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mercoledì 2 dicembre 2015

Archeologia. Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna. Intuizioni, ipotesi e prudenza critica. Qualche riflessione in tema di concezioni, simboli e rituali funerari protostorici, di Filippo Delpino

Archeologia. Il Lazio dai Colli Albani ai Monti Lepini tra preistoria ed età moderna. Intuizioni, ipotesi e prudenza critica. Qualche riflessione in tema di concezioni, simboli e rituali funerari protostorici.
di Filippo Delpino

Al progresso dei nostri studi giovano maggiormente le intuizioni più o meno brillanti e le ipotesi più o meno ingegnose o l’esercizio della prudenza critica? E ancora: qual è il limite oltre il quale un’ipotesi da lecita e suggestiva diviene arbitraria e fuorviante? A questi e a consimili quesiti non saprei dare una risposta compiuta e articolata che vada al di là dell’espressione di una generica e un po’ scontata propensione per una sorta di via mediana: prudenza critica sì, ma senza preclusioni alle suggestioni del nuovo; apertura a considerare intuizioni ed ipotesi, certamente, ma necessità anche di sottoporle a vaglio rigoroso. Una necessità non sempre avvertita, un esercizio non sempre sufficientemente praticato anche e soprattutto quando più ve ne sarebbe bisogno come nell’interpretazione di aspetti delle concezioni religiose e delle ideologie funerarie, ambiti questi in cui a mio avviso ci si muove spesso con eccessiva disinvoltura. Se è senz’altro vero, come ammonisce Andrea Carandini, che «si può sbagliare in eguale misura sia interpretando troppo che troppo poco», è anche vero che le ipotesi interpretative non possono fondarsi solo o principalmente su intuizioni ma debbono essere convalidate da attenti esami della documentazione archeologica o, quanto meno, debbono trovare in essa riscontri significativi; poiché ciò non sempre avviene, ritengo che occorra prendere esplicitamente le distanze da certe
derive intuizionistiche e da certe generalizzazioni esegetiche oggi alquanto diffuse. Non mette conto a questo proposito soffermarsi su taluni interventi estemporanei che per la loro fantasiosa bizzarria si pongono ai margini o al di là del dibattito propriamente scientifico. Da richiamare, piuttosto, sono alcune proposte esegetiche che non sembrano reggere ad un vaglio critico avanzate da studiosi qualificati. È questo il caso della interpretazione data da Renato Peroni del caratteristico motivo decorativo presente spesso nei cinerari biconici villanoviani alla base del collo nel tratto sopra l’ansa (o le anse): in tacita contrapposizione a Hugh Hencken che com’è noto vi aveva visto la rappresentazione di due «figure sedute», Peroni ha affermato che si tratta invece delle terminazioni a protomi ornitomorfe di «barche solari», «evoluzione dei motivi documentati sulle urne protovillanoviane» ora raffigurati in una redazione «rigorosamente rettilinea angolare», tesi riproposta di recente da Daniela De Angelis. Se l’intuizione circa un possibile rapporto fra ‘barche solari’ e ‘figure sedute’ è per certi versi plausibile, nei termini in cui è stata espressa la tesi Peroni-De Angelis è per altro a mio giudizio da respingere: alquanto inverosimile nel caso dei biconici monoansati (nei quali, a differenza di quelli con due anse, non si avrebbe a prima vista la percezione di una barca nella sua intierezza), è con tutta evidenza da escludere in quello dei biconici che presentanole estremità della presunta barca congiunte tra loro (fig. 1) non essendo credibile che un’imbarcazione possa essere pensata e rappresentata (e riconosciuta come tale) con la prua e la poppa che si toccano. Questa specifica redazione del motivo decorativo fornisce anzi un notevole elemento a favore della interpretazione proposta da Hencken (e della sua estensione a motivi analoghi ugualmente collocati), interpretazione del resto fortemente accreditata dalla presenza di una figura antropomorfa seduta al di sopra dell’ansa nel ben noto cinerario di Montescudaio, monumento che senza alcun dubbio riecheggia concezioni e tradizioni funerarie villanoviane come attestano la sua stessa forma e le decorazioni. L’antinomia “barca solare” / “figure sedute” è del resto a ben riflettere malamente posta sol che si consideri l’ambivalenza di certe raffigurazioni antropomorfe che – come ebbi ad osservare molti anni or sono – «prese isolatamente nei singoli registri […] sembrano alludere alla rappresentazione della ‘barca solare’, con possibilità di combinazione con il diffusissimo motivo delle doppie protomi ornitomorfe». A questa ambiguità – o meglio: polivalenza semantica – ha fatto opportuno riferimento Luigi Donati che di recente, nel riesaminare attentamente la questione delle cosiddette “figure sedute”, ha affermato che la loro «origine […] va probabilmente cercata nel motivo della barca solare con terminazioni a protomi ornitomorfe […] che nell’area centro-settentrionale della penisola compare già nel Bronzo finale sul collo dei cinerari dove occupa lo spazio fra le anse, talvolta in associazione con la figura umana». Se, come ha osservato Donati, «la rappresentazione della barca solare […] evoca la concezione della morte come ‘grande viaggio’ verso il regno dei defunti e contiene quindi l’idea di un passaggio, di un collegamento» non sorprenderebbe che alla sua rappresentazione abbia potuto associarsi e sovrapporsi – finendo poi col prevalere – quella del defunto stesso, raffigurato insieme ad un altro essere (sia esso un congiunto, un antenato o una divinità) nella nuova condizione oltremondana raggiunta al termine di quel viaggio. L’interpretazione a suo tempo formulata da Hencken per questo caratteristico motivo decorativo sembra per tanto doversi considerare tutt’ora essenzialmente valida, come ha ribadito Donati; la segnalazione della possibile presenza di questo schema ornamentale anche su biconici rinvenuti in aree di abitato suggerisce tuttavia di mantenere prudenzialmente aperta la questione. L’esegesi formulata da Anna Maria Bietti Sestieri e da Anna De Santis per i coperchi di cinerario a forma conica o a calotta dell’Etruria e del Lazio protostorico attribuibili alle fasi media e avanzata dell’età del Bronzo finale – sarebbero tutti riproduzioni di tetti di capanne – si presta bene ad illustrare un caso, per certi versi analogo a quello precedentemente considerato, di come un’intuizione per alcuni aspetti plausibile possa dar luogo, generalizzandosi, ad interpretazioni a mio parere erronee e fuorvianti. L’interpretazione elaborata per questi coperchi si basa sull’assunto che gli ornati presenti su di essi sono la «riproduzione in forma grafica di elementi strutturali, come pali, aperture, rivestimenti vegetali», affermazione che è elemento decisivo e cogente della proposta esegetica, tanto da indurre le due studiose ad estenderla sorprendentemente «in alcuni casi» anche ai «pochi recipienti di tipo comune usati come coperchi delle urne». Molti dei presunti «elementi strutturali» di tetti di capanna raffigurati sui coperchi dei cinerari sono motivi decorativi ampiamente documentati nel repertorio ornamentale protovillanoviano, presenti sul vasellame fittile degli stessi o di altri corredi anche in collocazioni e in combinazioni sintattiche analoghe o uguali. Si considerino ad esempio gli ornati di una ciotola-coperchio da Allumiere: ritenuti rappresentazione di «pali con disposizione radiale» e della «falda del tetto» trovano puntuali corrispondenze, tra le altre, su di una brocchetta e su di un askòs del medesimo corredo (fig. 2), corrispondenze che, sebbene notate, non hanno indotto A.M. Bietti Sestieri e A. De Santis ad altre e differenti valutazioni. Lo stesso può dirsi per molti degli altri esempi richiamati in relazione non solo ai «pali con disposizione radiale» e alla «falda del tetto», ma anche ai motivi che si riferirebbero al «rivestimento del tetto», a «pali o elementi» e a «cerchiature» per fissarlo, ad «aperture per il fumo», a «elementi decorativi» mutuati da decorazioni reali: si ha come l’impressione che gli occhi delle due studiose – indubbiamente esercitati e per il solito vigili – fossero talmente impegnati nella individuazione di presunti «elementi strutturali» tra le decorazioni dei coperchi dei cinerari da non potere quasi avvedersi di quanto esse – nei singoli partiti come nella loro disposizione e articolazione sintattica complessiva – rimandino a quelle delle urne e degli altri eventuali elementi di corredo vascolare, testimoniando precisi orientamenti del gusto ed una considerevole unitarietà stilistica. Qualche esemplificazione al riguardo. Sul coperchio a calotta da Campo del Fico presso Ardea vi è un’esuberante decorazione a lamelle metalliche disposta su tre registri concentrici delimitati da linee parallele; i singoli partiti ornamentali e la loro delimitazione con linee parallele ricorrono anche sull’urna cui il coperchio si riferisce: poiché è impensabile che queste ultime rappresentino «cerchiature per fissare il rivestimento del tetto», non si vede perché tale interpretazione possa essere sostenuta per le linee del coperchio. L’urna cineraria e il coperchio di una tomba di Pratica di Mare presentano entrambi uno stesso ornato a meandro complesso: non si vede perché quello del coperchio debba esser posto in relazione con «vere decorazioni» e confrontato con quelle, fra l’altro differenti, presenti su urne a capanna. Come coperchio di un cinerario protovillanoviano di Cerveteri è stata utilizzata una comune ciotola ad orlo rientrante con un giro di forellini passanti attorno ad esso nei quali erano forse infilati anellini di bronzo; questo ornato, per una svista descritto come fila di cuppelle, rappresenterebbe la «falda del tetto». Sebbene siano piuttosto frequenti le urne a capanna con forellini passanti lungo i margini del tetto non mancano tuttavia coperchi di vario genere – di per sé non assimilabili a tetti di capanne – muniti anch’essi di una fila di fori intorno all’orlo per l’inserzione di pendenti: su questa base, e in assenza di altri più espliciti e incontrovertibili riferimenti ad un tetto, mi sembra che l’interpretazione proposta sia quanto meno assai opinabile. Concludo queste esemplificazioni, che potrebbero essere ulteriormente estese, con un riferimento a due coperchi di cinerario da Poggio della Capanna presso Tolfa (fig. 3). Rinvenuti in una stessa struttura funeraria, i due coperchi differiscono sensibilmente nella forma, nella decorazione e nel modo in cui è o sarebbe espresso in essi il richiamo ai tetti di capanna: mentre nel primo quel richiamo – secondo l’interpretazione di A.M. Bietti Sestieri e di A. De Santis – è interamente affidato ai motivi decorativi, nell’altro invece è manifestato nella forma complessiva dell’oggetto che non a caso trova discreti confronti con esemplari laziali. Diversità così sensibili in oggetti pertinenti ad uno stesso complesso e connotati da affinità stilistiche non possono a mio avviso che rafforzare ulteriormente le perplessità – diciamo pure un deciso scetticismo – circa la proponibilità della tesi sostenuta dalle due studiose. Se si considera poi che in questo come in altri casi i partiti decorativi riferiti a «elementi strutturali» di tetti di capanna sono presenti – tutti o in parte – oltre che sui coperchi anche sulle urne cui essi si riferiscono e/o su altri vasi degli stessi corredi, ritengo che dalle perplessità e dallo scetticismo non possa che passarsi al rifiuto della interpretazione proposta nella sua formulazione generalizzata. Va da sé che se i coperchi dei cinerari non sono complessivamente considerabili riproduzioni di tetti di capanne viene a cadere l’assimilazione a abitazioni sostenuta indistintamente per tutte le urne. Sarà allora opportuno tornare a valutare la possibilità di una identificazione simbolica del cinerario con il corpo del defunto, concezione questa ben documentata in Etruria fin dagli inizi dell’età del Ferro ma forse operante già dall’età del Bronzo finale (potrebbe esserne indizio la collocazione distesa dell’urna funeraria riscontrata talora a Allumiere). Riterrei del resto che l’assimilazione del cinerario e del coperchio all’abitazione ovvero al corpo del defunto sia da considerare più sotto il profilo di una differente modalità di espressione di una ideologia funeraria essenzialmente unitaria che non sotto quello di una rigida e netta contrapposizione fra concezioni antitetiche. Anche in questo caso si tratta di valorizzare quella nozione di polivalenza semantica precedentemente richiamata in riferimento al motivo delle ‘figure sedute’ e della ‘barca solare’, polivalenza semantica di cui proprio in tema di coperchi di ossuari gli elmi fittili pileati con sovrapposto un tetto di capanna forniscono, per la I età del Ferro, una testimonianza particolarmente significativa. Allusioni alla corporeità del defunto e alla sua abitazione lungi dall’escludersi necessariamente a vicenda possono al contrario coesistere in uno stesso oggetto ed integrarsi reciprocamente, come è confermato da alcuni elmi fittili di Pontecagnano con incisioni riproducenti elementi della struttura del tetto. Fraintendimenti e generalizzazioni indebite caratterizzano anche alcune proposte esegetiche di Mario Torelli; a onta della perentorietà con cui sono state avanzate esse sembrano frutto più di un intuizionismo nutrito delle suggestioni di una vasta erudizione antiquaria che non di un’attenta analisi della documentazione archeologica. Mi riferisco in particolare all’identificazione con una divinità – Ops – sostenuta da Torelli per l’intera serie delle statuette antropomorfe presenti in contesti funerari dell’area laziale del Bronzo finale e della I età del Ferro. Un’identificazione fondata su alcuni assunti indimostrati, variamente opinabili o erronei: a) che le statuette siano tutte di genere femminile; b) che presentino tutte la medesima caratterizzazione come “offerenti” (o meglio: “dispensatrici”); c) che non possano essere raffigurazioni di congiunte in quanto alcune delle tombe con statuette apparterrebbero a sepolture bisome nelle quali sarebbe documentato il sacrificio rituale della compagna del defunto. Quest’ultima proposizione si basa sulla presenza, in alcuni dei corredi con statuette relativi a deposizioni maschili, anche di elementi di norma pertinenti a soggetti femminili: un dato che non vale di per sé a comprovare che si tratta effettivamente di tombe a doppia deposizione, circostanza questa non suffragata dalle analisi osteologiche che, al contrario, confermano la pertinenza delle tombe in discussione a singoli individui. Almeno nel suo generalizzato riferimento all’intera serie delle evidenze la tesi di Torelli risulta dunque insostenibile e fuorviante. Talora l’esegesi proposta è viziata in radice dal travisamento e misconoscimento del dato archeologico sul quale si pretenderebbe per altro di fondarsi. È questo il caso della suggestiva interpretazione elaborata da Torelli per la serie di raffigurazioni plastiche poste sul noto vaso di bronzo dalla tomba 22 della necropoli visentina dell’Olmo Bello a Villa Giulia. Un’interpretazione che muove dall’asserzione che si tratta di un vaso «nato e impiegato come cinerario»: la decorazione di conseguenza «non può che alludere alla sfera funeraria» e «la danza sul coperchio deve dunque interpretarsi come una danza trionfale a carattere funebre»; «la pirrichia sulla spalla del cinerario – prosegue Torelli – ha i caratteri invece di una danza saliare molto simile alla pirrichia-geranos dell’oinochoe di Tragliatella, mentre il gruppo del guerriero con lancia e mazza di fronte ad un toro trattenuto (o tenuto) da un altro personaggio, può trattarsi di una scena di sacrificio, anche se non possiamo escludere che si sia dinanzi ad un incunabolo di ludus gladiatorius, perfettamente inquadrabile, al pari della danza precedente, nella prospettiva di un rito funerario di placatio Manium (un archetipo dei Ludi Taurei?)». Una catena di affermazioni, deduzioni, suggestioni e ipotesi ancorate tutte – stando all’evidenza testuale – alla presunta funzione di cinerario del vaso, «nato e impiegato» per questo fine. Un abbaglio: nella tomba 22 della necropoli visentina dell’Olmo Bello non c’era – e non poteva esserci – alcun cinerario in quanto essa accoglieva un’inumazione! Un’esauriente documentazione archivistica non lascia dubbi al riguardo: oltre a una pianta e a una sezione del sepolcro (fig. 4) ci sono pervenute ripetute descrizioni di esso. Riporto qui integralmente quella più chiara ed estesa, redatta da Enrico Stefani: «Fossa lunga m. 3.20, larga m. 1.00, con uno dei lati brevi irregolarmente stondato. Anche in questa fossa si notarono parecchi avanzi della cassa di legno che qui però venne protetta da una rozza volticella impostata sopra una fila di pietre poste a contatto dei lati lunghi della fossa. Nella parte stondata della fossa rivestita all’ingiro con pietre irregolari, non si trovò nessun oggetto. La maggior parte del corredo venne deposta nell’interno della cassa, sopra ed ai lati del cadavere, ma un cospicuo gruppo di vasi di bronzo che era stato collocato al di sopra della volticella anzidetta e protetto a sua volta da altra volticella si raccolse completamente schiacciato per l’avvenuto crollo di quest’ultima». Adriano Maggiani ha di recente sottolineato come l’erroneo riferimento dell’anfora visentina a un cinerario ricorra con notevole frequenza nella letteratura archeologica; un errore in cui sono incorsi molti degli studiosi che si sono cimentati nell’esegesi delle complesse scene raffigurate sul coperchio e sulla spalla del vaso. Al di là del riferimento a un cinerario, l’attenzione prestata al contesto in cui il vaso stesso è inserito è stata fino al contributo di Maggiani scarsa o nulla e quasi nessuno tra coloro che hanno avanzato proposte esegetiche è sembrato porsi esplicitamente il quesito della congruenza o meno dell’interpretazione formulata con il contesto in cui il vaso era inserito. Anche nel caso della proposta interpretativa di Torelli si ha la netta impressione che essa non nasca solo o tanto dal riferimento del vaso a un cinerario e che sia frutto, piuttosto, di intuizioni e suggestioni alle quali quell’erroneo riferimento ha fornito a posteriori una sorta di validazione. Di qui – riterrei – quelle oscillazioni interpretative che, rivelando una mancanza di necessità delle letture proposte e consentendo variazioni e mutamenti ad libitum delle stesse, proiettano sull’esegesi di Torelli un imbarazzante senso di precarietà e di gratuità. Si considerino in proposito le differenti letture elaborate a distanza di tempo per il gruppo dell’uomo col bovide: a una prima interpretazione come «scena di aratura» ha fatto seguito dieci anni dopo quella come «scena di sacrificio». Nel primo caso si sottolineava la non casualità della presenza di quella scena in un «contesto squisitamente funerario», richiamando «l’arcaico valore metaforico dell’aratura in senso sessuale […] e il rapporto tra sessualità e morte-rinascita […]»; nel secondo, coinvolgendo nell’interpretazione anche il personaggio in atto di brandire lancia e mazza, si inclinava ad attribuire al gruppo un possibile significato sacrificale, senza escludere come si è già riferito quello di «incunabolo di ludus gladiatorius, perfettamente inquadrabile […] nella prospettiva di un rito funerario di placatio Manium […]». Va da sé che è del tutto lecito mutare opinioni e giungere col tempo a formulare proposte esegetiche differenti. Non è di questo che qui si tratta ma della disinvolta intercambiabilità delle letture proposte. Il carattere essenzialmente intuitivo di esegesi di questo genere sembra aver fatto rifuggire dal sottoporre a verifiche le premesse fattuali su cui le interpretazioni si fondano (o dovrebbero fondarsi), verifiche che se effettuate avrebbero necessariamente imposto di abbandonare sul nascere alcune letture. È questo il caso dell’interpretazione come «scena di aratura» a suo tempo avanzata per il gruppo dell’uomo con il bovide: priva di qualsivoglia elemento di riscontro – come è stato opportunamente rilevato da Maggiani – essa risulta del tutto gratuita e quindi improponibile. Non mi dilungo in dettaglio sulle esegesi che del complesso apparato figurativo di questo monumento sono state elaborate da Anselmo Calvetti e da Marco Pacciarelli, assertori di una interpretazione in chiave “saliare” l’uno, “eraclea” l’altro. Entrambe suggestive e con spunti interessanti, le due proposte interpretative appaiono accomunate da un’analoga ricerca e individuazione – approdata ad esiti differenti – di puntuali corrispondenze tra il ciclo figurativo del vaso visentino e tradizioni mitistoriche trasmesseci dalle fonti letterarie. Corrispondenze così puntuali dovrebbero a mio parere suscitare di per sé cautelose perplessità e tanto più considerando l’apparente plausibilità di entrambe le letture che pure, nel proporre interpretazioni complessive dell’intero apparato figurativo del vaso, giungono a esiti contrastanti e inconciliabili. Perplessità ulteriormente acuite dal ricorso, nell’indisponibilità di quelle etrusche, a fonti e a tradizioni mitistoriche romane che in un oggetto di produzione etrusca e di grande antichità troverebbero una corrispondenza così piena, diretta e articolata da apparire di per sé assai sospetta. Riterrei per tanto alquanto temeraria l’affermazione di Pacciarelli circa «la conferma definitiva» che quella corrispondenza recherebbe alla validità della sua lettura “eraclea”. Una lettura che, come del resto quella di Calvetti, è connotata da un forte intuizionismo, da una mancanza di considerazione per il contesto in cui il vaso era inserito e da un’assenza di adeguate spiegazioni di come i richiami “eraclei” (“saliari” nel caso di Calvetti) si confacciano ad una deposizione femminile: elementi questi che costituiscono tutti ulteriori punti di debolezza di entrambe le interpretazioni, e tanto più se si considera la coerenza – di per se stessa apprezzabile ancorché, come si è visto, ondivaga – della esegesi tutta in chiave funeraria proposta da Mario Torelli. A porre in rilevo limiti e insufficienze di queste letture è il confronto con l’interpretazione di Adriano Maggiani, anch’essa tutta in chiave funeraria. Il carattere di offerta funebre del vaso visentino, ben documentato dai dati di scavo, consente di inserirlo «all’interno della più ampia schiera dei vasi cerimoniali immessi nei corredi tombali e probabilmente talora a questo scopo appositamente realizzati». A questo carattere ben si addice, armonizzandosi pienamente con esso, il programma figurativo incentrato sul tema del sacrificio cruento – «celebrato una volta in un contesto di caccia, una volta in un contesto di guerra, e una terza volta in un contesto ‘civile’ o domestico» – al fine di propiziare il buon esito del viaggio nell’aldilà della defunta: tutta la decorazione del vaso dunque «appare in fondo come la registrazione di un complesso cerimoniale sacrificale (reale o simbolico) in onore di una donna morta». Sul carattere sacrificale delle scene rappresentate sul vaso visentino si è soffermato di recente anche Armando Cherici che, come già notato, ha tra l’altro opportunamente evidenziato un possibile legame tra quelle raffigurazioni e aspetti cultuali di Artemide, «nesso che potrebbe motivare […] la presenza in una tomba femminile di un monumento con scene altrimenti riferibili ad ambiti maschili». A conclusione di questa breve rassegna mi pare opportuno sottolineare particolarmente il fenomeno dell’ampia adozione di approcci essenzialmente intuizionistici nell’esame di problematiche attinenti le concezioni funerarie protostoriche, un tratto questo riscontrabile in contributi di studiosi anche di diversa formazione e di ambiti e tradizioni disciplinari più o meno differenziati. Questo dato non riesce certo sorprendente nell’odierna temperie culturale segnata da aperture all’irrazionalismo e, sul versante specifico degli studi di antichistica, da animose rivendicazioni dei diritti dell’intuizionismo. Riterrei nondimeno che si debba guardare a tutto ciò con una qualche apprensione, non tanto sul piano del dibattito teoretico quanto su quello dei risultati concreti. I casi passati in rassegna – nel documentare gli esiti quanto meno dubbi, quando non erronei e fuorvianti, di proposte interpretative di carattere intuizionistico e congetturale, talora molto opinabili, presentate sovente in termini di perentoria assertività – giustificano a mio avviso questo allarme, invitano ad una riflessione, sollecitano un dibattito: sono questi per l’appunto i motivi che mi hanno spinto a scrivere il presente contributo.

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Fonte: https://www.academia.edu/3853683/Intuizioni_ipotesi_e_prudenza_critica._Qualche_riflessione_in_tema_di_concezioni_simboli_e_rituali_funerari_protostorici

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