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lunedì 18 luglio 2016

Archeologia. La storia della navigazione antica

Archeologia. La storia della navigazione antica
di Pierluigi Montalbano


Quando l’uomo primitivo decise di spingersi fuori dal suo habitat, spinto dalla sete di appropriazione e dalla curiosità, dovette fronteggiare ostacoli, difficoltà e pericoli d’ogni genere. Incontrando un corso d’acqua profonda, lo specchio d’acqua di un lago o un braccio di mare, era costretto a fermarsi. L’intelligenza, accompagnata dallo spirito di osservazione e dalle capacità di adattamento, gli consentirono di affrontare quegli ostacoli. A volte nell’acqua galleggiavano fortuiti ammassi sradicati di vegetali e di tronchi d’albero, corpi gonfi di animali morti e altro ancora, che suggerivano l’idea della galleggiabilità. Inoltre, l’uomo stesso, imitando gli animali, aveva imparato a mantenersi a galla e a nuotare, prendendo confidenza con l’acqua. Iniziò allora la grande avventura della nautica, che si estese con una rete senza confini fino ad abbracciare tutto il pianeta.
La storia della navigazione commerciale è legata indissolubilmente con il trasporto di ossidiana. Quella sarda è stata trovata in Provenza, in Liguria, Toscana, qualche traccia nella valle del Po, ma
ciò che sorprende è la presenza del pregiato materiale sardo in Bosnia, Dalmazia centrale, Croazia, Trieste, Udine, Faenza, come se la distanza non costituisse un problema per chi la commerciava. Naturalmente dobbiamo tener conto del diverso livello medio degli oceani alla fine dell’ultima glaciazione, fino a 150 metri più basso del livello attuale. Ciò comportò l’emersione di terre adesso sommerse. Le distanze delle isole dalla terraferma erano brevi, pertanto abbiamo uno stretto legame con il primo popolamento delle isole mediterranee. L’acqua è sempre stata un’asse di circolazione privilegiata, e il desiderio di spostarsi sulla sua superficie deve essere sempre stato al centro dei pensieri degli uomini, se non altro per pescare o cacciare gli animali acquatici. Muoversi rapidamente e a lungo nell’acqua deve aver costituito uno stimolo irrefrenabile nel cercare mezzi alternativi al nuoto, lento e faticoso. 

Indagini archeologiche effettuate nel Mar Egeo, hanno consentito di scoprire le prove dei primi viaggi per mare della storia. I reperti risalirebbero a oltre diecimila anni fa. I manufatti ritrovati, delle asce in pietra, testimoniano che le prime navigazioni nel Mediterraneo sono avvenute molto prima di quanto si credesse. C’è da rilevare che precedentemente gli uomini che si spostarono dall’Africa nelle altre parti del mondo lo fecero certamente seguendo anche una via marittima. La storia dell’uomo, infatti, è segnata da avvenimenti legati all’attraversamento di tratti di mare o di fiumi, soprattutto per il trasporto di ossidiana, un pregiato vetro di origine vulcanica originato dal repentino raffreddamento di magmi acidi effusivi. Era adoperato come materia prima per la fabbricazione di armi, utensili e altri manufatti. Con l’avvento dei metalli, l’ossidiana fu poi impiegata come pietra preziosa da egizi, greci e romani. Prima dell’Età del Bronzo, dunque, per ottenere degli strumenti taglienti, resistenti e di agevole lavorazione (caratteristiche non altrettanto consentite dalle pietre e dalle selci), era possibile ritrovare questo vetro vulcanico in pochi siti. Nel Mediterraneo occidentale abbiamo solo quattro giacimenti: Lipari, Pantelleria, Palmarola e il Monte Arci in Sardegna. Nel Mediterraneo orientale l’ossidiana era presente solo a Melos, nel Mar Egeo. Fin da tempi immemorabili, erano diffuse piroghe ricavate dallo svuotamento di grossi tronchi d’albero e barche formate da un’armatura di legno sulla quale erano tese delle pelli cucite tra loro. Esistevano anche zattere costituite da due piroghe unite da tronchi o formate da una piattaforma di legno tenuta a galla da otri di pelle gonfi d’aria (antenate dei nostri gommoni), barche di canne o di papiro, com'è attestato in Egitto dove, a partire dal Regno Antico (I-VIII Dinastia 2920-2150 a.C.), si iniziarono a costruire anche navi di legno, delle quali è giunto a noi un noto esemplare integro, la nave del faraone Cheope o Khufu (2551-2528 a.C.), ritrovata nel 1952 in una fossa sigillata ai piedi della piramide. L’esplorazione effettuata con una macchina fotografica introdotta attraverso un foro rivelava il contenuto: una grande imbarcazione smontata in numerose parti, remi, grandi tavole, porte, colonne, elementi diversi, il tutto ricoperto da stoffe ormai degradate e resti di tappeti. Erano 1224 pezzi, i più grandi dei quali in cedro del Libano, mentre i più piccoli, quali cavicchi e perni, erano di gelso. L’imbarcazione, oggi musealizzata, è lunga 43,4 m, larga 5,9 m e ha un dislocamento di circa 40 tonnellate. Il tavolame dello scafo, spesso 13-14 cm, è montato con legamenti passanti attraverso lo spessore dalla parte interna e in parte con elementi che, perfezionati, troveremo nella tecnica del tenone e della mortasa, utilizzati più tardi per le navi micenee e fenicie.


Le più antiche fonti epigrafiche che riguardano la navigazione commerciale risalgono al 2650 a.C. e appaiono in testi egiziani della IV dinastia. Si parla di 40 navi inviate in Libano per approvvigionarsi del legno di cedro, ricercato per la costruzione di tetti e per la realizzazione delle parti nobili degli scafi. Ovviamente, più di quanto accade oggi, la navigazione antica dipendeva dall’andamento delle stagioni e dal regime dei venti e delle correnti. Inoltre, la durata del viaggio non era prevedibile, poiché le antiche navi, capaci di risalire il vento solo con difficili manovre e un’andatura a zig-zag, navigavano preferibilmente con il vento in poppa ed erano spesso costrette a cambiamenti di direzione o a lunghe soste. A complicare la situazione si aggiungevano i problemi di orientamento, basati sui movimenti del sole e sulle costellazioni. 
I primi studi sulle navi più grandi, hanno evidenziato una costruzione con legature con fibre vegetali (navi cucite). Lo scafo era a fasciame autoportante, cioè le tavole potevano essere montate anche senza il supporto dello scheletro interno (tecnica detta shell first, ossia prima il fasciame), grazie alla presenza di incastri (le mortase) realizzati nei giunti tra l’una e l’altra tavola (i comenti), nei quali venivano inserite delle linguette di legno (i tenoni). 


Alla fine del XVI a.C., in Egitto regnava la regina Hatshepsut, ricordata per le sue spedizioni commerciali con grandi navi da carico. Decise di mandare una spedizione lungo le coste della Somalia, all'altezza del Golfo di Aden, e costruì e mise in mare 5 navi, le più grandi e meglio equipaggiate che si fossero mai viste sulle rive del Nilo. Il luogo di approdo si trovava in una regione ricca di alberi di incenso, di gomme e resine, di mirra e ambra, di oro, lapislazzuli, avorio, e di legno pregiato. Attraverso le raffigurazioni nei bassorilievi riusciamo oggi a conoscere tutti i dettagli del viaggio. Ogni parte della nave rappresentata nelle illustrazioni è disegnata con precisione, fin nei minimi particolari. Queste navi furono costruite con una chiglia stretta, la poppa e la prua molto alte sopra l'acqua. La lunghezza era di circa 70 piedi, e sono prive di cabina. Una piattaforma rialzata con una balaustra, eretta sia poppa sia a prua, serviva per poter guardare avanti e dietro e al di sotto c'era un riparo per gli ufficiali. Le navi non avevano ponti, in quanto lo scafo era studiato per l'utilizzo dei rematori in coperta. Le estremità dei tavolati che formavano i sedili erano fissati alle costolature della nave. C’era una stiva sotto i piedi dei rematori per lo stoccaggio delle provviste, ma questo, naturalmente, rimaneva sotto il livello del mare e quindi non risulta nei disegni. L’albero era infisso nel mezzo della nave, e legato saldamente alla chiglia. Costruito con il massiccio tronco di una palma, doveva misurare in altezza circa 8 metri. Ogni nave montava una singola vela, e aveva due pennoni a cui legarla, di cui quello in cima dritto e quello in basso curvo. Il timone era formato da due lunghi remi, fissati fermamente a un supporto sulla piattaforma posteriore, e messo in funzione da un lungo bastone curvo. L'equipaggio consisteva in trenta rematori, quindici su ognuno dei due lati, quattro addetti a mantenere il ritmo della vogata, due timonieri, un pilota, un sorvegliante dei rematori, e un capitano. Un piccolo distaccamento di 10 soldati e un ufficiale, accompagnarono la spedizione in qualità di guardia d'onore per il convoglio mandato dalla Regina Hatshepsut al Principe di Punt. Contando sia i marinai che i soldati, la spedizione consisteva in circa 210 persone. Ogni membro dell'equipaggio ha il suo posto sulla nave. I rematori si siedono ai remi. Gli addetti a tenere il ritmo della vogata stavano in piedi alle loro spalle sulla piattaforma di prua, dirigevano la salita e la discesa dei loro remi, intonando un canto al quale si univano anche gli altri. Il timoniere si posizionava a poppa, e impugnava il lungo bastone curvo che governava il timone. Il capitano, con il bastone del comando in mano, è in piedi sulla piattaforma a prua, mostrato mentre guarda nella direzione verso cui è diretta la nave.

Le scoperte dell’archeologia subacquea hanno evidenziato che la tecnica a fasciame portante era in uso già nel XIV a.C. La nave di Ulu Burun, affondata nel sud della Turchia nel 1350 a.C., dimostra che era possibile realizzare questo schema di costruzione anche senza le legature, semplicemente vincolando i tenoni, inseriti all’interno delle mortase del fasciame, con spinotti di legno. Lo stesso tipo di nave, con lievi modifiche, era usato indifferentemente per il commercio o la guerra. Le navi da trasporto avevano una forma tondeggiante e utilizzavano la vela quadra per la navigazione; quelle da guerra mantengono una forma allungata, con la prua munita di rostro e si muovono sia a remi sia a vela. Il vasellame da cucina e da mensa costituiva il carico supplementare delle spedizioni, insieme a suppellettili pregiate e opere d’arte, trasportate in imballaggi di paglia avvolti da tessuti pesanti, per attutire i colpi ed evitare danneggiamenti nel corso della navigazione. Si trasportavano anche generi alimentari, vino, olio e conserve di pesce e di frutta, contenuti in anfore impilate nelle stive. Dei contenitori utilizzati nell’antichità per il trasporto marittimo, solo le anfore e i recipienti in terracotta sono giunti fino ai giorni nostri. Sacchi, botti e tutti i contenitori costituiti da materiale deperibile sono andati perduti. Alcune eccezioni sono rappresentate dal ritrovamento di resti di cesti in vimini. Il commercio marittimo conobbe anche navi specializzate per particolari merci quali i marmi lavorati e semilavorati, navi cisterna per il trasporto del vino dentro grandi vasi di terracotta, detti dolia, capaci di contenere fino a 3000 litri di vino. 
Dal II Millennio a.C., la navigazione d’altura, non a vista di costa, era praticata su larga scala in tutto il bacino del Mediterraneo. Già i minoici di Creta, e poi i micenei, avevano sviluppato tecniche navali e di orientamento, diurno e notturno, con le quali riuscirono a soggiogare gli altri popoli costieri imponendo una talassocrazia, ossia la gestione dei traffici commerciali attraverso il potere marittimo esercitato con potenti flotte. Si arricchirono e contribuirono a diffondere idee, tecnologie e merci, fino a quando i due grandi imperi del passato, egizi e ittiti, decisero di scendere in guerra per procurarsi con la forza ciò di cui avevano bisogno, soprattutto metalli. La navigazione sotto costa, pur se più comoda per la possibilità di approvvigionamento idrico, era praticata malvolentieri perché era soggetta a dazi doganali.

Ogni città costiera imponeva tasse a chi transitava a vista. Inoltre c’erano flotte di pirati che imperversavano nel Mediterraneo, e ciò costituiva un perenne pericolo per i naviganti. Naturalmente la Sardegna, con i suoi giacimenti di rame e argento, era una delle mete preferite dei commercianti e certamente, con i suoi 8000 nuraghi posti a controllo capillare del territorio, non poteva essere estranea ai traffici marittimi. Circa 1000 nuraghi costieri costituivano un potente deterrente per eventuali nemici, pertanto è verosimile che nei villaggi costieri fosse sempre presente un approdo in grado di soddisfare la domanda dei naviganti, con conseguente acquisizione delle tecniche marinaresche. I sardi poterono sempre contare sul confronto con chi possedeva tecnologie all’avanguardia poiché i porti sono l’interfaccia privilegiata di popoli distanti che si incontrano.
Ritornando alle rotte navali, le imbarcazioni non lasciano tracce sul mare, e per capire quali rotte praticavano i marinai preistorici è utile lo studio del percorso che i tonni, i pregiati pesci del Mediterraneo, seguono dallo Stretto di Gibilterra fino alle coste del Vicino Oriente e ritorno. E’ un ciclo antiorario che percorre le coste nord africane fino all’Egitto per poi risalire lungo i territori cananei, girare sopra Cipro, l’altra isola del rame oltre la Sardegna, e giungere nelle isole dell’Egeo. Da lì possono risalire verso il Mar Nero attraverso lo stretto dei Dardanelli, con correnti favorevoli solo per pochi giorni ogni mese, oppure procedere verso lo Stretto di Messina, famoso proprio per le sue tonnare. A quel punto procedono verso nord, lungo le coste campane, laziali e toscane, per giungere in Liguria e poi nel Golfo del Leone. Due correnti favorevoli li portano giù in Sardegna e infine, se passano indenni le nostre tonnare, fuoriescono dal Mediterraneo procedendo lungo la costa andalusa.


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