuta questione relativa alla presenza del megalitismo nell'Italia peninsulare in generale, e più in particolare in Liguria.
Fino a pochi decenni or sono era ferrea dottrina archeologica che la corrente culturale megalitica non avesse mai varcato la soglia della catena alpina, considerata una barriera invalicabile. L'Italia peninsulare era considerata del tutto estranea al fenomeno con l’unica eccezione della Puglia, i cui menhir, dolmen e "specchie" (tumuli) erano attribuiti a occasionali navigatori di provenienza balcanica, o comunque ad influenze transadriatiche. Si ammetteva solo, per il resto della penisola, lo sviluppo della civiltà dei castellari e, in alcune zone come la nostra Lunigiana, l’Alto Adige e la Daunia, di quella delle statue stele. Ma il passaggio, per esempio, dal menhir aniconico alle statue stele, ben documentata altrove, era da noi del tutto sconosciuto.
Ovviamente già allora si sapeva che le isole del Mediterraneo avevano seguito un'evoluzione diversa che, in molti casi, le ha portate a sviluppare una cultura megalitica peculiare ed estremamente ricca.
Per di più, fino all'avvento delle datazioni con radionuclidi era dottrina archeologica altrettanto ferrea che il megalitismo fosse nato, come ogni altra manifestazione culturale, nel vicino Oriente - ivi compresa la Grecia e particolarmente le sue isole egee - e da questa "culla di civiltà" si fosse diffuso per varie vie - soprattutto fluviali e al seguito dei mercanti verso l'Europa occidentale. Da questo punto di vista i grandi complessi inglesi e bretoni erano considerati l’ultima fase, in termini di spazio e di tempo, di questa corrente culturale e la loro monumentalità era portata a prova ulteriore di ciò.
Nell'Italia, priva di grandi vie fluviali continentali, si ammetteva soltanto l’arrivo di popolazioni di naviganti sulle coste dove, occasionalmente, avrebbero lasciato sporadiche testimonianze, come in Puglia ed in Lunigiana (quest'ultima per influenza corsa).
Oggi sappiamo come le cose siano andate ben diversamente: il megalitismo si ritiene nato nell'Europa nord-occidentale e diffuso verso Oriente; ha seguito sì le maggiori vie fluviali ma anche quelle minori; è stato più una produzione autoctona a partire, forse, da un'idea importata, piuttosto che una corrente preconfezionata viaggiante in tutto il continente.
A mio parere, poi, esso si configura come particolare evoluzione del rapporto che le società preistoriche ebbero con il materiale a loro disposizione con la maggiore abbondanza: la pietra.
Nel momento in cui gli strumenti d'uso quotidiano subivano il processo della microlitizzazione; nel momento in cui i metalli si diffondevano, relegando la pietra ad un ruolo se non secondario almeno paritario; nel momento in cui cambiava radicalmente l’economia di sussistenza dalla caccia-raccolta alla pastorizia-agricoltura e, quindi, anche la tipologia dell’insediamento passava dai ripari mobili od occasionali del nomade ai villaggi stanziali; in quel lungo momento la pietra ha forse cessato di essere oggetto d'uso pratico ed è divenuta “monumento”: funebre o religioso, o politico - nel senso dell’espressione del potere dei capi - o, infine, militare, verso la fine dell'età del bronzo, quando si cominciarono a costruire le città fortificate da mura ciclopiche.
Tanto è vero che le prime manifestazioni del megalitismo - i tumuli sepolcrali collettivi di Hoedic e Teviec in Bretagna e di Muge in Portogallo [7] appartengono al mesolitico quando, terminata la glaciazione di Wurm attorno al X millennio a.C., alcuni gruppi umani costieri cominciarono a sviluppare un'economia che può collocarsi tra il puro nomadismo del cacciatore e la netta stanzialità dell’agricoltore: essi divennero pescatori e raccoglitori di prodotti marini, soprattutto molluschi. Ciò, se non permetteva ancora di "programmare" la produzione del cibo attraverso il lavoro costante dei campi, manlevava però dall’obbligo dell'inseguimento degli animali in migrazione. E non è certamente neppure un caso che la maggiore concentrazione di complessi megalitici si abbia proprio lungo le coste.
Ovviamente questa descrizione, che farebbe storcere il naso a ogni specialista, è solo una pennellata a grandissime linee di un'evoluzione durata quasi diecimila anni.
Oggi in Italia, seppure a fatica, comincia a farsi strada fra gli archeologi la consapevolezza dell'esistenza e dell'importanza degli orientamenti astronomici nelle culture antiche. Lo testimoniano, fra l'altro, ben tre congressi internazionali di archeoastronomia, tenutisi a Brugine (PD) nel 1985, a Venezia nel 1989 e a Roma nel 1994, con la partecipazione di relatori italiani e stranieri, di archeologi e astronomi.

Pubblicato in: Bollettino dell'Osservatorio Astronomico di Genova, n. 66, Genova, pp. 12-20. 1994

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