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giovedì 27 luglio 2017

Archeologia della Sardegna. Sant’Imbenia, uno straordinario sito nuragico che 3000 anni fa divenne esportatore di vino e anfore in tutto il Mediterraneo. Riflessioni di Marco Rendeli

Archeologia della Sardegna. Sant’Imbenia, uno straordinario sito nuragico che 3000 anni fa divenne esportatore di vino e anfore in tutto il Mediterraneo.
Riflessioni di Marco Rendeli



Una palude, molta acqua, presumibilmente salmastra, troppa per un abitato. Non c’è pietra da cavare, almeno nelle vicinanze, non c’è legna per costruire, cuocere, fondere, cucinare. Non guardiamo questa parte del Golfo di Porto Conte con il moderno occhio del turista in cerca delle belle spiagge, togliamoci dalla mente strade asfaltate, automobili, case confortevoli con cucine a gas, termosifoni o pompe di calore, elettricità, la televisione, la radio e il computer, la connessione internet, ma anche lo scarponcino o le scarpe da ginnastica. Dobbiamo svestirci di tutte queste cose, di sfogliare, come si sfoglia una cipolla, tutti questi elementi per cercare di comprendere ed entrare in sintonia con la
vita quotidiana che 2800 anni orsono si viveva nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia.




















Un viaggio nel passato che, necessariamente, deve spogliarsi di mille orpelli per poter interpretare i lenti mutamenti o le veloci trasformazioni che avvengono in questo angolo della Sardegna all’inizio del I millennio a.C. Senza questa operazione risulterà difficile comprendere come mai questa area vasta sia stata così densamente popolata a partire da 6000 anni da oggi; perché grandi gruppi familiari allargati e piccole famiglie mononucleari hanno scommesso su questo distretto creando una rete di relazioni e di organizzazione che si estende per molti chilometri verso nord est (fino almeno alle miniere dell’Argentiera e di Canaglia) e verso sud (fino alle miniere di Calabona); come queste persone abbiano trasformato un territorio selvaggio e difficile in un paesaggio organizzato in cui la mano dell’uomo ha prodotto profondi cambiamenti di cui ancora oggi ne godiamo i frutti.
La Nurra meridionale era ed è terra di olio e di vino, terra di cereali e di allevamento di animali domestici, terra ricca di fauna selvatica, prossima a un mare pescoso e “fertile” quanto la terra, con un golfo quale quello di Porto Conte che è stata un’ottima e ampia zona di rifugio per navi in quanto protetta dai venti dominanti. In prossimità del punto più interno del Golfo di Porto Conte, sorge a partire dal XIV a.C. un nuraghe monotorre che, nel corso del tempo, diventa punto aggregante di un villaggio che gli si dispone attorno.

Oggi raccontiamo una fase recente del palinsesto di Sant’Imbenia, un momento in cui gli abitanti modificarono in maniera consistente l’organizzazione della loro vita quotidiana, del loro insediamento e, presumiamo, anche del loro territorio. Per avere un’idea meno approssimativa della vita a S. Imbenia è necessario chiarire un punto essenziale: infatti, fino a pochi anni orsono, si riteneva che l’estensione del sito
fosse di poco superiore all’area scavata. Oggi grazie alle indagini geomagnetiche e di resistività elettrica compiute da P.J. Johnson è possibile rivedere le dimensioni del villaggio: dai 35 m ai 100 m di raggio verso nord a partire dal nuraghe. Se esso avesse una posizione centrale rispetto all’abitato ne risulterebbe un sito delle dimensioni di più di 3 ettari. Le indagini hanno messo in luce nel settore settentrionale un canale anulare: se stabiliamo una connessione cronologica
fra questo e l’abitato, potremo riconoscere in esso un limite fisico per l’espansione dell’abitato e allo stesso tempo un suo ruolo di bonifica e smaltimento delle acque che, come detto, in quest’area non dovevano mancare. Le indagini combinate di P. Johnson offrono anche altre indicazioni importanti:
capanne e altre strutture (abitative) si leggono nella pianta fino al canale anulare; la zona sottoposta a scavo sembra racchiusa da un muro che la delimita verso nord; questa recinzione ha una sua apertura nella parte occidentale. L’impressione che si desume dalla lettura della mappa è che si possa essere di fronte a un settore “delimitato” del sito che per questa sua organizzazione deve essere letto e interpretato.


I “vecchi” scavi (1982-1996)
La storia degli scavi nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia è saldamente legata alla volontà e alla determinazione di Fulvia Lo Schiavo, allora Soprintendente per i beni archeologici per le province di Sassari e Nuoro. L’area in cui sorge il sito era (come lo è tuttora) un’area privata adibita a camping: la necessità di eseguire dei lavori al suo interno spinse nel 1982 la Soprintendenza a condurre alcuni saggi di scavo che, fin dalla prima campagna, si rivelarono assai promettenti: da allora le indagini si svolsero fino al 1996 quando furono interrotti per mancanza di fondi. La memoria storica di questa stagione di ricerche durata 15 anni, Susanna Bafico, ha intrapreso dal 2008 una ricostruzione dello sviluppo delle “vecchie” indagini per cercare di ricomporre tutte le stratigrafie e dare all’ingente mole di materiale scoperto una sua collocazione spaziale e temporale. Le ricerche 1982-1996, anno in cui fu portata a termine la realizzazione della grande tettoia che “incombe” e protegge lo scavo, hanno messo in luce due grandi aree distinte fra loro. Una meridionale prossima al bastione che corona il nuraghe e fa da quinta scenografica a questa parte dell’abitato; una settentrionale nella quale si misero in evidenza una serie di ambienti aperti e di vani coperti più o meno collegati fra loro. Nel settore meridionale è degna di menzione una sorta di insula composta da una serie di aree aperte e ambienti chiusi che compongono un’unica unità apparentemente abitativa.

L’accesso avveniva attraverso un ingresso posto lungo uno stretto stradello lungo il bastione del nuraghe: da esso si entra in un ambiente aperto connotato dalla presenza di un pozzo e di una sorta di bacino che era in comunicazione con una lunga canaletta che portava l’acqua nella capanna con le nicchie posta all’estremità occidentale del complesso. L’atrio dava accesso a due ambienti coperti che risultano essere chiaramente una commistione di più antichi modelli edilizi a pianta circolare “ristrutturati” con tramezzi rettilinei. A oriente dell’insula vi è l’unica capanna circolare sopravvissuta come struttura a se stante, la cosiddetta capanna dei ripostigli. Questa capanna, messa in luce nel 1990, ha evidenziato la presenza di due pavimenti: il più recente, costituito da lastrine messe di piatto, “nascondeva” al di sotto un’anfora di influenza fenicia coloniale che aveva al suo interno 43 kg di panelle di rame. L’anfora era alloggiata all’interno di uno strato di livellamento alto quasi un metro al di sotto del quale si scoprì un altro battuto pavimentale al cui interno vi era una seconda anfora (del tipo Sant’Imbenia) anch’essa riempita con altri 42 kg di panelle di rame e di oggetti in bronzo. Una canaletta a forma di ferro di cavallo e una vasca in pietra erano visibili in questo secondo piano. Le analisi condotte da S. Bafico alla riapertura degli scavi hanno permesso di ricollegare questi due livelli pavimentali a un cambiamento strutturale avvenuto nella capanna: infatti l’ingresso attuale della capanna, collegato al primo e più recente pavimento, non è quello originario ma appare essere l’esito di una trasformazione visibile nelle pareti accanto allo stesso.

L’ingresso più antico, che era in connessione con il secondo livello pavimentale, era rivolto verso nord: ne possiamo cogliere l’ampiezza grazie alla
tamponatura riconoscibile nel muro all’interno della stessa capanna. L’analisi dei reperti rinvenuti nel potente strato di livellamento fra i due piani pavimentali ha consentito di datare questo intervento. Tra i materiali si annovera una serie di frammenti di importazione greca e fenicia d’Oriente databili fra la
fine del IX e il primo quarto dell’VIII a.C.: una coppa a semicerchi pendenti, una “a chevrons” e una “a uccelli” di produzione euboica, una fine coppa di Samaria ware, un cooking pot di produzione fenicia testimoniano una frequentazione del sito in una fase sicuramente precedente la strutturazione coloniale levantina in Sardegna e greca nella penisola italiana. Il quadro dei “vecchi” scavi viene completato da due saggi compiuti lungo il bastione orientale del nuraghe: un saggio in profondità ha consentito di datare la fase di più antica frequentazione del complesso al XIV a.C. momento in cui, con ogni probabilità, viene costruito il nuraghe. Un altro saggio, ad esso limitrofo, ha messo in luce una porzione
di un’ampia capanna circolare, dotata di una banchina corrente attorno al perimetro interno, che è possibile interpretare come una capanna delle riunioni per similitudine con una analoga struttura presente nel vicino villaggio del nuraghe Palmavera. Questo è, brevemente e in forma assai schematica, il resoconto dei “vecchi scavi”: per le scoperte e per le implicazioni che aveva suscitato
la grande messe di dati venuti alla luce sarebbe stato possibile già fermarsi ai rinvenimenti del 1996.

Un gran numero di pubblicazioni scientifiche dedicarono ampio spazio ai ritrovamenti nell’abitato nuragico di Sant’Imbenia: la sua importanza poteva essere letta da molti punti di vista. Per coloro i quali erano interessati alle correnti di traffico commerciali del Mediterraneo nel I millennio a.C.
il sito rappresentava un tassello importante nei rapporti fra Oriente e Occidente in una fase sicuramente precedente le strutturazioni coloniali levantine e greche; per gli studiosi della Sardegna tardo nuragica testimoniava una vitalità dei rapporti fra mercanti e indigeni in una fase per la quale gli studiosi avevano decretato la fine della “bella età dei nuraghi” imponendo una serie di quesiti importanti sull’età del Ferro in Sardegna. I ripostigli con le panelle di rame e gli oggetti in
bronzo, le forme di contatto e di scambio, le forme di ospitalità offerte dagli indigeni ai mercanti che si evidenziavano in progressi tecnologici nella lavorazione della ceramica e nel recepimento di forme vascolari orientali da parte delle comunità sarde di questa area, la continuità di tali forme di commercio per più di due secoli anche attraverso le strutturazioni coloniali di Sulcis e Cartagine, per
parte levantina, e di Pithekoussai (Ischia), per la parte greca offrivano un panorama ricco di implicazioni e fortemente variegato. Quale poteva essere dunque la ragione per riprendere gli scavi in questo sito? D’altronde, a mo’ di aneddoto, nel 2007 quando annunciai la riprese delle ricerche archeologiche a Sant’Imbenia un professore e amico mi avvertì di non covare grandi aspettative perché quel che doveva essere trovato nel sito era già stato scoperto. Devo confessare che se quell’avvertimento creò un qualche sconforto, aumentò la volontà di andare avanti e di porre nuove domande a questo sito.


La ripresa delle ricerche nel 2008
Nel mese di settembre 2008 riprendemmo le ricerche sul terreno: scegliemmo, quasi per necessità, di intervenire su tutta l’area intermedia che non era stata toccata o era stata investigata in maniera marginale nel corso delle precedenti ricerche. Il lavoro per quasi due campagne complete era apparso difficile, duro, per la grande quantità di pietre di varie dimensioni che erano immerse nello strato di
humus, e in verità con poche soddisfazioni per quel che riguardava le scoperte. Nel corso dell’ultima settimana della campagna 2009, durante un tardo pomeriggio alla fine della giornata di scavo, fermandoci con alcuni colleghi ci venne un sobbalzo perché la fine dell’asportazione dell’humus e la messa in luce di uno strato di limi su tutta l’area investigata aveva evidenziato la presenza di un’ampia quanto assai strana area aperta che si estendeva per una buona metà dell’area. L’ampiezza della struttura, che appariva circoscritta da un muro sul quale si aprivano più ingressi, poneva subito importanti problemi di interpretazione non solamente della stessa ma anche di tutte le aree aperte, gli ambienti chiusi e le “insulae” che vi gravitano attorno. La campagna 2010 ha ulteriormente chiarito la funzione di questo ampio spazio aperto, all’interno del quale vi è anche un pozzo perché, soprattutto nel settore occidentale, abbiamo potuto portare alla luce un lastricato formato da grandi lastre di arenaria spesse circa 15 cm. Appare evidente come questo spazio, che ha un suo andito principale nel settore meridionale e sul quale si affacciano mediante degli ingressi ambienti chiusi e spazi aperti, non fosse privato ma fosse deputato a essere un luogo di riunione e di mercato “della comunità” e dei mercanti che arrivavano in questa parte della Sardegna. Questa sorta di piccola piazza fa parte di un programma urbanistico che è ben ancorato ai modelli dell’edilizia privata o sacra tardo nuragica come si può ben vedere a Barumini, a Sa Sedda ‘e sos Carros, a Gonnesa dove, a partire dalla tarda età del Bronzo, le capanne vengono sostituite da edifici a più vani posti attorno a uno spazio aperto.

Ciò che differenzia S. Imbenia da questi siti è la dimensione assai maggiore dello spazio aperto, non compatibile con i precedenti modelli: questa differenza può essere interpretata come l’”esplosione” di un modello privato al fine di creare uno spazio comunitario. Si tratta a ben vedere di un progetto unitario che coinvolge tutta l’area dei vecchi e nuovi scavi modifica in maniera radicale gli spazi, trasforma le antiche capanne circolari, crea edifici a più vani: non casualmente tutto ciò avviene a poca distanza dalla capanna delle riunioni, altro luogo deputato alla comunità piuttosto che a un uso privato. Da questo punto di vista l’area indagata è portatrice di un’altra grande novità nel panorama urbanistico della Sardegna: qui infatti possiamo cogliere il segno della trasformazione che si compie
mediante l’alienazione di quelli che si configuravano come spazi privati per la creazione di un luogo della comunità, pubblico. Su questo spazio aperto, come abbiamo già detto, si affacciano molti ambienti: alcuni sono chiusi e si concentrano nel settore meridionale. In uno di essi, dopo l’asportazione dell’humus e dello strato di limo che sigillava le fasi di vita dell’ambiente, abbiamo messo in luce un pavimento all’interno del quale è venuto alla luce uno ziro ancora uno volta riempito da panelle di rame, da asce e da un’impugnatura di spada in bronzo: si tratta, anche in questo caso, di un ripostiglio che appare connesso con quello che a noi appare come un ambiente adibito allo scambio, in altre parole una bottega. La realizzazione del ripostiglio avviene nel corso dell’VIII secolo a.C. poiché la fossa che serviva per alloggiare lo ziro è stata scavata in un piano pavimentale che rimonta a questa data e i materiali del riempimento della stessa sono coerenti con questa datazione. La qualità degli oggetti contenuti in questo ripostiglio è abbastanza differente rispetto ai materiali dei due rinvenuti nella contigua capanna dei ripostigli: in particolare in questo spicca la presenza di 8 asce a margini rialzati riferibili a tipi diversi.

Alcune asce hanno un fusto di maggiore spessore, altre sono meno spesse e presentare il fusto rettilineo oppure lievemente curvilineo secondo un modello di ascia ancora oggi usato per la carpenteria navale. Gli altri ambienti devono essere ancora investigati ma quel che possiamo suggerire fin da ora è che appare necessaria una riflessione sull’uso di questo settore dell’abitato: infatti si potrebbe ipotizzare che esso, nato per esigenze abitative, venga profondamente ridisegnato modificandone la destinazione d’uso. Ci piace pensare che questa zona del sito di Sant’Imbenia possa essere interpretata come il cuore commerciale non solamente di questo abitato ma di un più ampio territorio: qui convergevano i prodotti che venivano scambiati fra i gruppi umani che vivevano in questa parte della Nurra, qui avvenivano gli scambi anche con i mercanti che arrivavano da Oriente in questa parte della Sardegna. Ciò avveniva nello spazio aperto che abbiamo portato alla luce in questi ultime campagne di scavo mentre le insulae che stiamo ricostruendo potrebbero aver avuto la funzione di “punti commerciali di rappresentanza” che ciascun villaggio presente nel territorio in questione aveva. Se questa interpretazione coglie nel vero il sito di Sant’Imbenia non assolverebbe solamente al compito di luogo deputato al commercio e allo scambio con mercanti allogeni ma potrebbe essere visto come centro catalizzatore e calamita dell’economia della Nurra meridionale.
Da questo punto di vista possiamo anche inferire che dietro i profondi mutamenti resi evidenti negli scavi e che si riferiscono a una profonda trasformazione in senso urbanistico nel villaggio vi siano ancor più grandi cambiamenti nella economia e nella società di questa parte della Nurra: innanzi a tutto la presenza di richieste di scambio che provengono da un mondo esterno hanno provocato una trasformazione del modello economico che con evidenza passa da un’economia di villaggio più o meno strettamente votata al mantenimento della sussistenza a un qualcosa di più complesso e organizzato che deve creare eccedenze necessarie per lo scambio di prodotti con i mercanti.

Appare evidente che questi scambi non riguardassero solamente i metalli (di cui tutto l’entroterra è assai ricco) ma anche, per quel che è possibile documentare archeologicamente, prodotti della terra come il vino. Già nel IX-VIII a.C. il vino della Nurra meridionale era conosciuto nel Mediterraneo e veicolato a Cartagine, in Etruria e nella Spagna meridionale in contenitori che risentono in maniera determinante dell’influenza delle anfore cananee dell’inizio del I millennio a.C. e che sono note come “anfore di S. Imbenia”.


Ci chiediamo, a questo punto, se tutto ciò che stiamo iniziando a verificare attraverso gli scavi a Sant’Imbenia non presenti tutti i presupposti per ipotizzare un superamento di quel livello di economia di villaggio e di quella organizzazione per villaggi che si ha nel corso dell’età del Bronzo tardo: in altre parole ci domandiamo se la presenza di uno spazio collettivo e pubblico che noi interpretiamo come area aperta per fare commercio, assieme alle possibili trasformazioni del modello economico, non possa essere elemento sufficiente per considerare il processo che si pone in essere a Sant’Imbenia come l’inizio di un percorso simile a quel che avviene in altre parti del Mediterraneo, in particolare nella penisola italiana, e che conosciamo come un’esperienza di tipo urbano. Con questo non si vuole affermare che sia esistito un modello al quale gli abitanti di Sant’Imbenia si siano riferiti o dal quale siano stati influenzati dall’esterno, al contrario: questa esperienza sembra nascere e svilupparsi all’interno della compagine indigena con proprie caratteristiche e peculiarità. Non appare l’esito di un’influenza esterna, proveniente da Oriente, ma una risposta esito delle trasformazioni che avvengono da un punto di vista economico e sociale all’interno
della società tardo nuragica: e d’altra parte questo tipo di risposte, nelle civiltà che si specchiano sul bacino del Mediterraneo, riflette forme di trasformazione che appaiono abbastanza simili seppure con forme e tempi differenti.

Fonte: L’Alguer, periodico di cultura e informazione. Luglio/Agosto 2010

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