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giovedì 3 dicembre 2015

Il tempio di Antas, una perla del panorama archeologico sardo.

Il tempio di Antas, una perla del panorama archeologico sardo, dedicato al Sardus Pater.
di Pierluigi Montalbano

È uno dei monumenti antichi più importanti della Sardegna. Normalmente i grandi edifici di culto si trovano all’interno dei centri urbani rilevanti, come avviene a Tharros, Cagliari e Nora. In questo caso abbiamo una struttura monumentale in età punica e romana edificata in un territorio non legato a una città ma alle sue risorse economiche di natura mineraria, infatti l’area in cui sorge era anticamente importante per lo sfruttamento delle miniere. Il tempio di Antas ha avuto una storia lunga e travagliata fino agli anni Sessanta perché il tempio del Sardus Pater era noto dalle fonti classiche, in particolare del geografo greco Tolomeo, ma non si era ancora riusciti ad individuarlo con precisione. A partire dal Cinquecento, e fino alla metà del Novecento, ci sono stati vari studiosi che hanno proposto varie ipotesi per identificare questo tempio del Sardus Pater noto dalle fonti. Alcuni lo collocavano a Capo Pecora in base alle distanze fra i siti e le città elencate nelle fonti, ma l’ipotesi che più ha preso piede è quella che lo vedeva collocato a Capo Frasca. Già nel Seicento un geografo olandese, Filippo Cluverio, proponeva questa teoria che venne portata avanti nei secoli, tanto che anche il canonico Spano, fondatore dell’archeologia sarda, collocava il
tempio del Sardus Pater a Capo Frasca, in particolare in località San Giorgio dove aveva individuato una struttura alla quale aveva attribuito la funzione di tempio. Negli anni Cinquanta Lilliu dimostrò che non si trattava del tempio del Sardus Pater ma di una villa marittima romana. Il generale Alberto Ferrero La Marmora nella prima metà dell’Ottocento collocava ancora a Capo Frasca il tempio del Sardus Pater per il ritrovamento a Neapolis, nel territorio di Guspini, di una pietra miliare frammentata di una strada romana che riportava una parte di iscrizione nella quale si leggeva “ELLUM” e si pensò che fosse la parte terminale di “Sacellum”, ma si scoprì in seguito che si trattava di “Usellum”, quindi l’indicazione di una strada che portava verso l’interno. Sono pochi gli studiosi che hanno messo in dubbio questa ipotesi che andava avanti da secoli e contemporaneamente a questa diatriba sulla localizzazione del tempio del Sardus Pater si conosceva già quello della valle di Antas, ma si pensava fosse un tempio monumentale romano. Nel 1838 La Marmora visitò la valle e realizzò un disegno per l’occasione. Era completamente in rovina e, fra le poche strutture che emergevano nella vegetazione, alcune conservavano iscrizioni. Il La Marmora diede incarico ad uno dei più importanti architetti di Cagliari, Gaetano Cima, di fare il rilievo di questo tempio e corredarlo con un’ipotesi di ricostruzione. All’epoca il tempio fu attribuito a Metalla, una città romana nota dalle fonti.
Negli anni Cinquanta, una studentessa dell’università cagliaritana scavò un altro frammento dell’epistilio e questo ritrovamento accelerò l’indagine e aumentò l’interesse per il sito. Nel 1966 sono stati fatti dei lavori di sistemazione della strada che conduceva nell’area venne trovata una tabella con un’iscrizione romana che dava un’indicazione precisa: veniva nominato il Sardo Patri nell’area di Antas. L’iscrizione fu subito pubblicata da Piero Meloni, uno dei più esperti studiosi di storia romana ed epigrafia che capì l’importanza del manufatto. Lo scavo che aprì la strada alla situazione attuale fu quello eseguito fra il 1967 e il 1968 dalla missione congiunta dell’Istituto di Studi del Vicino Oriente con l’Università della Sapienza di Roma e con la Soprintendenza di Cagliari, guidati dal Prof. Barreca. Le indagini, indirizzate soprattutto all’aspetto punico, sono state edite nel 1969 in un volume che costituisce la base per chiunque voglia accostarsi allo studio del Tempio di Antas. Ciò che attualmente si vede del Tempio è frutto di un lavoro di anastilosi effettuata negli anni Settanta, ma all’inizio dell’indagine la situazione era degradata maggiormente rispetto a ciò che vide La Marmora nell’Ottocento, quando una foresta proteggeva il sito. Quando gli archeologi iniziarono la ricostruzione della struttura, si conservava solo parte del podio e del basamento romano. I blocchi di colonna e i conci residui del tempio si trovavano sparsi nell’area. Gli elementi furono rimessi in opera, probabilmente non nei punti originari, ma si diede prevalenza alla ricostruzione della parte anteriore del tempio. Alcuni blocchi sono stati costruiti a nuovo, rispettando il modello esistente, e si nota la differenza fra gli impasti, anche se col tempo la differenza si è attenuata.
Ricostruendo la storia del sito dobbiamo iniziare dalla considerazione che attualmente ciò che vediamo è il tempio romano, ma dobbiamo tornare più indietro nel tempo in quanto c’è il perdurare di un culto che nelle varie fasi assume aspetti diversi. La prima frequentazione dell’area è stata indagata dal prof. Ugas che nel 1984, quando era ispettore della Soprintendenza di Cagliari, ha scavato un sepolcreto nuragico ubicato a brevissima distanza dal tempio. Era costituito da tre tombe, ma in superficie ha recuperato materiali fuori contesto più antichi, riferiti al Bronzo Finale. In base a ciò ha ipotizzato che oltre alle tombe del Ferro vi fossero altre tombe più antiche che oggi non esistono più, o almeno che non sono ancora state individuate. Il significativo ritrovamento delle tre piccole sepolture a pozzetto allineate sono datate alla prima Età del Ferro, ossia alla fine del IX a.C. Si tratta di inumati posti in posizione inginocchiata o seduta all’interno dei pozzetti circolari, che hanno un diametro di circa 80 cm e una profondità che varia fra 40 e 70 cm. In Sardegna le tombe di questo tipo sono rare e se ne trovano altre 34 solo a Monte Prama. Erano segnalate in superficie da una pietra e solo due delle tombe ospitavano degli inumati, in quanto nella tomba 2 non c’era sepoltura e si è pensato a un cenotafio. La tomba 1 ha restituito un vago un bronzo e due in oro riferiti ad ornamenti, mentre la tomba 3, in associazione con il defunto, ha restituito molti materiali riferibili ad oggetti d’ornamento e un bronzetto.
L’inumato aveva una collana con materiali in ambra, cristallo di rocca, pasta vitrea e argento. C’è da notare che l’ambra proviene generalmente dal Baltico e questo ci fa pensare a strade complesse percorse dagli scambi fra popoli. Il personaggio aveva un anello al dito e stringeva un bronzetto nuragico che rappresentava un personaggio maschile con una lancia in mano e con il consueto atteggiamento sardo del segno di saluto, tipico anche delle zone orientali. Secondo gli studiosi si tratterebbe della rappresentazione della prima divinità nuragica adorata nell’area di Antas, il Babai, la divinità paterna che in seguito sarebbe stata interpretata dai cartaginesi come Sid Addir Bab, e dai romani come Sardus Pater. Quindi una divinità che avrebbe avuto un culto fino ad età tardo romana che assunse vesti diverse, e nome, secondo il popolo che l’adorava. C’è da rilevare che in età cristiana il culto di Santu Gregoriu che ebbe l’area della valle di Antas è anch’esso stato interpretato in questo senso. In realtà per parlare di continuità di culto dovremmo trovare tutte le fasi ma ad Antas abbiamo un buco che va dall’inizio del secolo VIII a.C. e arriva fino al momento in cui i cartaginesi arrivano nell’area, intorno al 500 a.C.
Il primo tempio impiantato è quello punico, mentre all’epoca nuragica risale solo un’area funeraria, anche se in superficie, e in diversi punti, sono stati recuperati dei bronzetti nuragici che potrebbero riferirsi ad una struttura sacra. È noto che i fenici arrivano in Sardegna intorno alla fine del IX a.C., fondano Sulci nell’VIII e popolano l’area soprattutto nel VII a.C. Alla metà del VI a.C. l’africana Cartagine riesce progressivamente ad avere il controllo del territorio a danno delle città fenicie e inserisce la Sardegna nel suo impero. Cartagine, a differenza delle città fenicie, ha una politica di tipo imperiale e tutti i territori della Sardegna sud-occidentale e della Sicilia occidentale vengono a far parte di una politica economica di tipo militare e unitaria. C’è la necessità di reperire risorse per la capitale, e si tratta di due tipologie fondamentali: minerarie e derrate alimentari, da utilizzare per mantenere in armi l’esercito mercenario, differente da quello greco composto da cittadini. Quello cartaginese era costituito da diverse etnie: sardi, iberici, libici, siculi. Questo esercito era pronto a ribellarsi nel caso non venisse pagato regolarmente e costituiva una criticità dell’organizzazione punica. Cartagine attua per la prima volta uno sfruttamento intensivo dell’area mineraria e necessita di un’installazione fissa per organizzare e amministrare l’enorme risorsa che deriva dallo sfruttamento. Nel mondo semitico i templi uniscono alla funzione religiosa quella economica, sono dei centri commerciali importanti da dove partivano le imprese di esplorazione e che costituivano il centro fisico dell’organizzazione delle risorse. Quando, ad esempio, Tiro va a fondare le varie colonie del Mediterraneo, fornisce un ruolo fondamentale al tempio: l’amministrazione degli scambi con l’elemento indigeno. Il tempio è un luogo di culto ma è, allo stesso tempo, il luogo simbolico della potenza di Cartagine nel quale si organizzava lo sfruttamento delle risorse. Per questo motivo si trovavano nell’area una serie di servizi e uffici nei quali soggiornavano i sacerdoti ma anche gli addetti all’organizzazione e alle varie funzioni necessarie.
Ciò che si trova nella letteratura, relativo al Tempio di Antas, è ciò che ha sostenuto Prof. Barreca già nei primi lavori degli anni Sessanta e fino alla fine degli anni Ottanta. Da quelle ipotesi iniziali ci si è discostati poco, anche perché gli scavi successivi fatti, dalla fine degli anni Novanta da Bernardini, sono ancora inediti.
La struttura templare punica si trova davanti alla scalinata d’ingresso romana e si conserva in condizioni precarie. Barreca ha eseguito uno sforzo di ricostruzione per capire come era fatto il tempio perché molte strutture sono romane e del periodo punico sono rimasti solo pochi lacerti murari e alcuni elementi architettonici fuori contesto. Lo studioso pensava ad un tempio punico che nella prima fase del 500 a.C. era rettangolare con una struttura semplice che si incentrava su una roccia naturale sacra, fulcro del culto, circondata da un muro che formava un recinto. Forse la corte era a cielo aperto perché nell’area non sono state trovate tegole. Nel 300 a.C. questo tempio avrebbe subito una risistemazione con il rifacimento della facciata e alcuni muri che delimitavano un “Sancta Sanctorum”, ossia una zona sacra molto riservata, un penetrale. Vi fu, inoltre, l’aggiunta di elementi greci (le colonne doriche), e di tipo egiziano, come le strutture che sormontavano le colonne, ossia le gole di coronamento. In seguito vi fu il rimodernamento eseguito in tempi romani, come ad esempio il pavimento del penetrale. Alcune ipotesi di Barreca non sono state accettate da Bernardini perché sotto alcuni muri sono stati trovati materiali romani e le datazioni portano quindi a tempi più recenti. Inoltre l’altare individuato da Barreca in realtà potrebbe essere, sempre per Bernardini, la copertura di un’altra tomba di quelle nuragiche. All’interno di una struttura molto semplice, impiantata in un secondo momento, sono stati recuperati centinaia di manufatti, parte dei quali sono oggi esposti al museo di Cagliari. Ci sono, ad esempio, numerose iscrizioni che consentono di dire a chi il tempio era dedicato. Sono poste su basi in pietra che sostenevano oggetti dedicati alla divinità, oppure sono incise su placchette in bronzo che presentano i fori per ospitare i chiodi. Si tratta di iscrizioni ripetitive che ci danno la titolatura del tempio. La divinità punica di Antas è Sid, potente (addir) Bab, e le iscrizioni ci dicono anche che chi si recava ad Antas ad offrire questi preziosi oggetti artigianali erano spesso dei personaggi pubblici, e non fedeli che chiedevano una grazia. In almeno 3 casi viene citato un funzionario. In una scritta è riportato: al signore Sid Addir Babai, statua di bronzo che ha dedicato imilkat, figlio di abshmun, figlio di bb melkart, che appartiene al popolo di Caralis. Non significa che è un personaggio di Cagliari perché nella iscrizione semitica, AM di Caralis è in realtà un’istituzione pubblica, forse un’assemblea popolare o una corporazione religiosa o, come afferma Acquaro, AM sia l’assemblea popolare dei cittadini cartaginesi insediati nelle diverse colonie. Nelle colonie risiedevano indigeni e inviati dalla capitale, ma il controllo era statale da parte di prefetti inviati da Cartagine. Alcuni membri delle principali famiglie della capitale venivano inviati per controllare direttamente sul posto lo svolgersi delle attività delle varie colonie e secondo questa ipotesi, l’AM di Caralis sarebbe l’assemblea dei funzionari pubblici cartaginesi. Un’altra iscrizione ci aiuta a capire un aspetto della personalità di Sid, e recita: al signore Melkart (divinità principale di Tiro) sulla roccia… Proprio come affermava Barreca ci sarebbe, dunque, una roccia sacra.
All’interno del tempio vi erano elementi scultorei greci di alta qualità, come una testa di Afrodite in marmo pario datata al V a.C., un’altra testa femminile interpretata come la greca Demetra e datata al III a.C. e un’altra che viene attribuita alla figlia di Demetra, sempre del III a.C. Erano tutti oggetti che si trovavano sulle basi in pietra che riportavano le iscrizioni.
Fra gli altri elementi di grande pregio ricordiamo piume in oro, amuleti, piccoli astucci in bronzo, oggetti d’ornamento, manufatti votivi in bronzo. Normalmente gli amuleti, che sono piccoli oggetti in pietra tenera, sono importati dall’Egitto e vengono trovati nelle tombe. Venivano portati in vita per scacciare i demoni, come portafortuna, per proteggere i bambini, le partorienti e avevano una funzione magica più che sacra. Antas è l’unico sito in Sardegna, e l’unico altro esempio nel Mediterraneo è Kition a Cipro, che ha restituito amuleti nel contesto di un santuario.
Sono state trovate molte monete puniche, oltre 2000, ma solo in piccola parte arrivano da zecche sarde e puniche perché principalmente sono cartaginesi. Probabilmente il motivo è da ricercare nella difficoltà di circolazione delle monete durante la prima guerra punica.
Il ritrovamento di un lacerto di intonaco con la raffigurazione di un occhio ha suggerito a Bernardini che le pareti del tempio potevano essere decorate.
È importante segnalare che tutti gli oggetti ritrovati sono stati intenzionalmente frantumati come se si volesse cancellare la memoria di questo sito.
Sid Addir Bab non è una divinità fra quelle importanti del mondo fenicio punico. Un tempio dedicato a Sid è attestato solo ad Antas ma il nome è spesso associato ad altre divinità fenice o a nomi propri di questo popolo. I nomi teofori più comuni, ossia quelli che contengono il nome della divinità all’interno, sono quelli ebraici. Ad esempio Gabriele e Raffaele contengono il nome della divinità EL, e molti nomi fenici testimoniano la presenza di questo termine Sid. A Cartagine è attestato il tempio di Sid Tanit, quello di Sid Melkart, ma non esiste un altro tempio dedicato esclusivamente a Sid.
Probabilmente si tratta di un Dio cacciatore perché la radice del termine è legata a “cacciare” e, soprattutto, per la presenza di numerosi giavellotti in bronzo ritrovati nel sito. Secondo alcuni studiosi si tratterebbe di un Dio guaritore perché nelle iscrizioni del tempio troviamo dediche a statue di dei guaritori: Shadrafa e Oro.
Per altri sarebbe un fondatore di stirpe sulla base delle fonti letterarie che lo legano a Melkart-Eracle. Per altri ancora avrebbe caratteristiche di un Dio marino.


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